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Ciro Kahn L'uomo di fil di ferro IntraText CT - Lettura del testo |
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IV.Il caduto.Intanto, a quella stessa ora, ai margini della zona di inondazioni difensive, la forma di un uomo incastrata nella fanghiglia stava cuocendo al sole; livida e tumefatta, senza più un pelo addosso, tutta piagata e sanguinante, ricoperta di mosche e già adocchiata dai corvi. Era quello il corpo di Al. Fin dalla sera del venerdì era stata costituita fra tutti i forestieri residenti o di passaggio in Roma una Coorte Straniera; ed Al vi si era arruolato. Era stato con i suoi commilitoni fra i primi ad ingaggiare lo scontro lungo l’autostrada quando, con esaltazione eroica ma illogica si era tentato di arrestare gli automi; di cui ancora si ignorava la potenza, con trappole e catene. Si era battuto da indemoniato, fra i primi a superare il senso di panico e di orrore che gli uomini-macchina avevano inspirato al primo loro apparire. Poi, vieppiù che la marcia degli inarrestabili aveva incalzato, le ore erano divenute lunghe come eternità; ed in questa adatta cornice di eterno aveva planato la Tragedia. Tra le nuvole delle esplosioni, il cielo era rimasto sempre azzurro, la terra sempre rossiccia. Ed è in questi soli colori elementari che si era riassunta ogni idea di vita, in contrapposto all’oscurità delle deflagrazioni più vicine, sopportate appunto carponi e ad occhi chiusi. Attimi di colore e attimi di nero, attimi di nero e attimi di colore. Vita e Morte senza più niente di intermedio quando nell’urgenza del pericolo le artiglierie e gli aeroplani furono costretti a confondere in un solo bersaglio amici e nemici. Non gli automi infatti avevano seminato la morte; che, come fu poi rimarcato, essi avevano avanzato tranquilli ed inermi; ma le bombe, le miscele elettriche fulminanti, le spaventose ventate dei razzi voltaici, le scintille violacee delle frustate galvaniche, le mille proiezioni energetiche dei velivoli contro la terra. E la terra era diventata un solo turbine in cui blocchi massicci di tonnellate di peso volavano in tutt’uno con la polvere e con i gas e con i fulmini fra una ridda di alberi incendiati e di travi in ischeggie. Fra uno sbriciolio di ringhiere e di edifici intieri. Fra il crollo di una casa da una parte e il miracoloso erigersi di una costruzione improvvisa dall’altra. Giacché la nuvolaglia mortale ogni tanto si squarciava; e le autoblindate, le monumentali tanks, vere navi terrestri, apparivano come degli edifici costruitisi in un attimo per magia in quel caos, tutti coronati di violette. Il viola delle micidiali irradiazioni elettriche. Il combattimento si era sviluppato troppo imprevisto acciocché le formule strategiche in cui si era pensato di contenerlo avessero potuto risultare valide, e il caos, giustificato dall’idea centrale del Comando in capo di finirla ormai a qualsiasi costo, era succeduto. Lo spiegamento delle milizie era a poco a poco passato in second’ordine rispetto all’intento distruttivo da raggiungere per salvare la città e la popolazione; e le truppe si erano trovate ora tagliate fuori da ogni azione, ora d’un tratto al centro di un cratere tattico. Il vestito dielettrico si era lacerato, le scarpe e i guantoni isolanti si erano spappolati. Ridotto egli stesso ad un automa, Al, con le dita, il naso, i capelli, tutte le estremità del corpo formicolanti per l’incessante incipriatura elettrica dell’aria, aveva brancolato per ore ed ore in quel crepuscolo artificiale alla ricerca di qualche automa su cui scagliare le bombe a mano delle quali si riforniva su ogni caduto. Strane voci ogni tanto si originavano in quella nebbia, ripetute di distanza in distanza con fedeltà fonografica su cadenze foniche difficili ad imitarsi: — A destra-a-a-a, quarto-o-o-o, qui-i-i-into rombo-o-o-o. Ottan-tesi-i-i-mo rombo-o-o-o, pronto a passa-a-a-are in testa. Ed erano queste le voci degli automi che si trasmettevano gli ordini del loro capo misterioso. Allora Al, a quelle voci, calcolava se poteva veder passare un automa a portata di tiro e si appiattava guardandosi tuttavia anche dagli equipaggi delle tanks. E questi non esitavano a lanciarsi eroicamente avanti con la prospettiva ben dubbia di poter individuare un solo automa e con l’effetto invece certo di segnalare con la massa della tank la fluttuazione del combattimento ai velivoli, ricevendo così addosso una parte delle scariche terremotali che ricadevano dal cielo. Il giovanotto si era dimenticato di tutto, trasformato in macchina pure lui dell’agguato e dell’umanità contro le macchine dell’avanzata e della inumanità. —- Attenzio-o-o-one a raccogliere-e-e-e i pezzi-i-i-i dei co-o-o-ompagnii guasta-a-a-ati... — ritornavano ogni tanto le voci a guidarlo da direzioni imprevedute. Per esso come per gli altri superstiti da tempo non arrivavano più ordini ed invano ad ogni soldato trasmettitore che incontrava, riconoscibile per il caratteristico casco blindato a protezione delle cuffie, chiedeva ordini precisi. — Faccia ogni uomo il più che può! L’umanità si aspetta da ognuno il massimo. — Era ciò solo che veniva risposto. Infatti i radioinformatori avevano perduto il contatto con i propri reparti e le informazioni che davano sulle varie posizioni di combattimento erano contraddittorie; da qui l’impossibilità al Quartiere Generale di elaborare azioni coordinate. E la vasta battaglia era divenuta solo una serie di azioni