I.
Martino Bonaventura poteva esser considerato
eccellente figliuolo in questo mondo come era ottimo ortolano. Era genuino come
una delle tante rape che egli coltivava, ma era anche un tifoso sportivo di
tipo preoccupante.
Infatti se ne veniva ogni domenica
mattina fino ad un angolo del suo orto che guardava sul Tevere, e si perdeva da
là nella contemplazione di un barcone ancorato presso la riva. Ora nulla ci
sarebbe stato di male se il barcone non fosse stato quello adibito a spogliatoio dell’Unione Nuotatrici.
Ad esser chiari Martino non vedeva di questo spogliatoio
natante niente altro che l’uscio, protetto per di più,
all’interno, da una cortina più opaca di una montagna.
Ciò comunque non toglie che una
lezioncina ci voleva.
Come al solito anche quella domenica,
8 giugno, questo preoccupante tipo se ne stava ben bene accomodato al suo
posto, meglio che non in una poltrona di prima fila allo Stadium;
ma tutto malinconico e accigliato.
Si è che contro al solito un gran silenzio gravava sui
luoghi e non una nuotatrice, non una barchetta si vedeva nelle acque.
Dopo aver letto i giornali, Martino sospirava: se era la
guerra che produceva quelle conseguenze cominciava a trovarla una cosa
sgradevole.
Tutto il cannoneggiare del giorno precedente, tutta quella
faccenda di automi in marcia verso Roma, arrestati a
stento sul far della notte dagli allagamenti difensivi escogitati dalla
Milizia; tutta quella storia di macchine in guerra contro uomini gli era
riuscita troppo complicata per significargli qualcosa.
Ma quell’assenza di bagnanti,
quella mattina splendente e sciupata: questi si,
finalmente, erano dei fatti alla sua portata.
Stava indeciso se ritornarsene via quando le acque
tranquille sotto a lui lasciarono travedere un’ombra che ascendeva verso la
superficie: una bagnante? E da dove veniva se non
anima viva era uscita dallo spogliatoio del barcone deserto?
Martino convogliò tutta la sua forza vitale negli occhi.
L’orologio di una chiesa scandì due colpi acuti e nove
gravi; ed erano perciò le nove e mezza in punto, ma Martino sopraffatto di
maraviglia non udì.
L’ombra nel fiume non nuotava ma camminava nel fondo, presto
raggiunse la riva ed emerse a poco a poco. E
l’ortolano vide un’armatura come uno scafandro metallico per palombari di gran
profondità.
Una cosa simile nel Tevere non si era mai vista. Lo strano
palombaro, mezzo rilucente e mezzo coperto di melma, era ormai tutto fuori;
ristette un po’ girandosi intorno con l’evidente scopo di osservare i luoghi e
siccome tutto il casco era ricoperto di erbe e di fango,
con le mani ne nettò la parte anteriore.
In questo modo quel semplicione di Martino poté vedere e
capire; non di un palombaro si trattava ma di un automa; per
cui sentì che il terrore lo stava pietrificando o uccidendo e non fiatò,
facendosi il più invisibile possibile dietro alcuni cespugli.
Nonostante fosse di domenica le
strade erano percorse solo da gente preoccupata e frettolosa che non guardava
nel fiume: l’automa si rannicchiò a sua volta fra le erbe e nessuno poté dare
un allarme.
Dopo il primo ne emerse dalle acque
un secondo, poi un terzo, poi un quarto. Poi, a quattro a
quattro ogni minuto, altri automi continuarono a venire fuori e ad
appiattarsi tutti infangati accanto ai precedenti.
Non era passato un quarto d’ora di quella scena fantastica
la quale a Martino sembrava destinata a prolungarsi indefinitivamente
come un incubo, quando un nuovo personaggio apparve a drammatizzarla in un
imprevisto modo.
Era costui pure un automa ma di statura più bassa degli
altri che erano alti come corazzieri. Non nudo ma ricoperto d’indumenti di
cuoio e così rassomigliante a un uomo, tanto era
perfetta la rifinitura del suo volto, che Martino avrebbe potuto scambiarlo per
tale ove non ci fosse stata quell’impossibilità per
un uomo di camminare sotto le acque di un fiume, indifferentemente come nella
più agevole delle strade.
Costui doveva essere un comandante obbedito ciecamente e si
guardò attorno con occhi molto più acuti dei suoi
simili, tanto che lo stesso Martino rabbrividendo temette di essere stato scoperto.
Ma non era di ciò che si era
trattato: il sopraggiunto doveva aver apprezzata la tranquillità dei luoghi
come sufficiente all’attuazione di un piano che al povero Martino apparve tanto
illogico quanto macabro.
Si era chinato un po’ sott’acqua a cercare
qualcosa, poi era riemerso sollevando con sé questa volta due cadaveri:
uno di un uomo d’età e l’altro di una donna giovane e bionda. Entrambi erano rigidi come se la morte datasse da lunghe ore e nessun
dubbio vi era che riuscissero all’aria dopo una lunga immersione.
Il perché della presenza di quei due cadaveri fra gli automi
era per il nostro ingenuo osservatore un mistero; ed egli vide colui che li aveva tratti a galla farsi aiutare a deporli
entrambi sulla scaletta del barcone, indi introdurli nello spogliatoio.
La cosa era stata così rapida che Martino credeva di
continuare a sognare. Finché, giusto come avviene nei
sogni, anche lui si trovò d’un tratto trasformato da spettatore in attore.
Non era vero che poco fa esso fosse
sfuggito all’indagine dell’automa vestito di cuoio; un cenno era stato fatto,
qualcuno era partito strisciando ed ora, fra due automi che gli impedivano ogni
fuga, sentì una voce metallica avvertirlo: — Niente gridare e forse puoi
conservare la vita; chi sei?
Dopo un minuto buono di paralizzante terrore. Martino poté
alfine mormorare: — Un ortolano.
— Dov’è la tua casa?
Martino indicò vagamente dietro a sé. — Vicino.
— Da dove si va?
— Da quella fungaia.
L’orto comunicava infatti con la ripa
mediante un antico breve sotterraneo praticato sotto la via e trasformato
giusto in fungaia artificiale.
In questo frattempo quello vestito di cuoio era uscito dal
barcone e senza più nascondersi, per una scaletta e per un sentiero, aveva
asceso la ripa confidando sul suo vestito per non venire
rimarcato e riconosciuto a distanza da nessuno. Aveva sentito le ultime parole
di Martino, aveva percorso il breve sotterraneo, era sbucato nell’orto, aveva
visto in fondo una casetta e un cortile ove una donna, che rassomigliava a
Martino come può solo una madre al figliolo, andava e veniva; ed era tornato di
fronte all’ortolano che tremava come una foglia.
— Bene — egli disse — giovanotto, voi siete
fortunato e il vostro avvenire dipende da voi.
E in questo dire si era cavata dal petto una borsa di
caucciù da cui estrasse delle banconote di grosso
taglio.
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