Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Vincenzo Sigonio La difesa per le donne IntraText CT - Lettura del testo |
|
|
Che le donne belle debbono essere amate e riverite
Con quanto studio abbiano cercati alcuni scrittori di porre le donne in grandissimo odio e sprezzamento agli uomini, di qui chiaramente si può comprendere: imperoché con i loro mordaci scritti talmente [41v] anco la bellezza di quelle, la quale è cosa divina, hanno morsicato, che chi credesse alle loro vane parole senza dubio sarebbe sforzato sprezzare e fuggire sempre quelle. Menandro, Ovidio nel libro de li Fasti hanno detto che la donna bella è soperba; il Pontano lib. 1, Properzio scrivendo a Cinzia, Stazio nel lib. 1 delle Selve affermano il medesimo. Giovinale dice che la donna bella apena sarà casta; il simile si legge nell’Andria di Terenzio; Micaele Verrino poeta, Libanio scrivendo a Leonzio, Ovidio nei Fasti lib. 2 parlando di Calipso, affermano il medesimo. Altri hanno detto che la donna bella è di gelosia e pericolo grandissimo al marito: in Plutarco nel lib. Delle donne illustri, parlando di Sinato, questo ritrovano; e nel lib. 2 de li Re cap. 11 di Uria, e nel Genesi cap. 12 dal fatto di Abramo lo cavano. Altri dicono che la bellezza è cosa frale e vana: in questo numero avemo Galeno nell’Essortazione alle buone arti, Ovidio, lib. De arte amandi, Calfurnio poeta nella Boccolica, Seneca nella tragedia d’Ippolito, di Ercole e in Ottavia, Filone Giudeo nel lib. Della prudenza, [42r] Eusebio lib. 8 cap. 5, Salustio nella Guerra di Giugurta e nella Congiura di Catilina, Plutarco nel libro Della educazione delli figliuoli, Boezio lib. 3 Della consolazione, Luciano nel Dialogo di Menippo e di Mercurio. Dicono altri che la donna bella impedisce i studii delle lettere, fra li quali è Cicerone e il Soccino. Altri biasimano la donna bella dicendo che ella abbrevia la vita dell’uomo: questo è stato detto dal Babellio, e Anacarsi appresso Ateneo. Per le qual cose vogliono questi tali persuadere a tutti che non solo si debbe sprezzare le donne belle ma anco fuggire quelle sì come capital nemico dell’uomo e della vita di quello. Ma che diranno questi valenti uomini se, non ostanti le ciance loro, si dimostrerà che la donna bella debbe essere amata e apprezzata grandissimamente, e per contrario che la donna brutta qual nimico della natura e dell’uomo debbe essere fuggita, sprezzata e aborrita? In prima si legge che quello Giacob, uno de li tre patriarchi, uomo degno di essere imitato da tutti, di modo amò Rachele, giovane bellissima, che per averla per sua moglie non [42v] li rincrebbe servire quattordeci anni Labano, padre di quella: Genesi cap. 26; per il che si può vedere che egli fece questo essendo ella bellissima, sì come annotò il principe delle sentenze san Tomaso nel lib. 4 nella distinzione 30. Similmente è una legge nel Deuteronomio cap. 21 la qual dice: «Se vedrai nel numero de’ pregioni una donna bella e la vorrai per moglie, tu la dei menare a casa tua». Alla contraria di questa è un’altra legge nel detto Deuteronomio, cap. 24, la qual dice: «Se la donna non piacesse al marito per qualche bruttezza, si facia il libello del ripudio». Oltre queste, la bruttezza notabile (come nei Libri decretali si legge, nel cap. Quemadmodum, versiculo quod si post de iureiurando) la qual vien dopo i sposalici dà giusta causa per l’adietro di potersi fare il divorzio. La qual cosa, insieme con la sopradetta legge del Deuteronomio, apertamente mostra che la bruttezza della moglie molto è sprezzata da i mariti, e tanto dispiace a quelli [43r] quanto qualunque altra cosa, e per questo essi ripudiano quelle e desiderano altre moglie belle. Salomone, d’ogni altro sapientissimo, nella sua Cantica cap. 2 introduce lo sposo parlare alla sposa a questo modo: «Mostrami la tua faccia, perché la tua faccia è bella»; e David suo padre, nel Salmo 44, dice: «Il re desidera la bellezza». E l’Ecclesiastico, cap. 36, dice: «La bellezza della donna fa lieta la faccia del suo marito»; e dinanti, nel cap. 26, dice: «Sì come il sole nascendo nel mondo è di ornamento nelle cose altissime di Dio, così anco la bellezza della donna è di ornamento alla sua casa». Per le qual cose facilmente si può conoscere, sì per l’essempio di Giacob patriarca, come anco per l’autorità delle leggi mosaiche, di Salomone, di David, che la bellezza della donna debbe esser sommamente apprezzata e non biasimata. Oltre questi sudetti, Omero, quel gran mare d’ogni disciplina, lib. 3 della Iliade, introduce Paride che [43v] risponde ad Ettore, il quale gli rimproverava la bellezza di Elena, dicendo:
Non mi gittar in occhio i doni amabili di Venere, ch’i don degni di gloria de i dei rimproverati esser non debbono.