individuali. Da quante ore? Al non lo sapeva più e nel suo ramingare da una buca all’altra, da un fosso all’altro, appena aveva coscienza, oltre che di una gran sete, di quel miracolo che ora il resistere della sua vita fra tanta morte. Del resto, con l’angoscia della sconfitta nel cuore, egli cercava ora più la morte che la vita. Quando l’orizzonte dietro a lui si variegò di meravigliosi getti tutti splendenti in quella nebbia di polvere e di fumo. Questo significava che, ormai all’estremo di ogni risorsa, un ordine supremo doveva essere stato impartito e supposto eseguito: il ritiro di tutte le truppe dietro le schiere dei Servi della Morte, i lanciafiamme, coloro davanti a cui di vivo non restava più niente. E Al, non avvertito da alcuno, si trovava invece davanti a loro: così vicino che entro la nebbia, nella gran luce prodottasi, poteva distinguere gli uomini infagottati nel loro vestito grigio d’amianto. Camminando carponi per non farsi scambiare per un automa, con l’ostinazione eroica di non farsi tagliar fuori dal combattimento, cercò fra un getto e l’altro di passare al di dietro della schiera. Per quanto tempo? Ogni tanto il getto raggiungeva un automa aspergendolo di liquido ardente, inspegnibile: allora l’automa restava fiammeggiante per più minuti, ma, meraviglia, senza con ciò alterare di una nota l’incessante cantilena: — ...rombi-i-i-i di te-e-e-esta obliquare-e-e-e a sini-i-i-istra... E ogni tanto era anche qualcuno degli uomini vestiti di amianto che si tramutava in torcia. Un guasto, una scheggia di granata che avesse bucato il tubo di lancio, bastava a spruzzare di liquido ardente pure l’uomo che lo dirigeva. Colmo di orrore Al osservava: se l’uomo faceva a tempo a chiudere il rubinetto del serbatoio sulle spalle ed a riparare il guasto prima che il liquido cadutogli addosso fosse troppo, allora, ravvolto nel suo vestilo d’amianto, poteva resistere fino all’estinzione delle fiamme; altrimenti dopo un minuto cominciava a non poter resistere più al calore. Invariabilmente era una sorta di pazzia che succedeva e l’uomo partiva gesticolando in una corsa frenetica; ma si arrestava presto se non già l’arrestava, col getto proprio, qualche commilitone che si vedeva minacciato d’incendio a sua volta dall’approssimarsi del morente. Ormai riuscito a insinuarsi indietro, Al ne aveva visto uno incendiarsi per ben tre volte e riuscire tuttavia a rimediare in tempo. E l’uomo che aveva resistito muto fino a che aveva potuto, si era poi aggrappato carponi a un rottame che sporgeva dal suolo ed era morto dopo aver urlato così spasmodicamente che, nonostante la maschera che gli ricopriva il volto e il frastuono della battaglia, anche Al aveva potuto udire. Ora al giovanotto era sembrato così eroica quella morte di quell’uomo che si era voluto abbarbicare al suolo sino alla fine per non correre come gli altri, che a sua volta si sentì investito da un’ondata di fanatismo eroico. Non appena le fiamme si estinsero, si precipitò sul caduto sfibbiandogli dalle spalle il serbatoio; non aveva tempo né modo di togliergli anche il vestito d’amianto e mise senz’altro in funzione l’apparecchio irroratore di fuoco. Senza maschera, senza occhiali neri, mezzo accecato dalla incandescente luce, si diresse ad orecchio alla caccia degli automi di cui aveva cominciato a riudire le voci. — ... in caso-o-o-o di allaga-a-a-amento resta-a-a-ando senza o-o-o-ordini esegui-i-ire... Finché non accadde quello che doveva accadere. L’apparecchio, evidentemente già guasto, d’un tratto lo spruzzò di liquido dalla testa ai piedi, e, prima che avesse avuto tempo di chiudere il rubinetto, il fuoco, di goccia in goccia, era ormai dilagato sugli abiti. Al non sentì dapprima il calore; solo comprese di far luce nella nebbia col proprio corpo. Non pensò affatto alla morte per alcuni secondi, tanto vero che si affrettò a liberarsi del tascapane colmo di bombe, quasi egli avesse mai potuto aver tempo di sopravvivere nelle vampe fino alla deflagrazione degli esplosivi. Solo successivamente si accorse che la luce che egli produceva nella nebbia correva; che cioè egli stesso, pur non volendo, correva: ciecamente, pazzamente, selvaggiamente. Gridando l’invocazione disperata di tutte le creature in pericolo di vita: — Mamma!... Eppure aveva ben coscienza che ancora il fuoco non aveva toccato le sue carni e che gli restava ancora qualche secondo prima di sentire il vero, il tremendo dolore della carne che si carbonizza. Ma il calore attorno al suo corpo già cominciava a coagulare il sangue nelle vene dandogli il delirio. Non si arrestò che sbattendo contro le pareti di una casa colonica sventrata; o, per restare d’accordo con le sue impressioni, con l’accorrere e lo sfasciarsi di un muro su di lui. E l’impressione non era stata forse inesatta; il giovanotto vide una cortina, perlacea come acqua ma calda come il suo fuoco, cadérgli addosso e pensò, in una parentesi di lucidità nel delirio, appunto di star delirando. Fu una scintilla appena di lucidità, ma la famosa scintilla degli agonici che è sufficiente, in un millesimo di secondo, a proiettare sulla coscienza di chi muore il film lunghissimo di tutta la vita. Si rivide bimbo. Poi adolescente. Questo, quell’episodio... E in ultimo; Roma. Viola. Viola... Questa della fanciulla, l’immagine ultima con cui sentì di star sigillando la sua vita. E dopo... Già; cosa c’è dopo il pensiero estremo, l’immagine estrema della vita? |
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