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Ciro Kahn
L'uomo di fil di ferro

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  • PARTE SECONDA IL MITO
    • I. La sventura del signor Bonaventura.
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PARTE SECONDA

IL MITO

I.

La sventura del signor Bonaventura.

Martino Bonaventura poteva esser considerato eccellente figliuolo in questo mondo come era ottimo ortolano. Era genuino come una delle tante rape che egli coltivava, ma era anche un tifoso sportivo di tipo preoccupante.

Infatti se ne veniva ogni domenica mattina fino ad un angolo del suo orto che guardava sul Tevere, e si perdeva da nella contemplazione di un barcone ancorato presso la riva. Ora nulla ci sarebbe stato di male se il barcone non fosse stato quello adibito a spogliatoio dell’Unione Nuotatrici.

Ad esser chiari Martino non vedeva di questo spogliatoio natante niente altro che l’uscio, protetto per di più, all’interno, da una cortina più opaca di una montagna.

Ciò comunque non toglie che una lezioncina ci voleva.

Come al solito anche quella domenica, 8 giugno, questo preoccupante tipo se ne stava ben bene accomodato al suo posto, meglio che non in una poltrona di prima fila allo Stadium; ma tutto malinconico e accigliato.

Si è che contro al solito un gran silenzio gravava sui luoghi e non una nuotatrice, non una barchetta si vedeva nelle acque.

Dopo aver letto i giornali, Martino sospirava: se era la guerra che produceva quelle conseguenze cominciava a trovarla una cosa sgradevole.

Tutto il cannoneggiare del giorno precedente, tutta quella faccenda di automi in marcia verso Roma, arrestati a stento sul far della notte dagli allagamenti difensivi escogitati dalla Milizia; tutta quella storia di macchine in guerra contro uomini gli era riuscita troppo complicata per significargli qualcosa.

Ma quell’assenza di bagnanti, quella mattina splendente e sciupata: questi si, finalmente, erano dei fatti alla sua portata.

Stava indeciso se ritornarsene via quando le acque tranquille sotto a lui lasciarono travedere un’ombra che ascendeva verso la superficie: una bagnante? E da dove veniva se non anima viva era uscita dallo spogliatoio del barcone deserto?

Martino convogliò tutta la sua forza vitale negli occhi.

L’orologio di una chiesa scandì due colpi acuti e nove gravi; ed erano perciò le nove e mezza in punto, ma Martino sopraffatto di maraviglia non udì.

L’ombra nel fiume non nuotava ma camminava nel fondo, presto rag­giunse la riva ed emerse a poco a poco. E l’ortolano vide un’armatura come uno scafandro metallico per palombari di gran profondità.

Una cosa simile nel Tevere non si era mai vista. Lo strano palombaro, mezzo rilucente e mezzo coperto di melma, era ormai tutto fuori; ristette un po’ girandosi intorno con l’evidente scopo di osservare i luoghi e siccome tutto il casco era ricoperto di erbe e di fango, con le mani ne nettò la parte anteriore.

In questo modo quel semplicione di Martino poté vedere e capire; non di un palombaro si trattava ma di un automa; per cui sentì che il terrore lo stava pietrificando o uccidendo e non fiatò, facendosi il più invisibile possibile dietro alcuni cespugli.

Nonostante fosse di domenica le strade erano percorse solo da gente preoccupata e frettolosa che non guardava nel fiume: l’automa si rannicchiò a sua volta fra le erbe e nessuno poté dare un allarme.

Dopo il primo ne emerse dalle acque un secondo, poi un terzo, poi un quarto. Poi, a quattro a quattro ogni minuto, altri automi continuarono a venire fuori e ad appiattarsi tutti infangati accanto ai precedenti.

Non era passato un quarto d’ora di quella scena fantastica la quale a Martino sembrava destinata a prolungarsi indefinitivamente come un incubo, quando un nuovo personaggio apparve a drammatizzarla in un imprevisto modo.

Era costui pure un automa ma di statura più bassa degli altri che erano alti come corazzieri. Non nudo ma ricoperto d’indumenti di cuoio e così rassomigliante a un uomo, tanto era perfetta la rifinitura del suo volto, che Martino avrebbe potuto scambiarlo per tale ove non ci fosse stata quell’impossibilità per un uomo di camminare sotto le acque di un fiume, indifferentemente come nella più agevole delle strade.

Costui doveva essere un comandante obbedito ciecamente e si guardò attorno con occhi molto più acuti dei suoi simili, tanto che lo stesso Martino rabbrividendo temette di essere stato scoperto.

Ma non era di ciò che si era trattato: il sopraggiunto doveva aver apprezzata la tranquillità dei luoghi come sufficiente all’attuazione di un piano che al povero Martino apparve tanto illogico quanto macabro.

Si era chinato un po’ sott’acqua a cercare qualcosa, poi era riemerso sollevando con sé questa volta due cadaveri: uno di un uomo d’età e l’altro di una donna giovane e bionda. Entrambi erano rigidi come se la morte datasse da lunghe ore e nessun dubbio vi era che riuscissero all’aria dopo una lunga immersione.

Il perché della presenza di quei due cadaveri fra gli automi era per il nostro ingenuo osservatore un mistero; ed egli vide colui che li aveva tratti a galla farsi aiutare a deporli entrambi sulla scaletta del barcone, indi introdurli nello spogliatoio.

La cosa era stata così rapida che Martino credeva di continuare a sognare. Finché, giusto come avviene nei sogni, anche lui si trovò d’un tratto trasformato da spettatore in attore.

Non era vero che poco fa esso fosse sfuggito all’indagine dell’automa vestito di cuoio; un cenno era stato fatto, qualcuno era partito strisciando ed ora, fra due automi che gli impedivano ogni fuga, sentì una voce metallica avvertirlo: — Niente gridare e forse puoi conservare la vita; chi sei?

Dopo un minuto buono di paralizzante terrore. Martino poté alfine mormorare: — Un ortolano.

— Dov’è la tua casa?

Martino indicò vagamente dietro a sé. — Vicino.

— Da dove si va?

— Da quella fungaia.

L’orto comunicava infatti con la ripa mediante un antico breve sotterraneo praticato sotto la via e trasformato giusto in fungaia artificiale.

In questo frattempo quello vestito di cuoio era uscito dal barcone e senza più nascondersi, per una scaletta e per un sentiero, aveva asceso la ripa confidando sul suo vestito per non venire rimarcato e riconosciuto a distanza da nessuno. Aveva sentito le ultime parole di Martino, aveva percorso il breve sotterraneo, era sbucato nell’orto, aveva visto in fondo una casetta e un cortile ove una donna, che rassomigliava a Martino come può solo una madre al figliolo, andava e veniva; ed era tornato di fronte all’ortolano che tremava come una foglia.

Bene — egli dissegiovanotto, voi siete fortunato e il vostro avvenire dipende da voi.

E in questo dire si era cavata dal petto una borsa di caucciù da cui estrasse delle banconote di grosso taglio.




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