E dalla medesima sentenza di Omero pare avere tolto Ovidio quello nel lib. 2 Dell’arte di amare, quando dice: «La bellezza don di Dio». Alla cui sentenza sottoscrive Grisostomo vero teologo nella prima Omelia sopra il Salmo 50, dicendo: «La bellezza non merita essere biasimata, perciò che ella è dono di Dio». Ma ancora quelli uomini forti, quelli eroi, quelli semidei tanto istimarono questa bellezza, che niente istimarono la morte per amor d’una sola donna bella; né bisogna che pensiamo che li Greci combattessero per la vendetta, avendo essi giurato di lasciare la guerra riavuta [44r] Elena, overo che li Troiani per ritenere la dignità loro, cioè che paressero per paura averla restituita; perciò che Quintiliano, lib. 8 ove disputa Della amplificazione, dice: «Non pensano i prìncipi troiani che sia cosa indegna che li Troiani e li Greci per la bellezza di Elena sostengano tanti mali così lungo spacio di tempo. Qual bellezza dunque si debbe credere che sia quella? Perciò che non Paride, il quale rapì quella, dice questo, né altro giovine overo uno del volgo, ma i vecchi e prudentissimi, e quali sedono appresso Priamo, ma esso re debilitato per la guerra che era durata dieci anni, avendo perduto tanti figliuoli, instando il grandissimo pericolo, a cui quella faccia, per la quale l’origine di tante lagrime era venuta, dovea essere grandemente in odio e abominevole, ascolta queste cose, e chiamandola per figliuola la fa sedere appresso di sé, e la iscusa, e nega egli che ella sia stata causa di tanti suoi mali». Questo dice Quintiliano, il quale ha tolto [44v] ogni cosa da Omero, nel 30 lib. della Iliade. Di questa bellezza di Elena ragionando Luciano nel dialogo intitolato Caridemo, dice: «Essendo l’Europa nel principio commossa nell’armi contra l’Asia, potendo i Troiani, restituita Elena, senza alcun pericolo e paura tenere la città e regno loro, promettendo li Greci a quelli, se aveano Elena, liberarli, nessuno di quelli volse provedere a sé medesimo, istimando che nessuna causa si potesse ritrovare più bella della guerra per la qual moressero; e sapendo ancora di certo li dei che li suoi figliuoli doveano morire in essa guerra, mai gli volsero rimovere da quella, istimando non minor gloria loro dovere riportare da tal guerra, se fossero morti per amor della bella Elena, che perché fossero creati da li dei». Né è sprezzata la bellezza da li dei e dalle dee, perciò che se questo fosse vero, non loderebbono i poeti tanto quelli dalla bellezza: Omero nel lib. 20 della Iliade loda Apollo chiamandolo [45r] intonso e crinito, e molti altri poeti, che lungo sarebbe racontare, lodano quello dalla bellezza. Parimente esso Omero loda Giunone regina e dea dell’altre dee, perché ella ha belle gotte e bianche braccia, nel lib. 1 dell’Iliade e altrove in molti luochi. Il medesimo lodando la dea Proserpina, dice che ella ha belle braccia. Vergilio parimente nel lib. 8 loda la dea Venere avendo le braccia candide come neve a questo modo:
Avea già detto, quando con le braccia candide il suo marito, che aspettava, dolcemente la dea d’intorno stringe.
Loda anche Omero, nel lib. 15 della Iliade, Giunone dalle ciglia negre, perciò che è noto questo, che tal ciglia molto s’aspettano alla bellezza delle donne; perciò che Giovinale nella Satira prima scrive che le donne con arte si fanno negre le ciglia per essere più belle. Loda parimente esso Omero [45v] l’Aurora dalla bellezza, dicendo nel lib. 2, 8 e 17 della Odissea che ella ha le dita delle mani di roseo colore; loda parimente il sudetto Omero Cerere, Calipso, Latona e le Grazie da i belli crini; loda le Muse da li occhi negri, perché tali occhi molto s’aspettano alla bellezza. E Catullo, biasimando l’innamorata di Formiano perché ella non avea gli occhi neri, disse:
che meno son neri.
