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Ciro Kahn L'uomo di fil di ferro IntraText CT - Lettura del testo |
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II.Uno strano tipo che ha fretta.L’individuo che era uscito nella fonda notte da « Villetta Nadir » si era allontanato frettolosamente. Doveva essere in preda a un’agitazione grande a giudicarne se non dai movimenti, che apparivano di una regolarità così strana da far pensare a una sorta di curioso sincronismo, almeno dall’andatura che ora si rallentava; ora, senza transazione veruna, si trasformava in corsa. Lontano, nella notte, brillavano dietro di lui le colorate strisce alternate e semoventi delle reclames luminose, i fari e tutti i lumi della metropoli; sopra di lui milioni di stelle. Ed era a quella metropoli, nido d’umanità, a quel cielo, principio d’infinito, che ogni tanto nelle sue soste volgeva uno sguardo accompagnato da strani borbottii striduli. Preghiere? Minacce? Tutto sommato il suo andare era rapido e lo strano personaggio non tardò a sbucare in un viale ove sostò presso la fermata della tramvia sospesa. L’ora era tarda e non c’erano altri in attesa; comunque lo sconosciuto salito sulla terrazza evitò ostinatamente gli angoli illuminati. Le vetture nell’orario notturno si succedevano a intervalli alquanto più lunghi che non di giorno; tuttavia non superiori ai tre minuti. È dunque segno che per il misterioso personaggio che si nascondeva nell’ombra, il tempo doveva contare straordinariamente se, in tutta la sua breve attesa, non fece che borbottare e tradire i segni della più viva impazienza. Singolare anche poteva apparire il fatto che, a differenza di quanto normalmente usano fare le persone frettolose, egli non si muovesse su e giù ma restasse col corpo in un’immobilità statuaria. Vera creatura senza nervi. Quando finalmente la vettura giunse sibilando, nella luce che essa diffuse, rivelò qualcosa di chiaro, ondeggiante nello spostamento d’aria, attorno al volto dello sconosciuto. Era un’alta sciarpa di seta la quale nascondeva tutto il viso. Ne portano così coloro che soffrono di nevralgie o di dolor di denti; ovvero coloro che, simulando uno dei due casi, altro non cercano che rendersi irriconoscibili. La testa scompariva sotto un’accurata bendatura nera. Il vestito era grigio a righe chiare proprio dei meccanici. Le mani erano invisibili entro due guanti di pelle giallo-scura. Aveva fatto col braccio un cenno secco per richiedere la fermata e salì diffondendo attorno a sé la realtà o l’illusione di un breve tintinnìo: quasi nelle tasche portasse delle chiavi o delle catenelle o gran quantità di monete. Invece dalla tasca non estrasse che una tessera numerata da operaio siderurgico, la quale valeva ad effettuare qualsiasi percorso gratis su quella linea. Per la precisione è opportuno riferire che la vettura, come fu in seguito appurato, portava il N. 7131. Il manovratore si volse appena a dare un’occhiata alla tessera protesa che portava la dicitura degli Stabilimenti Falqui. Riscontratala in regola, visto che nessun altro passeggero saliva o scendeva, manovrò senz’altro il manubrio della messa in moto. Ed è qui che un piccolo fatto si produsse su cui tutti i passeggeri, in seguito rintracciati, poterono fornire unanimi una impressionante testimonianza. Il nuovo venuto era ancora all’impiedi e la brusca partenza era bastata a fargli perdere l’equilibrio mandandolo a sbattere col dorso contro lo spigolo della porticina d’accesso. L’urto fu tale che avrebbe strappato un’esclamazione di dolore a chicchessia. Invece tutto quello che fu udito, questa volta chiarissimo, fu un suono sordo di ordegni smossi. Il passeggero si era però affrettato a sedersi e la curiosità destata nei presenti si placò quando, sia dal vestito come dalla tessera tuttora tenuta in evidenza, fu logico indurne che avesse con sé strumenti e oggetti di ferro. I passeggeri erano pochi: prevalentemente operai con turni notturni e inservienti di teatri che ritornavano a casa, poche donne, per la maggior parte guardarobiere di clubs e di ritrovi o banconiste di caffè nei Luna Parks; sonnacchiose le più vecchie, piene di sorrisi e di scanzonature le più giovani. Queste, finora, avevano sorriso e irriso alle spese di un giovanotto timido che poco prima, nel passar loro davanti, si era impappinato ed invece di accogliere il loro invito e di andare a cadere fra esse, aveva avuto la pazienza di scavalcare tutte le loro gambe protese per fuggirsene, rosso come un gambero, nell’angolo più remoto. Fu il nuovo salito; con la sua fasciatura, con il goffo traballare di poco fa, quello che esse presero allora di mira. Ma se non fosse stato per gli occhi, che soli nel volto, fra bendatura nera e sciarpa chiara, risultavano visibili, si sarebbe detto che neppure sentisse e si accorgesse. Strani occhi di una luminosità fissa e quasi vitrea! La singolare tinta oliva splendente delle iridi conferiva loro, fra un trapasso e l’altro d’intensa fosforescenza, somiglianze feline e ferine, incomprensibili, come possono appunto risultare incomprensibili, gli sguardi di un gatto o di una gallina. Occhi, sguardi, inespressivi, contro la cui enigmaticità non facevano presa le canzonature delle ragazze le quali, con gran scoppi di riso, parlavano di pance imbottite di chiodi, e di guanti, ridicoli se usati in quel tiepido mese di maggio. Quando venne il loro momento di scendere si sentivano più sconfitte che vittoriose, nonostante che, dal modo con cui l’ignoto si rannicchiò nel suo posto per non farle a nessun costo urtare contro sé, si fosse potuto pensare che anche egli si fosse intimidito. Ma questo era un particolare che doveva in seguito risaltare con ben altro significato. Per il momento quella apparente sottomissione provocò in una delle ragazze un po’ di resipiscenza. Giusto si trattava della Delvaso Anna, sarta a cottimo di ultimo turno presso le « Mode & Meraviglie ». — Lasciatelo in pace! — essa pronunziò distintamente: — Forse è sofferente! Forse tutto ciò che è bene non si perde. Lo sconosciuto aveva udito e i suoi occhi brillarono intensamente fissandosi un attimo su quelli della ragazza che scendeva. Intanto dopo dieci minuti la vettura aveva percorsi circa venti chilometri e, a sua volta, discese anche lo sconosciuto. Esatta distanza dalla capitale il cui fulgore notturno adesso ascendeva attenuato dietro i colli; ventinove chilometri. E il futuro doveva rendere quella distanza di spaventosa attualità. Ma non era con ciò giunto precisamente a destinazione. La massa grigia degli stabilimenti Falqui restava 7000 metri più lontano; cioè oltre l’autostrada. Lo sconosciuto aveva raccolto i pugni sotto le ascelle e in perfetta posa da corridore si era scagliato a corsa in linea retta fra i prati. Raggiunse la scarpata dell’autostrada in un baleno e non la seguì fino al sottopassaggio più vicino ma invece, con imprevista facilità, l’ascese. Davanti a lui l’autostrada si allargava per una ventina di metri, tutta saettata di abbaglianti bolidi. E ancora non esitò. La sua fretta doveva essere tanto grande quanto la fiducia nella propria agilità. Con un balzo aveva scavalcato il parapetto di cemento armato e, mentre le cellule fotoelettriche dei controllatori automatici, intercettata la sua ombra diretta nel pericoloso senso trasversale, facevano prorompere il lacerante muggito delle sirene d’allarme, si lanciò avanti come in un volo. Data la sua velocità ciò che a lui occorreva era appena pochi secondi. |
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