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Ciro Kahn
L'uomo di fil di ferro

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  • PARTE SECONDA IL MITO
    • XI. Epopea.
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XI.

Epopea.

Di gente in uniforme che correva per le strade se ne vedeva molta ed Al pure corse inosservato fra gli altri.

Gli automi che incontrava apparivano ora scintillanti e il giovanotto comprese che si trattava di una vernice vitrea. Costituiva questa una delle misure adottate da Zeta Otto contro la minaccia degli acidi corrosivi, mentre la popolazione aveva in più preparato per loro bende e scafandri di tela cerata incorrodibile.

Chi avrebbe vinto? Quante sarebbero state le vite umane falciate fra la popolazione demente?

Il cielo era sempre azzurro, la terra sempre rossiccia; e questi due colori elementari sembravano comportare per Al ancora quel senso stesso di tragico e di fatale percepito nella prima battaglia. Con un’angoscia grande quanto inspiegabile Al correva.

Capì il motivo di ciò quando finalmente giunse all’orto. Viola non era più là. Troppo tardi. All’approssimarsi della notte di guerra la fanciulla doveva essersi recata da Zeta Otto.

Ov’era adesso? Cosa fare? Ci poteva più essere la speranza di ritrovarsi entrambi vivi in quella città?

No. I miracoli, appunto per la loro prodigiosa eccezionalità, non si ripetono. E Al sapeva che questa volta o lui, o lei, o tutt’e due...

II cielo era sempre azzurro; la terra sempre rossiccia.

Gente e gente camminava nelle vie; uomini e uomini andavano e andavano smemori e dementi verso il loro destino.

Al cercò con gli occhi una barca nel fiume. Non se ne vedeva. A piedi allora s’incamminò malinconicamente verso i confini della città che aveva sognato di poter varcare in tempo assieme a Viola.

Restare significava morire.

Ma andarsene cosa significava? Vivere? Ce n’era una vera certezza? E del resto: felicità mai più! Felicità per lui, superstite nel mondo con la vi­sione dietro sé di quella città piena di morte e di sventura sentiva non ce ne sarebbe più stata.

Come gli appariva adorabile Roma in quel pomeriggio! Come gli apparivano eroici i suoi abitanti pur folgorati dal barbaglio di una suggestione!

Restare significava morte. Ed Al restò.

Vieppiù che Al ritornava indietro vedeva la folla farsi più fitta con una meta unica: il Foro. Era il convegno ultimo offerto da Zeta Otto ai romani; dal nuovo Cesare ai morituri.

II foro era colmo di moltitudine. La speranza assurda balenata un attimo ad Al di poter vedere Viola là in mezzo decadde subito. La fanciulla doveva esservi, essa la prima... Ma dove?

E, fra la schiera dei suoi schiavi, dal Campidoglio giunse Zeta Otto già tutto vitreo e senza indumenti, per presiedere alla cerimonia con cui i romani consegnavano a lui e ai suoi le bende e gli scafandri stagni contro gli acidi.

— Ave, Zeta Otto! — gridò al suo apparire la moltitudine.

— Ave o Despota, o Sublime, o Inconsumabile! — continuò una voce tonante mentre tutta la folla rabbrividiva di passione. — Concedi sia io, milite e superstite di una battaglia perduta contro di te, a rivolgerti, a una settimana precisa dal tuo trionfo, il saluto di tutte le creature che tu fra poche ore consegnerai alla Morte.

Ci fu un profondo silenzio fra la folla adunata nel tramonto. Colui che parlava si fece strada verso l’automa dagli occhi barbaglianti senza che le autorità perplesse fermassero quell’oratore non previsto nella cerimonia.

— O Sublime, o Inconsumabile! Per il tremendo dono con cui tu ricambi il nostro applauso, per il tuo dono apocalittico di sventura e di morte nessuno è più adatto di questo superstite della passata battaglia, di questo avanzo della passata tragedia, di questo ambasciatore della passata morte a venire a prendere dalle tue mani le chiavi del regno verso cui ci indirizzi: regno delle perpetue tenebre, del perpetuo gelo, del perpetuo nulla. Guarda, appunto, e giudica con i tuoi occhi di saetta e di tempesta e di diluvio se non proprio io sono il più adatto!

