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Ciro Kahn L'uomo di fil di ferro IntraText CT - Lettura del testo |
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XII.Gran parata finale.Or come l’uomo chiamò così e guardò, così un fremito corse la folla perché la fanciulla, come destandosi da un sogno, era rimasta dapprima un attimo stupefatta, era poi accorsa tra le braccia di chi l’aveva chiamata formando un viluppo solo, un corpo solo nel macularsi di uno stesso sangue. — Questa — l’uomo gridò arrestando col gesto e con la voce Zeta Otto che si era scagliato su lui — questa, o Macchina, o Cosa, è la potenza che io ti dicevo del sangue e della vita! Rapisci ed incanta di nuovo questa creatura, ma fa’ che diventi una macchina come te, una cosa come te; fa’ che non senta più la pietà del sangue che l’attragga; fa, che non oda più una voce vivente che la chiami; od essa, come udrà e vedrà ti fuggirà in perpetuo! Il grido si era frattanto maturato; il malo fascino si era dissolto. — Macchina! Macchina! — irrise con furore la moltitudine. — Guarda, o folla, questa macchina! E se la sua magia non le vale più a nulla quando il pericolo urge; se il suo pensare è così tenebroso che non si arresta né si accieca neppure davanti a quello splendente tesoro che è una donna; giudica tu, o folla, a cosa vale? — A nulla! A nulla! A nulla! — ruggì furibonda la moltitudine. — Sì, in se stessa non vale a nulla: uno stupido ordegno per cui tutto è uguale; sedere su una pietra come una poltrona, star nella pioggia come star nel sole, riposare come operare, aver delle comodità come non averne... Guarda, o folla, una stupida macchina per cui un bacio e una sassata sono la stessa cosa!… E la folla senza pietà ruggì e rise. Le prime pietre volarono contro Zeta Otto e i suoi schiavi in tal numero e con tal violenza che Al dovette ritirarsi rapidamente indietro trasportando Viola tra le braccia. Il crepuscolo scendeva e i primi pipistrelli incominciarono la loro pazza danza. Incurante dell’ostilità e delle sassate, Zeta Otto era rimasto solo al centro di un largo spazio, immobile come sempre e muto. Ma i suoi occhi avevano seguita Viola; ed egli con lo sguardo non abbandonava né lei né Al che gliel’aveva tolta. Cosa stava pensando? La sua potenza non era certo diminuita; la folla non ne aveva conosciuto ancora che una minima parte sfoggiata solo per difesa; ma di che cosa non poteva essere capace ove stesse decidendo di fare del male? Un semplice suo gesto e tutti gli automi elevarono al disopra delle loro teste un piccolo fascio di verghe di ebanite a cui finora nessuno aveva fatto caso. — Ah!... Ah!... Ah!... Avevi pensato anche agli scacciamosche contro le nostre pietre, o macchina? — irrise la folla. Ma Al si era pietrificato. — La nuova arma elettrica che egli ha escogitato in questi giorni — aveva udito Viola balbettargli — con cui la gente s’incenerisce in terra e in aria a più chilometri di distanza. — E i due erano impalliditi avvinghiandosi ancora più stretti l’uno all’altro. Cosa infatti avrebbe impedito all’automa furente, abbandonato da tutti e tradito anche da Viola, di sterminare quella folla che lo dileggiava? Ed era quello l’attimo in cui nei suoi occhi già balenava il pensiero e il comando da impartire quando i suoi sguardi scopersero in prima fila un volto femminile che non gli era nuovo; di cui riconosceva l’espressione di pietà così adesso come già un’altra volta, una notte, in una vettura della tranvia sospesa. Una povera ragazza, una sartina delle « Mode & Maraviglie » che aveva lavorato alla confezione delle bende e degli scafandri e che doveva prendere parte alla cerimonia della consegna. Tutto ciò che è bene