VII.
Come per un segnale che avesse anticipato
il morire del crepuscolo e il nascere della notte, scritte e scritte luminose s’intersecarono
dai marciapiedi ai vertici dei grattacieli, aggrovigliandosi per ferra e contro
la congerie dei mille ordegni metallici in aria.
« Il vostro radiocallifugo
s’irradia da qui: rammentatelo! »; « Avete abolita la
tisi, avete abolito il cancro; e non volete abolire la calvizie? Abbonatevi
alla nostra cura hertziana capellifera che vi segue a
vostra insaputa ovunque andiate »; « Vasellame infrangibile per proiettili
lunari »; « Siate moderni! Non perdete tempo a ingerire le pillole sintetiche dei vostri pasti!
Abbonatevi alla nostra radioemissione di raggi
infrarossi: da tremila calorie in su per giorno ».
E in cielo, frattanto, poderosi
proiettori avevano cominciato a svolgere l’usuale giornale:
« Diecimila lire la nostra crociera al Polo Sud. Durata tre
giorni. Trattamento Hôtel di prima classe con riscaldamento
per radio: 20° C. garantiti invariabili. Inscrivetevi! ».
« C’è della gente pessimista? Questa sarebbe condannata alla
sconfitta nella vita! Vada a vedere la « Conquista del Pianeta Marte » fonocromofilm stereoscopico d’avventure. Colossale
capolavoro. Esso inspira desiderio di potenza e di espansione
imperiale nell’Universo. Andatevi se volete guarire dal pessimismo.
«Visitate l’Atlantide! Crociera archeologica sottomarina di una settimana, con sosta e
conferenze dei più insigni archeologi sopra le città più rimarchevoli del gran
continente sommerso ».
«Dateci buoni polmoni, buon cuore, buone arterie e buoni
nervi! E noi vi garantiamo in un anno il Diploma di
Pilota Interplanetare e Siderale. Collegio di prim’ordine; rette mitissime. Giovani, questa è la carriera
di domani! ».
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Gli altoparlanti diffondevano ovunque i loro consigli, le
loro musiche, il loro verboso frastuono fra squillare di trombette e di sirene
d’ogni sorta.
— Viola, fai il piacere: lasciami al primo albergo che vedi.
Non sto bene — disse umilmente Al.
— Cosa? Ho lasciato ben
comunicazione a papà di condurti da lui stasera!
— Non posso: ho un dolore di capo tremendo. Ed era la verità.
Venne così la mattina del lunedì, 2 giugno.
Viola ripassò a prendere Al ristabilito ma più immusonito
che mai e in un quarto d’ora furono agli Stabilimenti Falqui.
Qui una prima sorpresa attendeva Viola. Gli usuali ingressi
erano chiusi, si sentiva un sordo ronzare e pennacchi di candido vapore
salivano nell’aria. Ora quel vapore non poteva essere prodotto che dall’acqua
di raffreddamento attorno alle cupole dei potenti forni elettrici, mentre il
ronzio attestava il funzionamento di molti macchinari.
Con gran seccatura di Al il quale
scambiava per una posa l’improvvisa esaltazione di Viola, questa mugolava di
disappunto a ogni nuovo portone che non si apriva.
— Papà ha dunque ripreso il lavoro!...
Possibile?... « Solo iniziare il lavoro in serie quando sia ottenuto un nuovo
automa perfettissimo... ». Dunque!...
Al, vai a farti friggere! Non abbiamo più bisogno di te...
E si trovò davanti a un ingresso
camuffato che ai tempi di attività degli stabilimenti aveva servito alla
Polizia Corporativa per le sue ispezioni di sorpresa. Subito le venne alla
memoria il comando in speciale modulazione che anche lei, da bambina, aveva
emesso tante volte per giuoco: — Porta, Lupa — 2766,
apriti!
E come allora così adesso il meccanismo fonoelettrico
che azionava la serratura, alle precise parole,
scandite nella precisa modulazione fissata, funzionò. Tutto un pezzo di muro si
spostò e l’elettroauto con Al
e Viola fece ingresso in un portile semioscuro.
Qualche cellula fotoelettrica di selenio dovette però
scoprire l’irruzione; e segnalatori squillarono.
Non era la vettura intieramente
entrata che delle ombre dall’apparenza umane si scagliarono in avanti contro la
cosa che entrava, indifferenti della sua natura. Il veicolo imboccava il
cortile in pendenza a discreta velocità, ma contro quelle ombre dalla fragile
apparenza s’inchiodò sfracassandosi mezza.
