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Ciro Kahn
L'uomo di fil di ferro

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  • PARTE SECONDA IL MITO
    • III. Il trionfatore.
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III.

Il trionfatore.

Alle dieci e mezzo della domenica mattina il cordone degli invasori era ormai esteso attraverso tutta la metropoli e le prime schiere di automi in formazione romboidale scalavano le rive e s’irradiavano, silenziosi e spaventosi, per tutte le vie.

Per quanto strano possa ciò apparire, la possibilità per gli automi di camminare sott’acqua non era stata prospettata da alcuno. Dopo ore e ore di cannoneggiamento il pomeriggio del sabato si era dovuto constatare l’inefficacia dei consueti mezzi bellici ad arrestare la loro marcia. Tanto i micidiali proiettili esplosivi delle mitragliatrici che quelli dei fucili non avevano prodotto neppure un’ammaccatura sui loro corpi metallici.

Migliori risultati avevano invece dato i cannoni, ma a patto che il proiettile colpisse in pieno l’automa. E da qui la constatazione di effetti quasi comici. Un mastodontico proiettile da 305, per esempio, non aveva praticamente che lo stesso effetto di un proiettile di artiglieria leggera. E questo si spiega con la rada formazione che gli automi mantenevano. Se un 305 colpiva un automa in pieno allora lo sfracellava; ma solo che gli scoppiasse a due metri di distanza, ecco che tutta quella tremenda energia veniva assorbita dal terreno ove si aprivano le solite voragini. E l’automa naturalmente vi crollava dentro, ma per riuscirne tosto illeso ed indifferente.

Si era cercato di far perdere loro la formazione rada che avevano assunto adescandoli in passaggi che li obbligassero ad ammassamenti, ma essi erano apparsi incuranti di qualsiasi ostacolo: muri, siepi, ordegni agricoli e perfino case. Riflessivi come uomini, testardi come bestie, agili come scimmie, alacri come schiavi, possenti come macchine avevano indifferentemente camminato fra i fossi e sui tetti con la stessa inarrestabilità delle cose inevitabili e fatali.

Ora nessuno fino ad allora aveva studiata l’eventualità di dover colpire con i cannoni un solo individuo alla volta. Per cui solo per un caso, per una combinazione memorabile, si poteva riuscire ad abbattere un automa.

Le autoblindate e le tanks si dimostravano assolutamente ridicole, perché l’automa al loro avvicinarsi si buttava per lungo sul terreno fra le ruote e i cingoli non senza torcere e guastare quel che poteva.

La forza di quegli uomini-macchina era fantastica. Nei primi corpo a corpo che i militi eroici ma illogici avevano ingaggiato, si erano viste catene spezzarsi come spago e grappoli di soldati scagliati per aria come cuscini.

Un puro effetto estetico avevano avuto i lanciafiamme; giacché gli automi erano divenuti stupendamente fiammeggianti senza con questo perdere l’assoluta tranquillità dei loro movimenti. In quanto ai gas tossici se ne era abbandonato l’uso fin dai primi minuti di combattimento.

Di ora in ora il progresso degli automi era stato continuo e inarrestabile mentre invano tutto l’orizzonte si copriva, fra un incandescente lampeggiare, del fumo degli incendi, quando un nuovo elemento entrò casualmente in giuoco: l’acqua.

Il crollo di alcune dighe fece correre d’un tratto per i campi acqua a valanghe e a cateratte e dove le campagne facevano depressioni si formavano laghi.

Ciò che aveva cominciato il caso ultimarono gli uomini. Nell’urgenza del combattimento, nell’ansia di un ripiego quell’acqua era sembrata una salvazione. Dighe e dighe furono fatte saltare e tutto il sistema idrovoro delle campagne attorno alla metropoli servì ad alimentare un’alluvione artificiale; livida e plumbea nel crepuscolo che ormai incombeva.

E fosse che le zolle dei campi formassero con l’acqua una tal pasta argillosa ove gli automi si fossero impantanati, o fosse una sorta di loro sgomento per una sorta di imprevisto, certo si è che fino a quando durò l’energia elettrica i riflettori non riuscirono a far scoprire più nella notte un solo automa.

La mattina era venuta radiosa e gli uomini quasi cominciavano a credere di aver vinto.

Tale era almeno l’opinione di certi signori che discutevano animatamente in un caffè del centro. Avevano allargato sul loro tavolino una gran carta geografica del teatro della guerra e vi stavano sopra ponzando la meravigliosa strategia dei caffè. — Se fossi io a comandarefiniva di dire uno che a parole aveva già decimato e sbaragliato gli automisaprei dunque approfittare anche della loro formazione rada ogni volta che me li trovassi davanti!...

Ma la storia non dice in qual modo. Alzando gli occhi costui aveva visto, oltre lo sfondo di teste che si facevano corona, una massiccia sagoma lucente approssimarsi. E, per quel che si vide, tutta la sua tattica, di fronte agli automi, almeno in un primo tempo, consisteva né più né meno che in una fuga. La confusione successiva gli mise poi modo di sfoggiare il seguito dell’interessante manovra.

Infatti nel centro della Città Eterna, rimasto uguale e immutato pur nel volgere dei tempi e degli stili architettonici, era sfuggita nozione che da un quarto d’ora il volare degli aeroplani, non tutti ancora costruiti di materiale trasparente e quindi invisibile nel cielo era divenuto frenetico e che qualcosa era cambiato nel ritmo cittadino.

Via via che gli automi senza colpo ferire avevano progredito, i tramvai si erano arrestati, i negozi chiusi, i veicoli immobilizzati nel mezzo delle vie tra uno sgattaiolare affannato di gente che intendeva sottrarsi alle conseguenze di un combattimento.

Ma combattimenti sarebbero stati illogici e non vi furono. Fin dalla sera precedente avevano cessato di funzionare le tranvie sospese che scaricavano verso i dintorni della metropoli tutta un’enorme folla di operai e di commessi; e questa gente era rimasta bloccata nei magazzini e nei negozi. La popolazione del gran formicaio umano era quindi duplicata: ogni bomba, ogni colpo di cannone avrebbe fatto vittime innumerevoli fra gli inermi e nessuno ebbe il coraggio di dar l’ordine di radere al suolo la città più storica e monumentale della Terra.

Gli aeroplani saettavano perciò il cielo impotenti e solo utili ad effettuare l’esodo delle truppe e dei ministeri.

In conseguenza al mezzogiorno della domenica 8 giugno Roma si trovò, con tutta la sua popolazione, trasformata in dominio effettivo degli automi; primo paese di conquista di un nuovo impero che sorgeva nel mondo: quello delle macchine.




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