forse non si perde. Zeta Otto esitò a dare l’ordine spaventoso, anzi, stanco, chinò il capo. E il suo corpo, il suo povero corpo gli parve adesso grottesco, così, senza indumenti: tutto spigoli e piastre, tutto ferro e lamiere. E la folla lo dileggiò. — Cosa fai, macchina; guardi quanto sei bella? — Sì — parlò allora l’automa — guardavo il mio povero corpo che questa sera rinserra più gran peso di malinconia che non mai tutti voi assieme nei tempi dei tempi. Grave errore quello di colui che ha foggiato in me una vita che non è vita ove si eccettui il sentimento di solidarietà e di amore per tutte voi, o creature!… — Lapidiamolo!... Lapidiamolo!... Lapidiamolo!... — Amore e pietà per voi, o creature — continuò l’automa sotto la gragnuòla — fino a un grado che non comprenderete giammai perché giammai comprenderete il desiderio della carne e della vita che io ho questa sera!... E lapidatemi pure, solo che siate buoni a trarre dal mio ferro una goccia di sangue!... — Ah, ah, ah!... Buffone, buffone, buffone!... Ma vaneggiava dunque l’automa? Poteva egli pure avere il delirio e la febbre come un uomo? Con le sue dita di ferro asportata la vernice vitrea del suo petto, egli, fra piastra e piastra, tra lamiera e lamiera apriva dei varchi e degli squarci donde appariva l’intrico lucente dei congegni. — Potere con le mie dita trovare un cuore... trovare un sangue!… Sangue!... Sangue!… Veramente come in un’agonia l’automa vacillava. Tuttavia gli schiavi erano rimasti impassibili e inerti con le loro verghe ancora elevate. Solo una ragazza, una sartina, tale Delvaso Anna, fra il piovere delle pietre, ebbe il coraggio di inoltrarsi verso loro e di gridare: — Il vostro capo si uccide! Il vostro capo si uccide!... Zeta Otto infatti si piegava, si piegava sempre più; ma ancora vaneggiava, ancora parlava agli automi accorsi attorno a lui. — ... sangue... sangue... non ce n’è... Oli, portatemi allora nel fondo del più vicino mare!... — ... il più vici-i-i-ino ma-a-are... — ripeterono gli automi. — Sì... c’è da qua a occidente un mare degli eroi e degli dei... — ... di ero-o-o-oi e di dei... — Il Mar Mediterraneo, vi dico, donde è germinata nei secoli la vita di tutto il mondo, la civiltà di tutto il mondo, il sangue più prezioso di tutto il mondo... —... sangue più prezio-o-o-oso di tutto il mo-o-o-ondo... — Così; nulla vi è di irreparabile in me... in me inconsumabile... solo qualche piccolo guasto... Solo un po’ di sonno per non pensare, per non soffrire più... Vi sarà facile ricoprire gli squarci che mi sono fatto. Basterà toccare quella vite che sapete per udirmi un giorno parlare ancora... Sollevatemi sulle vostre spalle. Imboccate il Tevere. Inoltratevi sempre più profondo, più profondo nelle acque fino a raggiungere lo speco più nascosto del mare. Là vegliatemi, là vegliate. E quando un appello pervenga dai fratelli umani in pericolo svegliatemi... Assieme a tutti gli eroi, assieme a tutti gli dei degli obliati miti allora correremo anche noi: per la salvezza e il trionfo della vita in eterno. Obbed... —... il trionfo-o-o della vi-i-i-ita in eterno-o-o-o... Nessuno fece attenzione a un colpo secco poco lungi. E davanti alla moltitudine che incominciava a indovinare il compirsi di un grande avvenimento ed aveva taciuto, gli automi elevarono sulle loro spalle la sagoma irrigidita di quella sorprendente macchina che si era chiamata Zeta Otto. Con i resti dei compagni sfracellati, con tutti i loro ordegni attraversarono la città, giunsero al Tevere; e, nella sera incombente, discesero in gran parata sotto le acque piegando verso occidente. Verso il mare da dove ritorneranno un giorno. |
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