Finalmente il medesimo Omero, lib. 6 dell’Odissea, descrivendo il coro delle ninfe che seguitavano Diana, loda quelle dalla bellezza dicendo:
Questa col capo e con la fronte eccedere si scorge ogn’altra, e a vedere è facile ancor che in tutte sia beltà non picciola.
Nel qual proposito si può addurre quello di Ovidio, lib. 6 de li Fasti appresso il fine, quando dice: [46r]
Né tu pensi che sia brutto che noi la bellezza lodiamo, ch’en ciò ancora diamo gran lode alle gran dee sovente.
Ma tornando a Omero, egli lodò in Agamennone e in Achille, in Menelao, Nereo, Patroclo, Deifobo, Enea, Ulisse, Telemaco, Tarsimede, Euriclo, Laodamante, Ganimede e Paride la bellezza, e massimamente quella della faccia; il che non averebbe fatto egli, se non avesse inteso che la bellezza è un gran bene. Vergilio parimente, ottimo imitatore di Omero, loda la bellezza in questi, in Apollo, Lino, Ippolito, Eurialo, Giulio, Lauso, Turno, Aventino, Palante, Enea, Asture, e di Eurialo più che altro così dice nel lib. 5 dell’Eneida:
Via più aggradisce ogni virtù che alberga
A cui accostandosi Domiziano appresso Svetonio dice che nessuna cosa è più grata della bellezza. Plinio poi, lib. 1 delle Pistole, scrivendo a Giunio Maurizio, ad una nipote di cui egli avea trovato marito, dice: «Egli ha [46v] una faccia liberale, di molto sangue e di vaga rossezza ornata, e una bellezza di tutto il corpo, e l’ornamento di senatore; le qual cose non penso che si debbino mai sprezzare, ma che questo sia dato quasi come per premio alla castità delle giovanette». Ma che non si legge appresso i filosofi, giusti giudici delle cose, che la bellezza è annumerata tra i primi beni della natura? Imperoché Platone nel lib. 1 delle Leggi e nel 2, e nel lib. 6 della Republica e in Gorgia dice che la bellezza è uno de’ primi beni dell’uomo, quali sono quattro: la sanità, la bellezza, le forze e le ricchezze. E Luciano dice questa canzone essere stata solita cantarsi frequentemente nei conviti, che la sanità è cosa ottima e potissima; la seconda è la bellezza, e la terza le ricchezze. La qual canzone è stata cavata da Simonide poeta, se però è vero quello che dice Teocrito nel lib. Del giudicio, perciò che altri la assegnano a Pitagora. Anzi molti non dubitarono anteporre la bellezza alla sanità, come [47r] dice il Valla nel lib. Dell’onesto piacere mossi da questo, perché s’istima la bellezza avere con esso lei la sanità, sì come è scritto appresso Tullio, lib. 1 Degli uffici, dove egli parla della temperanza dicendo a questo modo: «La venustà e la bellezza del corpo non può essere separata dalla sanità». Il che imitando Santo Ambrosio nel lib. 1 de i suoi Uffici dice che la bellezza precede la sanità. Il medesimo Tullio, lib. 4 delle Toscolane, fra li principali beni del corpo pone nel primo luoco la bellezza dicendo: «Sono nel corpo cose principali la bellezza, le forze, la sanità, la fermezza, la velocità». Tito Lucrezio, filosofo e medico celebratissimo è testimonio che la bellezza de gli uomini sempre è stata avuta in onore e pregio grandissimo, dicendo:
Fondar li stessi regi le cittadi e fabricar le torri incominciaro, le rocche e le fortezze a lor serbando, [47v] e le gregge divisero e ’l terreno dandone a ciaschedun quanto chiedea la forza, la beltà, l’ingegno loro, perché a quel tempo assai bellezza puote.
