VII.
In quella stessa notte la stessa pallida luna che illuminò
il segnale delle due sciarpe presso a Viola in attesa,
illuminò anche, più distante, più lontano, ai confini della vita, il primo
risveglio di un redivivo: Al.
Non era stato delirio il suo: veramente il muro stava
crollando nell’attimo preciso in cui il giovane vi si abbatteva contro; e
veramente la cortina che attraverso quel crollo aveva investito era stata
acqua. Bollente, indubbiamente, il primo velo che aveva
toccato la sua pelle quando già le fiamme la raggiungevano, ma fredda,
poi, e nemica del fuoco; e in tal quantità che il giovane ne era stato sommerso
per più metri.
Una quercia carbonizzata e divelta dalla battaglia,
trasportata dall’impetuosa corrente, aveva dragato il fondo con i rami portando
a galla il corpo immoto e depositandolo fra la melma là ove le acque si
arrestavano.
Privo di coscienza per una notte e un giorno, era finalmente
ritornato alla vita. Non ricordò niente di quella landa sinistra ove si
trovava, né pensò cosa alcuna che potesse essere di
giovamento a lui o ad altri.
Nudo, piagato, le ciglia e le sopracciglia arse, i capelli
bruciati, le membra dolenti, senza documenti, senza memoria, senza scopo, si
guardò attorno senza curiosità. Solo la sensazione di qualcosa pesante come
piombo nel suo cervello.
Poi, dato che l’istinto non muore, si alzò e vagò. I cani di
un attendamento della Croce Rossa videro quell’ombra
e abbaiarono. Fu dovuto rincorrere come una fiera e
come una fiera fu finalmente catturato. Fu portato entro la
tenda e un cappellano militare dalla lunga barba lo visitò.
— Sembra che non ci sia nulla di leso — disse
alla fine. — Per ciò che riguarda il corpo forse basto io; ma per lo choc nervoso bisogna attendere fino a quando potremo
avere un medico.
Gli altri che avevano assistito scossero malinconicamente la testa. Roma era
crollata in piena follia e nessun servizio funzionava più.
Lo lavarono alla meno peggio,
spalmarono di vaselina le ustioni e le piaghe, lo vestirono con indumenti tolti
a dei morti che quei pietosi erano venuti appunto a seppellire. La mattina del
lunedì 9 giugno fu instradato verso Roma.
I servizi pubblici non funzionavano, l’energia elettrica
mancava, non si vedeva una auto, le campagne erano
deserte. Tagliata fuori dal mondo nel cerchio delle
sue alluvioni e della sua sconfitta la Città Eterna era piena di folla
impazzita.
Fischi salutarono i crocerossini,
contumelie accolsero i superstiti della battaglia e, nella confusione, Al si
ritrovò sperduto e solo per le vie.
La visione delle vie che poteva stimolare qualche memoria in lui non valse che a fargli sentire con ancora più
fastidio quel peso di piombo nella sua testa.
Nutrito dalla carità di qualche pietoso, il volto e la testa
coperti di bende, le membra tutte dolenti, vagò come un mendico.
Qualche reduce dolorante e sperduto come lui gli rivolgeva qualche volta la parola. Ciascuno aveva da raccontare
di una casa lontana, di una famiglia forse distrutta o forse solo dispersa; ma
egli non aveva niente da dire; e il suo frasario, tutto un miscuglio slegato di italiano e di inglese, a poco gli serviva.
Sentiva certo che qualcosa doveva esservi dietro il suo
presente, ma ciò restava sepolto sotto quel blocco di piombo nella sua testa.
Cercava di crearsi una coscienza e una comprensione nuova
ascoltando e osservando avidamente.
Ogni tanto passavano degli automi impassibili e rapidi; e la
gente si faceva plaudente alle finestre e alle porte.
Ogni tanto qualche velivolo militare, silenzioso e
trasparente, solcava invisibile il cielo; lasciando a traccia del suo passaggio
miriadi di manifestini che la popolazione sdegnava di leggere.
Solo qualche burlone li leggeva a gran voce nelle piazze per
suscitare le risa e lo scherno.
— Romani, rammentatevi la vostra millenaria tradizione di
civiltà: rammentatevi che siete fatti per comandare non per servire.
— Proteggete i nostri emissari. Seguite i loro consigli per
un ostruzionismo scientifico contro gli automi. Essi sono macchine. Non offrite
al mondo lo spettacolo di un popolo degradatosi fino all’idolatria ».
— ... avete nei
vostri magazzini solo pochi giorni ancora di pillole e di cibi sintetici. Cosa
vi darà dopo da mangiare, o feticisti, il vostro Vitello di Ferro, il vostro Zeta Otto, la macchina e l’idolo che vi siete
costruiti con le vostre mani? ».
Grida e invettive salivano dalla
folla e una bieca animosità contro il resto del mondo di giorno in giorno avvelenava
sempre più la sua passione.
Vedeva Al degli stupendi palagi dalle grandi porte chiuse; ed erano basiliche e
chiese disertate. Vedeva file e file di altre porte
chiuse; ed erano i negozi senza più commercio. Vedeva file e file di porte
sfondate; ed erano altri negozi saccheggiati. Vedeva delle vetrine davanti a
cui la gente sostava a crocchi; ed erano quelle dei negozi per confezioni che
esponevano i modelli della nuova moda inspirata dalle sagome lucenti e
rettilinee degli automi.
Tutta la città ogni giorno si risvegliava sempre più in
idolatria e in follia delle macchine. Fomite di tutte le passioni era la speranza fatta balenare da Zeta Otto di poter ognuno
un giorno assidersi di fronte a un automa vergine, di poter trasporre in esso
la propria memoria, il proprio io; e svegliarsi non più creatura peritura e
umana ma inumana e inconsumabile macchina.
Scene mostruose avvenivano ogni tanto; individui resisi
sospetti di essere emissari del Governo di Marco Mundus venivano linciati e massacrati per le vie.
Era però notevole che pure senza viveri, senza giornali,
senza luce, senza raziocinio, la città isolatasi volontariamente dal mondo tendeva a un ordine e ad un’organizzazione sempre più in
accordo con la propria follia.
Per questo il resto del mondo lanciava manifestini
ogni giorno più espliciti: — ...il Comitato Scientifico Internazionale
sta riunito in permanenza. Come la mente di un uomo ha saputo creare gli
uomini-macchina così saprà trovare il modo di distruggerli prima che sia troppo
tardi.
— Genti di Roma, negate ogni collaborazione agli automi e
disertate la città prima che la fame e la guerra non la riducano
la vostra tomba.
— Voi non curate i nostri comuni feriti;
tentate di abbattere i nostri comuni aeroplani; ci siete divenuti nemici nel servaggio
delle macchine. La nostra pazienza ha dei limiti.
— Abbiamo rinunciato a portare il combattimento nell’Urbe
per non ridurre a un solo ammasso di macerie tutto il
suo tesoro storico; ma il giorno in cui voi stessi vi dimostraste indegni di
questo tesoro e di questa tradizione che la storia vi ha consegnato; il giorno
in cui vi metteste contro la storia umana completando l’officina a cui già
lavorate per i nuovi automi, quel giorno sarebbe l’ultimo per voi e per i
vostri feticci. — In questo modo venne
il venerdì 13 giugno.
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