XIII.
Era solo al mezzogiorno del martedì 3 giugno che il segreto
di Zeta Otto doveva essere rivelato a tutto il mondo da E. I. Sedana.
Restava il dubbio sulla veridicità di questa rivelazione e
un’inchiesta fu ordinata.
E fu allora che la polizia si rammentò di uno
chauffeur berlinese, tal H. Schimdt,
trattenuto in questura fin dal mattino del 29 maggio sotto l’accusa di pazzia
simulata.
Mentre guidava un autocarro con rimorchio
era incorso sull’autostrada Firenze-Roma in un
misterioso incidente dal quale la sua macchina era uscita danneggiata.
Versione fornita: l’investimento di un uomo di ferro!
Quale straordinario valore non aveva perciò improvvisamente
assunto la sua deposizione! Le edizioni straordinarie dei giornali l’avevano
diffusa. Altre deposizioni erano venute da parte dei passeggeri di una vettura
tranviaria: tutto il percorso di Zeta Otto era stato ricostruito. E il nome degli stabilimenti Falqui
era stato fatto. I magistrati e i delegati delle Corporazioni Operaie vi si
recarono precipitosamente.
Era la mattina del mercoledì 4 giugno. Gli stabilimenti
erano stati trovati chiusi e fu dato ordine agli agenti di effettuare
la scalata. Alla loro testa si pose il brigadiere Ettore Molini: doveva il suo
nome entrare nella storia come quello della prima vittima delle guerre
industriali del mondo. Infatti
non aveva raggiunto l’orlo della muraglia che fu visto cadere immediatamente
incenerito. E le prove di una protezione elettrica
furono acquisite.
Tutte le autorità erano presenti per cui
non ci fu bisogno di piantonare il cadavere. Ma come se il
cadavere fosse stato lasciato ugualmente sul luogo i curiosi cominciarono ad
affluire e fu necessario stabilire un primo cordone di Milizia Volontaria per
trattenere la folla distante dalle mura pericolose. Ma
intanto la voce si era sparsa e già arrivavano le mogli e i parenti dei 1300
operai ingaggiati in turno straordinario e continuo.
In attesa quindi delle decisioni
delle autorità si dovettero raddoppiare le truppe. E
tutti i dintorni degli stabilimenti furono un mareggiare di folla concitata.
Non era però più la polizia che poteva prendere decisioni; e
verso il pomeriggio risultò chiaro che ogni suo potere
era stato trapassato alle più alte autorità del Governo.
Infatti l’Accademia dal giorno
precedente si può dire non si fosse virtualmente più chiusa. Le tendenze emerse
erano naturalmente due, opposte fra loro; e poiché la risposta ai tre punti di Sedana tardava, il Governo si trovava
nell’impossibilità di emanare disposizioni prima che
la cultura e la scienza si fossero
pronunciate.
Fu così che l’indomani le prime agitazioni cominciate nel
Consiglio delle Corporazioni trovarono energica eco nel Gran Consiglio del
Partito di Stato e che alle 4 p. m. il colpo del
Governo era stato fatto. Assunse il potere Marco Mundus
e questi ebbe alfine il coraggio di scavalcare l’Accademia e di assumersi la
responsabilità delle operazioni.
Prima delle quali: l’ultimatum agli
Stabilimenti Falqui, intimato mediante messaggi
lanciati da aeroplani, di sospendere ogni attività e di congedare tutti
gli operai entro 12 ore.
Le 12 ore però scadettero la
mattina del venerdì 6 giugno senza che nulla si fosse prodotto e Marco Mundus diede ordine ai pompieri di studiare ed effettuare immediatamente l’invasione degli stabilimenti;
trapassò la faccenda in mani militari quando si delineò l’insuccesso dei
pompieri.
Roma era intanto diventata una babele; dimostrazioni nelle
vie, forestieri che arrivavano a migliaia, curiosi innumerevoli attorno agli
stabilimenti, dicerie d’ogni genere, manifesti di associazioni,
comizi ed eccitazione enorme. Panico quando la sera si videro le prime autoblindate avviarsi lungo l’autostrada.
Ma questo era nulla; l’indomani
mattina, sabato 7 giugno, si videro arrivare alle stazioni anche i mastodontici
traini dell’Artiglieria da Assedio, mentre i giornali riportavano il bando per
la mobilitazione della Milizia Volontaria.
Ultimo freno era la presenza di 1300 operai entro gli
stabilimenti. Imponevano ragioni di salute pubblica la tremenda misura di
sacrificarli? Il tentativo di penetrare negli stabilimenti attraverso brecce
praticate con la dinamite era stato frustrato dalla
protezione dei raggi ultravioletti e Marco Mundus,
come chiunque altro al suo posto, esitava.
Verso mezzogiorno ne furono improvvisamente messi in libertà
200; erano i fonditori.
Furono loro i più stupefatti di
trovarsi attesi sul posto dai familiari in lagrime come dopo un disastro
minerario. Ignoravano tutto. Il loro lavoro era stato ripartito in modo che potevano dire ben poco. Sapevano di automi,
certo, per averne visto alcuni modelli già in funzione ed avere anzi da certuni
ricevuto ordini. Ma altro ignoravano.
Senonché
Marco Mundus da quel primo scaglione di operai messo
fuori arguì che i lavori erano ormai sul finire e che ogni ritardo avrebbe
potuto avere conseguenze irreparabili.
Alle 3 pomeridiane la Milizia fece sgombrare per gran raggio tutte le vicinanze degli Stabilimenti Falqui e fu dato ordine di radere ogni cosa al suolo; anzi,
a motivo di laboratorî sotterranei, fino al sottosuolo.
Una squadriglia di 40 aeroplani da bombardamento prese quota
e alle 3,12 le prime bombe di superesplosivo, con infernale frastuono,
comunicarono alla terra vibrazioni da terremoto.
Comandante della squadriglia era il Generale Vittorio Lagreca. In sé medesimo aveva presa la cosa per un bluff ed
era irritato per il compito affidatogli che egli qualificava: un inutile
eccidio di pupazzi.
Ma dissipatosi l’immenso cumulo di
gas giallo-verdi, qualcosa di singolare colpì i suoi sguardi dalla parte
dell’autostrada. Un migliaio di uomini fuggiva
selvaggiamente mentre lo spazio dietro loro lasciato libero si punteggiava di
altri veloci esseri occupati a sparpagliarsi su un gran raggio come per una
strana parata.
Fu creduto dapprima trattarsi di qualche carica della
Milizia contro i curiosi o i facinorosi, ma non si tardò a capire che non era,
lì, questione di una carica, ma di evoluzioni intese a
mettere degli esseri in formazione militare.
Strana formazione, in verità, che ripartiva gli individui a uno a uno secondo i vertici di tanti grandi rombi distanti
cento metri ognuno dall’altro; mentre si aprivano fra loro nella terra buche
fumanti.
Con un’imprecazione il Generale Vittorio Lagreca
capì: gli uomini visti fuggire poco prima erano i 1100
operai messi in libertà dopo aver espletato tutto il loro compito; gli altri
che facevano evoluzioni erano quelli che egli aveva chiamato « pupazzi ». Gli
automi.
La loro formazione aveva lo scopo di offrire il minor
bersaglio ai grossi calibri. E gli uomini di fil di ferro, insensibili alle scheggie
di granate, ai piccoli proiettili, ai gas venefici, alle micidiali radiazioni
elettriche, poco dopo erano già in marcia verso la metropoli eterna.
|