Onde non è maraviglia se li prìncipi, nel distribuire le cose, anteponevano quelli che erano belli a tutte le cose, essendo anco costume in quei tempi antichi che quelli che avanzassero gli altri di bellezza fossero eletti prìncipi e re: di questo è autore Strabone nel lib. 16, il quale dice che gli Indiani, quali abitano la Catea, di modo onorano la bellezza che quello che fosse stato più bello de gli altri elegevano per re loro. Il che pone Diodoro Sicolo lib. 17, nel quale egli descrive la vita di Alessandro, dove egli dice che appresso quelle genti nel celebrare i matrimonii non risguardasi né alla dote né all’apparato grande ma solamente alla bellezza. Il medesimo Strabone, lib. 17, scrive che gli Etiopi sono soliti creare re quello che di bellezza vincesse tutti gli altri; il che afferma ancora Aristotele nel lib. 4 della [48r] Politica cap. 4, e similmente Pomponio Mela lib. 3, benché questo egli non attribuisca a tutti gli Etiopi ma solo a gli Automoli. Giovanni Stobeo nel Sermone 42 scrive che gli Etiopi onorano sopra tutte le cose le sorelle e che li re massimamente lasciano le successioni del regno non a’ suoi figliuoli ma a gli figliuoli delle sorelle: e se non vi è successore alcuno creano re il più bello di tutti. Nella qual cosa gli Indi e gli Etiopi paiono imitare la natura, la qual anco ha insegnata alle pecchie elegere i re loro bellissimi e dissimili dall’altre così di bellezza come anco di grandezza, sì come scrive Seneca lib. 1 cap. 9 A Nerone della clemenza, e prima di lui Vergilio nella Giorgica e il Columella lib. 9 cap. 10 e quasi tutti quelli che hanno scritto della natura degli animali. E Basilio Magno nel suo Essamerone, nella 8ª Congressione, dove egli parla delle pecchie, dice: «Dalla natura tien il principato quella che di grandezza, bellezza e mansuetudine [48v] avanza l’altre»; e quasi il medesimo scrive Santo Ambrosio nel lib. del medesimo titolo, lib. 5 cap. 21. Proclo ancora Licio, filosofo platonico, in quelli Commentarii che egli scrisse Contra Alcibiade di Platone, Della anima e del demonio, tanto istimò la bellezza che antepose quella alla giustizia; e poco più abasso prova che ogni cosa bella è buona e ogni cosa brutta è cativa. Tirio parimente, filosofo grandissimo, nel Sermone 11 dice che la cosa bella mai fu di pericolo alcuno né fece sceleragini né guidò alcuno a disgrazie overo a calamità di sorte alcuna né finì in penitenza. Apuleio nella 2ª Apologia, parlando della bellezza, così dice: «La giovane bella, quantunque ella sia povera, è nondimeno abondantemente dotata». Ovidio parimente di tal bellezza parlando dice:
La dote alle fanciulle è sua beltade.
Ma ritorniamo a’ filosofi: Aristotele lib. 1 cap. 8 dell’Etica dice che non può essere felice quello il quale è brutto. [49r] Orazio poi, ancora conoscendo che nessuna altra cosa meritamente potrà essere così lodata come la bellezza, volendo lodare Elena sì come cosa meritamente da essere laudata, comincia dalla bellezza dicendo nel lib. 1 de i Versi:
O matre bella, o figlia ancor più bella.
A questo dunque avendo riguardo le donne, meritamente sono da essere celebrate e eternamente lodate, avendo in tanto onore e pregio una cosa tanto degna e quella amando più che se stesse; sì come amava Europa, la quale essendo vicina alla morte, per non perder la sua bellezza, così diceva appresso Venusio poeta, lib. 3 de i Versi, Oda 27:
O de li dei s’alcun ciò ascolti, fa che tra leoni pria ch’a sì belle gotte il suo colore lievi magrezza, e perda il suo vigore sì bella preda. Pascere torrei, mentre sì bella son, con passïoni
Si legge ancora che furono proposti certami della bellezza, sì come scrive Nicia parlando Delle cose di Arcadia, sì come nella festa di Cerere Eleusina apresso Alfeo; nella quale la prima vincitrice fu Erodice moglie di Cipselo. Il che parimente dice Teofrasto che fu fatto spesse volte appresso Elei, e con solenne sacrificio si solea finire il giudicio del certame, e l’armi premio di vincitori erano poi dicate alla dea Pallade overo, come piace a Lautricio, a Dionisio, conducendo gli amici il vincitore ornato al tempio a guisa di trionfo e di solenne pompa; e Marsilio nelle Istorie paradosse dice che s’usava dare una corona di mirto. E appresso i Lacedemoni li medesimi certami si proponevano, sì come scrive Moseo, s’egli è quello, nella opera di Ero e di Leandro, dicendo così:
Ho ricercato Sparta e la cittade lacedemonia, dove le fatiche e ’l gran certame fu della beltade.