Ed un milite con una divisa lurida e a brandelli sorse sul nereggiare della folla di fronte a Zeta Otto.

Da una parte la macchina tutta lucente; dall’altra la creatura tutta stracci che con gesto rapido svolgeva e lacerava le bende. Ripugnanti piaghe allora apparvero dal cranio senza più capelli al petto senza pelle.

— Guarda, o Inconsumabile, questo corpo che non è perpetuo e ferrigno come il tuo; e valuta, da questo sfacelo che tu vedi su me, tutta la somma di strazio e di catastrofe che munificamente ci elargisci.

— Ma conserva memoria che questo fluire vermiglio si chiama sangue e che questa pasta pulsante si chiama carne. Nomi di sostanze che ci vengono direttamente da un miracolo divino: carne e sangue, sangue e carne che tu; o Motore, o Ordegno, o Utensile, non avrai giammai.

— Ben sai cosa significa ciò: restare inconsumabile ma pari a una delle tante pietre, dei tanti detriti, dei tanti metalli senza vita che noi calpestiamo; o, se ci coglie vaghezza, impastiamo in forma di uomini per farne pupazzi al nostro servizio, idoli alla nostra aberrazione, pericoli istruttivi alla nostra esperienza, carnefici al nostro martirio; di cui anche necessitiamo per attingere alla perfezione.

Il cielo nel tramonto si tappezzava di porpora. E la folla udiva e restava allibita.

— Ma allora cosa ti vale, o Macchina — la voce implacabile continuava presso Zeta Otto immobile e incredulo — questa tua inconsumabilità se non verrà mai elevata al rango di Vita? Se ti lascerà sempre a livello di una delle tante cose che noi calpestiamo? Ed io mi chiedo a cosa ti serviranno più le tue potenze ipnotiche quando le userai non più su moltitudini stupefatte, ma su vigili creature in cui l’ansia del rischio abbia stimolato le volontà fino a quell’alta violenza per la quale anche le montagne si vulnerano e i destini si piegano.

— Guardami e vediamo a cosa potranno allora più servirti quei tuoi occhi di quarzo.

La moltitudine era immensa, ma così silente che il cinguettio degli uccelli si udiva nel tramonto come in una foresta deserta. La moltitudine era attonita e immobile; eppure un brivido di emozione crescente la squassava come un uragano.

A nessuno era sfuggito che il milite audace, pur vicino a Zeta Otto, aveva sempre evitato d’incontrare i suoi sguardi; ma adesso tutti gli videro con le mani spazzar via sulla fronte e sulle palpebre il sangue che vi stillava e così, con i propri occhi mondi e sbarrati, incontrare e fissare quelli dell’automa.

Il gesto aveva assunto una tale importanza suprema che la folla restò senza fiato come in attesa di veder incenerirsi il temerario.

Invece: un attimo... due attimi... dei secondi trascorsero senza che più l’uomo il cui sguardo anche era divenuto splendente e tremendo, volgesse via le sue pupille.

Troppo era la gente rimasta senza respiro; e respirare doveva per vivere; e vivere voleva per gustare la gioia di un incantesimo e di una demenza ormai sul dileguarsi. Un sordo brusio era incominciato; ma prima che avesse tempo di concretarsi in un grido di liberazione ancora qualcosa doveva accadere. Via via che l’uomo era rimasto immobile e potente di fronte alla macchina, era risaltata la strana rassomiglianza dei loro profili e l’identicità delle loro espressioni.

E le schiere degli automi improvvisamente ondeggiarono per far largo a una giovinetta bionda che irruppe verso i due con i segni della più grande maraviglia.

Fu un momento: — Viola! — chiamò l’uomo spostando i suoi occhi da quelli della macchina a quelli della fanciulla.




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