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Ciro Kahn L'uomo di fil di ferro IntraText CT - Lettura del testo |
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VIII.Il mago deluso.Al aveva dormito di volta in volta sotto le arcate dei ponti, sulle panchine dei giardini pubblici, nei retrobottega dei negozi saccheggiati. Quella sera fu colto dal calar delle tenebre ai margini di un piccolo orto. Attraverso il cancelletto ne rimirò pensosamente tutte le vetrate cromatiche in abbandono, le tubazioni per i nitrati senza più alimento, le lampade per il sole artificiale spente, le aiuole calpestate e tramutate in viottoli; e si sentì commuovere come se la visione di quel piccolo mondo agricolo in abbandono dovesse suscitare il miracolo della sua guarigione. Questo non avvenne, ma nella sua incoscienza un fascino purtuttavia lo raggiungeva impedendogli di allontanarsi. Nel suo ramingare aveva già preso costumi semiselvaggi: si assicurò che nessuno vedesse e scalò il muro; dall’altra parte, dei cespugli lo nascosero. Restò ancora un po’ pensieroso, poi il sonno lo vinse. Per quanto? Un cigolo del cancelletto lo svegliò e il suono di una voce femminile giunse a lui. — Perché, caro, hai tardato tanto questa sera? Il suono di questa voce rimescolò il disgraziato fino alle radici dell’essere. Perché? Cosa significava? E sentiva quel blocco di piombo nella testa dolergli come se fosse divenuto rovente... L’esistenza raminga di quei giorni, la derisione della folla per la sua divisa di Milite, la sua deficienza stessa gli avevano ad ogni modo insegnato a temere e a nascondersi. E non si mosse. Una voce monotona d’automa aveva intanto risposto. — Tanto daffare, tante cose... cara, vita. — Tante? Dimmi. —- Tu sai: l’officina... Cioè... No; non è vero che sia più l’officina a stare in cima ai miei pensieri; sibbene il preparare la tua casa, le tue stanze, là, per te. Se era possibile raccogliere una sfumatura in quella voce d’un tono solo e sempre uguale, questa era di stanchezza e di tormento. — Lo desidero anch’io di starti per sempre più vicina; per studiare ogni tuo gesto, per copiarti, per diventare un po’ macchina io pure... Ma hai detto: tante cose. Cosa in più? Cosa ancora? Chi può far tardare te? La voce monotona esitava. — I miei pensieri! — proruppe. — Ritardi a venire per pensare... E cosa? Ci fu una pausa dalla quale la voce femminile risorse tutta piena d’angustie: — Ora tu non vuoi che io mi mostri con te! Perché dici che ciò adesso potrebbe diminuire il tuo ascendente sulle moltitudini. Vuoi che in attesa della nuova casa io abiti ancora qui, perché altrove non ti sarebbe concesso di venire in segreto. E tu ritardi... Perché? Ci sono tante donne, so, impazzite come sono impazzita io, che delirano per te. Cosa mi nascondi? Cosa c’è? — Oh, se ci può essere, se c’è dell’altro! — giunse agli orecchi di Al la risposta quasi gridata. — C’è la mia malinconia. Sì, è vero: tante donne che delirano per me; ma ce ne fosse una sola che potesse riuscire a prendermi!... — Ma Zeta Otto, cosa vuol dire tutto questo? — Cara, vita, vuol dire una cosa ancora più tormentosa di quella che puoi immaginare tu. Vuol dire; il non poterti chiamare vita mia, perché non ho vita. Il non poterti chiamare: mio solo bene, perché io non ho bene. Cosa sono io? Se non un cumulo di congegni, se non un cumulo di pensieri che si snodano senza cessa, senza requie, senza sonno, senza sogni, giorno e notte?... Ed a favore di chi? A favore mio, forse? No: che godimento potrò io mai avere?... La soddisfazione di appagare la mia volontà? Solo questa cosa così astratta!... Mi potrà pungere forse mai il desiderio di conseguire uno scopo per il mio piacere?... Che piacere se per me tutto è lo stesso? Sedere su una pietra come su una poltrona; star nella pioggia come star nel sole; riposare come