L’urto era stato di tale intensità che Viola ed Al furono strappati dal loro posto e proiettati in aria.
Stavano perciò entrambi per andare a schiacciarsi contro il
selciato a cinque o sei metri di distanza, quando una
nuova sagoma umana che sopravveniva in quel momento vide, comprese, si slanciò
avanti a braccia protese.
Chiunque sarebbe crollato a terra: costui invece con un
lungo ondeggiamento di precisione sincrona assorbì su sé, senza neppur perdere l’equilibrio, tutta la violenza dell’urto.
Lasciò cadere a terra uno dei due corpi che aveva ricevuto, cioè
Al; ma trattenne delicatamente quello della fanciulla che era solo svenuta.
Anche Al ebbe coscienza di essere
rimasto illeso, di venire agguantato alla cintura e sollevato come un sacco di
cenci da una mano erculea, di venire scrutato senza poter essere riconosciuto;
e di venire, infine, palleggiato verso l’esterno da altri esseri di
straordinaria forza. Prima di capir bene cosa accadesse
si trovò di nuovo fuori.
Tutto ciò era durato pochi istanti; così che ancora il
meccanismo automatico che azionava la porta non aveva
avuto tempo di richiuderla per intiero. Attraverso un ultimo spiraglio, Al ebbe modo di vedere la massa arancione ed esanime di Viola
che veniva trasportata verso l’interno. Ma quando poté
alzarsi e riflettere davanti a lui non esisteva che muro e muro, senza una
prova qualsiasi che l’assicurasse contro l’ipotesi di un vertiginoso sogno.
Sola prova della realtà il fatto che un minuto fa era ancora
nell’auto accanto a Viola mentre adesso si trovava solo. Strano come questa
solitudine gli sembrasse ora malinconica.
— Viola! — chiamò a gran voce una volta, tante volte, con in risposta il monotono, sordo ronzio diffuso attorno a
tutto il recinto degli stabilimenti.
Eppure la ragazza doveva essere rimasta illesa come lui,
pensava Al, ed aver avuto il tempo, adesso, di
riferire e di farlo entrare. Non sapeva valutarsi se più ridicolo o più
infelice. Perplesso e irritato dopo un’ora di vana attesa se ne ritornò via.
Quando fu capace di ritrovare il suo albergo era già
mezzogiorno.
Si precipitò per prima cosa alla cabina
dei telefoni, ma nonostante tutte le più fiorite imprecazioni in canadese, non
riuscì a guadagnarsi dalla sorte il favore di una comunicazione con gli
Stabilimenti Falqui. Volta per volta qualunque degli
apparecchi e qualunque dei sistemi non gli diede altro risultato che il segnale
« occupato ».
Così perse l’ultimo freno e si diede a
inveire nell’atrio come un ossesso asserendo che dovevano esserci comunicazioni
o messaggi per lui. E invece non ce ne erano: nessuna
delle fonoagende conteneva una riga o un fonomessaggio. Uscì nelle vie; infelice e disorientato come
un cane randagio.
Un profumo. E subito una voce
assicurava: « ...lieta di dichiararvi che questo è il solo profumo che uso e
userò io. Lina Birichina. Entrate dunque e chiedeteci
il profumo che vi consiglia la celebre diva del Varietà ».
Un colore diffuso nell’aria. E
subito un’altra voce: « Donne, vivete nello sfondo e nel colore che meglio può
far risaltare il vostro genere di bellezza. Chiedeteci un preventivo gratis per
l’installazione dei nostri apparecchi cromoradianti
».
Un continuo sommuoversi di fiori in una vetrina, « I nostri
fiori finti sono i preferibili per profumo e bellezza ai veri. Acquistate un
nostro vaso da fiori radiofotogeno e noi
v’irradieremo a domicilio il fiore e il profumo che di giorno in giorno ci ordinerete ».
Reclame. Reclame.
Reclame. Questa era dunque la sola realtà ossesionante
e continua delle genti meccanicizzate?
E se anche Viola, anche suo padre non avessero fatto
altro che reclame? Un trucco con quelle ombre nel cortile, Al andava rimuginando; che chiunque avrebbe dovuto qualificare
automi a giudicarne dalla loro forza?
Senonché
la propria eleganza appariva ad Al ormai inutile. Tornò all’albergo per
indossare uno dei suoi soliti « intieri » di carta
color degli agrari: chiaro a palline verdi. E rimase dentro in
vana attesa di qualche comunicazione. In questo modo il lunedì 2 giugno
passò.
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