X.
Il fare vale sempre più del non
fare.
Come l’automa anche Al aveva avuto
di che pensare.
Si era trovato all’alba del 14 giugno in una stanzetta
sotterranea e odorante di muffa che prendeva luce da una feritoia praticata a
livello del cortile di una caserma. Altro non si udiva che il tic-tac del
distributore automatico dei viveri. A mezzogiorno squillò una suoneria e nella
parete si aprì un incavo ove Al trovò una fetta di legnoso cibo sintetico e un
piccolo otre di carta impermeabile colmo di acqua.
Evidentemente il giovanotto si trovava nella cella per la
prigione di rigore.
I suoi primi attimi di coscienza erano stati attimi di esultanza durante i quali era andato avanti e indietro a
passo di danza, solo pago di non sentirsi più uno sconosciuto a se stesso. Le
meditazioni tormentose erano venute quando, ritrovata tutta la propria memoria,
aveva ritrovata anche l’immagine di Viola, ma
intorbidata dall’impressione del colloquio sorpreso nell’orto.
Senonché
la sua opinione sulla condotta della fanciulla trapassò presto dal disgusto e
dalla collera verso l’indulgenza e la pietà.
Al aveva veduto gli occhi
fosforescenti di Zeta Otto ed ora indovinava tutte le potenze magnetiche ed
ipnotiche di cui la macchina era stata dotata. E nel quadro
di demenza collettiva offerto dall’intiera popolazione di Roma
l’episodio di Viola era appena secondario.
Dotato dal suo inventore di sensi e di pensieri umani,
l’automa, grottesco e sublime, si era innamorato della prima fotografia
femminile venuta davanti ai suoi occhi; tanto più che il caso aveva proprio presentata l’effigie più adorabile. Poi vi era stata
addirittura la vicinanza della giovanetta e, nulla importa se lui stesso
ignaro, l’automa l’aveva irretita nel proprio fascino.
La strana rassomiglianza dell’automa con lui, Al, aveva fatto il resto.
Sì, adesso, dopo tanti giorni, dopo tanti patimenti che
avevano lavato nel cuore di Al anche l’ultimo
risentimento per le antiche stizze e per i passati dispetti, egli ben vedeva di
essere stato amato dalla fanciulla fin dal giungere in Napoli, così come egli
l’aveva amata fin da quel primo giungere.
Ecco quindi che le prime ore di meditazione di Al in prigione non erano state, per tanti motivi, prive
di dolcezza.
Dolcezza per l’intuizione di un amore
formatosi solo dopo tanti giorni, dopo tanti patimenti. Non era ormai
troppo tardi?
II vento aveva spinto dal cortile dei fogli attraverso la
feritoia ed anche il giovane era perciò venuto a conoscenza
dell’ultimatum di Marco Mundus. Dimenticato in quella
cella, egli, a quel mezzogiorno del 14 giugno, non aveva davanti a sé che sole
trentasei ore. E dopo?...
La porta, di pietra artificiale, alle spallate più violente
neppure vibrava; le mura erano sottili ma di cemento armato, la feritoia era
così stretta che un gatto non vi sarebbe passato.
Il giovane risolse di chiamare e di attirare l’attenzione di
qualcuno a forza di gridi; ma dopo un’ora si ritrovò esausto e nervosissimo
senza aver vista la faccia di un cristiano. Altre ore passarono lentamente.
Ora là non vi era tempo da perdere; sentendo d’impazzire
dall’esasperazione, a forza di strattoni violenti Al divelse
una sbarra dall’intelaiatura metallica che sosteneva la bocca della tubolatura di scarico per i rifiuti. Salì sul tavolato che
serviva da letto e si diede con quella sbarra a tempestare di colpi il margine
della feritoia; dopo un’ora constatò di avere roso
quasi un millimetro.
A che pro esaurirsi per un lavoro che equivaleva a nulla? Si
ridiede a gridare da selvaggio comprendendo, nel silenzio sempre uguale e
sinistro che gli faceva eco, di rasentare la follia.
Alle sette rifunzionò
l’apparecchio per la distribuzione dei viveri e ritrovò ancora una fetta di
cibo legnoso con la nuova provvista d’acqua.
Evidentemente se egli non si aiutava da sé era perduto.
Come un folle riprese il suo lavoro sovrumano contro la
feritoia e coordinando meglio i suoi sforzi riuscì a duplicare il suo effetto
elevando il suo guadagno di spazio a ben due millimetri l’ora...
Quello che a lui occorreva erano
circa 40 centimetri...
Non volle più meditare, ragionare: con l’ostinazione dei
pazzi, rifiutandosi anche un minuto di riposo proseguì per tutta la sera.
Proseguì per tutta la notte. Proseguì per tutta l’alba. Proseguì per tutta la
mattina. Venne il mezzogiorno e squillò la solita suoneria. Bevve l’acqua e
mangiò il cibo contemplando il risultato del suo lavoro; poco più di tre
centimetri. Non gli restavano che 12 ore sole.
Con le sue piaghe che si riaprivano e sanguinavano sotto le
bende, le unghie rotte, le mani doloranti, la schiena dolorante, gli occhi infiammati
dal pulviscolo che vi cadeva sopra; ma accanito ed
ostinato come prima, più di prima, riprese la sua opera.
Al tocco si trovò ad aver guadagnato ancora qualche
millimetro; di qualche altro millimetro progredì fino alle due. E così passarono le tre, le quattro...
Quando la volontà del giovanotto
scagliata contro l’impossibile suscitò appunto il miracolo.
La porta si aprì lentamente dietro al prigioniero e un
atletico sottufficiale entrò puntandolo con la pistola elettrica.
— Vuoi proprio diroccarmi la caserma? — commentò
ironicamente. — Andando infatti di questo passo in un
millennio o giù di lì raggiungerai lo scopo, non c’è che dire. Solo mi
rincresce che per tutto questo tempo io debba
sopportarmi il miagolio della cellula fotoelettrica.
— Cosa?... — inquisì Al
torbidamente; gli occhi frattanto sulla pistola elettrica; deciso a giuocarsi la vita pur di fuggire.
— Proprio, caruccio mio! La
poverina non è sensibile alle piccole alterazioni architettoniche
dell’edificio. Ma quando si raggiungono i quattro centimetri allora
mi diventa nervosa.
Al si era scagliato. Ci fu una colluttazione che ad Al parve lunghissima ma che in realtà durò appena qualche
paio di secondi. E dopo questa Al si ritrovò, tutto
confuso e massacrato di pugni, sul suo tavolato.
Disperato, con la sua sbarra metallica strappatagli via, si
prese la testa fra le mani e pianse come un bambino, con tanta pena e tanto
strazio che il sottufficiale smise le sue contumelie.
Costui era il solo custode della caserma. Gli avevano
consegnato Al con la raccomandazione di toglierlo
dalla circolazione perché pazzo. E in buona fede aveva creduto di essere più utile al giovanotto tenendolo in quella cella
sotterranea ove bastava otturare la feritoia per premunirsi contro i gas allo
scadere dell’ultimatum...
Quando invece comprese che il
giovanotto, nonostante tutto il gridare che aveva fatto, era perfettamente in
sé, allora agì con lui come con tutti gli altri militi che gli automi gli
avevano già condotti. Gli mise in tasca una piccola riserva di viveri e lo
lasciò libero.
Erano quasi le cinque.
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