operare; avere delle comodità come non averne? — Solo un filo di pensiero: ecco cosa sono io! Una macchina come ne esistono per suonare come ne esistono per correre, come ne esistono per scrivere; soltanto fatta per pensare. Pensare!... in favore di chi? Non in favore mio. Tutto al più in favore della mia volontà. E poiché questa è una cosa artificiale infusami dal di fuori secondo un modello generico umano; non più volontà mia ma umana; di tutta l’umanità. — Ecco che io non sono che una macchina al servizio degli altri. Trionfando io chi trionfa, infatti? Precisamente il pensiero umano. Mentre finendo io chi finisce? Una macchina!... Io!... Cosa sono io? Se per me un bacio e una sassata sono la stessa cosa?... Le voci si allontanarono e ad Al non giunse altro più che un brillio confuso. I due personaggi dovevano essersi seduti lontano diffondendo nella loro strabiliante pena, della loro inverosimile passione solo una successione di cadenze verbali accurate e irreali, certe ma assurde, veraci ma fantastiche come se ad Al giungessero addirittura dalla Luna in tutt’uno con i raggi lunari che illuminavano debolmente l’orto. La Luna si era infatti levata ed Al, dal suo nascondiglio, si guardava attorno attonito perché l’orto in quel misterioso chiarore cinerino gli sembrava trasfigurato e non più terrestre: paesaggio non più di verità ma da incubo, con quei due innamorati da incubo, con quel loro penare da incubo. Era malato, era smemore, era ridotto più miserabile di un cane randagio; ma ciò che era rimasto della sua coscienza bastava a dargli quella sensazione di sbalordimento e di raccapriccio. Senza poi dire l’agitazione in cui una delle due voci continuamente lo poneva. Per questo, strisciando fra un cespuglio e l’altro, fra un’ombra e l’altra volle avvicinarsi ai due per vedere ancora, per udire. Udire. E i due favorivano il suo intento; passeggiavano, ritornavano. Una donna e un automa; grotteschi e stupendi; deprecabili e miracolosi al tempo stesso, con quel loro amore impossibile ma anche con quell’esaltazione sublime che voleva vincere tutte le impossibilità. Diceva la donna: — ...che importa? Se fino a che io vivrò sarò con te? E se dopo morta ancora, entro forma d’automa, con tutte le parole, i pensieri che tu avrai fissato me viva, io continuerò ad essere sempre la tua Viola? Ed Al udì. Ma era l’automa quello che attirava la sua attenzione; con un vestito inutilmente bello e di gran moda: tutto una pioggia cangiante di scacchi rossi, blu e gialli. Di vestiti simili lo smemorato ne aveva visti, sì, in circostanze recenti che gli suggerivano... Un passo ancora, un movimento ancora e l’automa venne a porre in piena luce lunare un volto dall’espressione meditativa e stanca. E lo smemorato, nascosto per terra fra i cespugli, vide il volto di un giovane che riconosceva bene; il volto di sé stesso: Al Falqui. Un nome che si agganciò subito all’altro che aveva appena finito di udire: Viola. Viola; il nome che aveva sigillato la sua vita alla soglia della morte la sera del sabato 7 giugno: il nome ultimo di una sua scintilla mentale contenente tutto il film della sua vita; di nuovo riaccesasi entro la sua testa un’incandescenza che fuse e dileguò quel peso, quel piombo che vi era fissato. — Io!… Io!… Io!… — gridò lo smemorato che si era ritrovato; e cadde a terra svenuto. Viola si era atterrita, Zeta Otto le aveva fatto scudo col suo corpo. Due automi che vegliavano dietro il cancello entrarono sollevando il corpo irrigidito e tranquillando tutti. — Un milite disperso e malato. — Già, ce ne sono così tanti — chiarì Zeta Otto a Viola. — Bisogna ormai pensare a toglierli dalla circolazione. E due legionari poco dopo consegnavano al custode di una caserma Al, tutt’ora svenuto. Ma svenuto per l’ultima volta. |
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