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Ciro Kahn
L'uomo di fil di ferro

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  • PARTE PRIMA L’INCUBO
    • XII. Un superuomo.
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XII.

Un superuomo.

Un periodo di riposo avrebbe indubbiamente guarito l’inventore di ciò che altro non era se non esaurimento nervoso.

Invece una nuova ansia di superazione lo prese, Non più diecimila ma centomila.

Con miracoli di disegno e di adattamenti ingegnosi egli tramutò in matasse di fili magnetizzati tutto ciò che nello Z. 2. era massiccio, ottenendo, con un paragone grossolano ma efficace, di far funzionare un organo contemporaneamente da « cervello » e da « muscolo ».

Non più solo ragionamenti elementari ma anche registrazioni fonomagnetiche complesse. Speciali macchine parlanti giorno e notte in funzione fissarono la Bibbia, i lavori letterarî più noti, compendi di storia, di filosofia, di meccanica, di matematica superiore, di finanza. Milioni e milioni di cognizioni furono immagazzinate in un’orditura metallica che un selettore velocissimo poteva stimolare in rapida successione a simiglianza di quanto avviene nel cervello dell’uomo, ove tanto maggiore appare l’intelligenza quanto più grande è il numero di dati culturali e quanto più veloce è il meccanismo psichico capace di testarli e compararli: creando quella veloce e meravigliosa favilla raziocinante che è il pensiero.

D’altra parte le cellule fotoelettriche a forza di perfezionamenti erano divenute due veri e propri occhi artificiali di quarzo infrangibile; con le loro iridi dilatabili, con le loro palpebre, con le loro sopracciglia aggrottabili; dotati di un corredo non di mille immagini fondamentali ma di diecimila; occhi capaci di leggere, capaci di vedere.

Mentre lo Z. 2. aveva solo tre « sensi » rudimentali: tatto, udito e vista, adesso con congegni chimico-magnetici vennero suppliti anche il fiuto e il palato, non già perché all’automa servissero per il controllo di una nutrizione, ma solo per completare la sua psiche. Allo stesso scopo, nonostante l’inservibilità pratica, venne munito delle qualità istinto-psichiche del maschio. E vennero in più inseriti in lui: il senso d’orientamento magnetico degli ostacoli invisibili come nei pipistrelli che possono volare anche al buio; e le possibilità magnetiche dei rabdomanti e degli ipnotizzatori.

A questo punto, dopo due anni di tormenti, nei disegni di Narcisio Falqui non restava più un millimetro disponibile. E cominciò il montaggio della nuova sagoma umana Z. 2.

Filo a filo, rotella su rotella, rocchetto su rocchetto, piastra sopra piastra, tutto lo scintillante groviglio, tutta la complicata macchina inconsumabile fu compiuta.

E Narcisio Falqui che aveva dimenticato il mondo, la vita, gli uomini, restò esitando davanti a lei. Avrebbe funzionato? Non avrebbe? Con mani tremanti inserì in un ricavo a chiocciola dell’ombelico la capsula energetica ricambiabile di similradium, con gesti e ancora più confusi vi avvitò sopra la chiavetta a segreto...

E attese.

Allora qualcosa di fantastico avvenne: un sussulto animò tutto il groviglio che l’uomo aveva montato; le membra meccaniche si stirarono come in una creatura che si svegli, le palpebre si sollevarono e gli impressionanti occhi di quarzo divennero fosforescenti...

Un trillio stridulo di parole gioconde e senza senso come in un bambino si susseguì. E questo fino a che i selettori interni non si misero a punto con quanto gli occhi vedevano. Poi uno stupefatto silenzio.

Sogno fatto realtà: la macchina pensava.

— Io!... — fu la prima parola che la macchina disse levandosi e andando avanti barcollante.

Rabbrividendo fino alle radici dell’essere, Narcisio Falqui capì di avere creata quella cosa meravigliosa che è una personalità, un individuo.

Non più lo « schiavo » Z. 2., macchina raziocinante buona solo ad eseguire ordini altrui ma incapace di proporsene di propria iniziativa. Qui c’era una macchina con una volontà in lei.

L’automa che nella prima coscienza di vita aveva guardato sbalordito l’inventore, era venuto davanti a lui; poi, con il gesto eterno di tutte le creature, gli si era prostrato davanti come un uomo o come un cane. — Dio mio! Padre mio!

Questa la realtà mitica di un giorno.

In seguito Zeta Otto si accorse che se grande era l’intelligenza del suo creatore, più grande era la propria. Camminò, uscì. Al braccio del suo padrone che, avendo creato non uno schiavo ma un superuomo, non si accorgeva di perdere ogni giorno un po’ della propria autorità, la nuova creatura vestita di abiti umani, girò per le vie, vide, vide, imparò, capì; e così vivificò l’arida cultura che le era stata infusa con un caldo interesse della vita reale.

Nacque l’ambizione, la generosa emulazione. Seppe dei 2000 automi tipo « schiavo » possibili in un mese, in meno di un mese e…

Ma egli adesso si avvicinava nel corridoio e la luce della stanza lo rivelò nel riquadro dell’uscio dì fronte a Viola attonita.

Ella ne misurò la statura appena superiore alla media; la sagoma snella entro un « completo » di cuoio da meccanico, le mani grigio-ferro ma lucenti nelle giunture. E questa era indubbiamente una macchina. Ma non di macchina era lo sguardo che pur nella sua fissità rivelava un pensiero, non di macchina il volto.

Quel volto, nella sua inumanità, era apparso a Viola singolarmente umano.

Quello che era accaduto era semplice : il volto lo aveva modellato Falqui secondo il profilo e le sembianze di un ipotetico giovane dall’espressione meditativa e franca. E il capriccio del caso ne aveva ricavato la copia perfetta di un altro viso: quello di Al.

Ora, a rendere più impressionante la rassomiglianza, come in Al così nell’automa lo sguardo incontrando quello di Viola aveva espresso, sia pure in velo di apparente scontrosità e di studiata freddezza, una cosa identica: l’ammirazione, il nascente amore.

L’allucinazione della fanciulla era stata in un primo tempo così gradita che ella aveva arrossito ed aveva sorriso.

Finché, alla vista di suo padre sottomesso e rapito in cospetto - dell’automa, in un attimo intuì tutte le sinistre conseguenze di un’umanità caduta in servaggio e in idolatria delle macchine. La stessa propria dolcezza di un istante prima le apparve sentimento mostruoso e contro natura. Il raccapriccio la soffocò; e prima che Zeta Otto avanzantesi verso di lei avesse avuto tempo di sostenerla, svenuta per la seconda volta, cadde a terra.

Il gesto di repulsione e di orrore della fanciulla era stato evidente. Zeta Otto aveva ben compreso. Narcisio Falqui, livido e senza fiato, vide chiaramente il disappunto dell’automa. Ma non già vide balenare negli occhi di lui il furore, sibbene un sentimento ben diverso: la tristezza.

La macchina si era quindi evoluta. « Laddove c’è malinconia là c’è un uomo » ha giustamente scritto Shakespeare.

Senza una parola si era ritirato.

L’inventore che aveva temuto l’ira dell’automa restò sbalordito. E sola conseguenza non ci fu che l’impossibilità anche per Viola, al pari di chiunque altro entro gli stabilimenti, di potere uscire o solo comunicare notizie sulla fabbricazione dei 2000 « schiavi ».

Altri automi, come si è visto, facevano buona guardia entro ai recinti.




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