Per li quali certami si può apertamente dire che non per altro effetto che per innanimire le persone ad accrescere e con[50r]servare la bellezza erano statuiti i premii a quelli che di bellezza avanzassero gli altri. Ma passiamo più oltre a i santi scrittori, i quali e essi apertamente hanno dimostrato quanto conto si debbia fare della bellezza e per il contrario quanto sia da esser biasimata la bruttezza. Santo Agostino, nel lib. 22 cap. 19 Della città di Dio e nel cap. 20 dell’ultimo lib., e nel lib. detto Enchiridion cap. 92, afferma che i corpi de li santi resusciteranno nel giorno del Giudicio senza alcuno vicio e senza bruttezza alcuna; col quale si accorda il Maestro delle sentenze San Tomaso, lib. 4, distinzione 44. Nel qual luoco tutti gli uomini illustri non solo questo affermano, ma molti di quelli vogliono che li corpi degli dannati per il contrario resuscitino con le loro bruttezze a loro maggiore confusione; e questo assai l’acerta il detto Santo Agostino nel sudetto libro Enchiridion cap. 93, assignando la ragione perché egli lasci quello imperfetto, dicendo: «Non ne debbe affaticare la loro incerta abitudine overo bellezza, de’ quali sarà certa e perpetua la dannazione; [50v] perciò che, s’a questo resuscitino per essere dannati e siano di peggiore e non di megliore condizione, manifestamente appare che a loro non sarà data la bellezza, la quale non hanno avuta, né li sarà tolta la bruttezza la quale essi hanno avuta»; sì come pone San Bonaventura nella medesima distinzione 44. Séguita poi quella gran tromba di Dio, David, nel Salmo 44, parlando di Cristo che avea da venire, dicendo: «Più bello di tutti i figliuoli», e un’altra volta nel Salmo 92 dice: «Il Signore ha regnato, egli è vestito di bellezza»; e Isaia cap. 63, parlando medesimamente di Cristo, dice: «Questo è bello nella sua vesta». Platone poi nella Pistola a Dionigi re affermò che Dio è causa di tutte le cose belle, sì come fonte e origine di tutta la bellezza. Ma altrove e spesse volte le sacre lettere col titolo e nome di bellezza laudano molto le donne illustri e di pudicizia e di tutte l’altre cose ornatissime: il che si può vedere in Sara, Rebecca, Rachele, Abigail, Sosanna, Giudith, Ester, nelle figliuole [51r] di Giobbe, le quali Dio diede a lui in luoco di tutti quelli che gli erano morti, e in molte altre. Ma anco esse sacre lettere ornarono del medesimo titolo gli uomini: perciò che si legge nel Genesi, cap. 36, di Gioseffo, il qual fu di bellissima faccia e aspetto divino, né senza causa, perciò che la bellezza esteriore dell’uomo mostra, rappresenta e isprime la bellezza interiore dell’animo e, come dice Santo Ambrosio nel lib. 2 Delle vergini, la bellezza del corpo è un simolacro della mente e una figura di somma bontà. E similmente Socrate, in Fedro di Platone, accenna che la bellezza del corpo sia argomento di buona mente. Quello poi che fece quello Panegirico a Costantino il cui principio è Facerem sacratissime Imperator dice: «Non senza causa gli uomini dottissimi dicono che la natura istessa misura nelle gran menti de i corpi degna abitazione, e dal volto dell’uomo e dalla bellezza de i membri si può giudicare quanto spirito celeste vi sia intrato ad abitare». Per il contrario poi la bruttezza del corpo dicchiara parimente [51v] la bruttezza dell’animo, perciò che rade volte in un corpo deforme e brutto abita nobile e bell’animo e, come dice Aspasio, non è possibile che quello che è brutto sia parimente buono. Alla cui sentenza sottoscrivendo Rasis, appresso i medici uomo di gran nome, nel lib. 2 cap. 33 dice: «Quello che ha la faccia brutta apena può avere buoni costumi». E il medesimo autore nel sopradetto lib. 2 cap. 6 De i temperamenti scrive che la natura compone le membra sì come è conveniente all’anima; il che parimente afferma egli nel lib. 1 e 2 Dell’uso delle parti, e sì come egli appresso Planude nella Vita di Esopo disse, quale è la faccia tale è anco l’anima. Per questo Omero, lib. 2 della Iliade, sì come quelli che sono stati di virtù illustri egli fa eroi e gli orna di divine bellezze, parimente finge Tersite bruttissimo e da capo a piedi lo fà un mostro, acciò che si possi intendere che un pessimo animo ancora ha abitato in uno alloggiamento di sé degno. La cui bruttezza volendo descrivere, Licofrone la chiamò simile a una simia, nella cui fattura solea dire Ippocrate che la natura era stata giusta [52r] perché ella avea vestito un’anima ridicola d’un corpo parimente ridicolo: il che afferma Galleno, lib. 2 Dell’uso delle parti. Con quali s’accorda Proclo nel lib. De magia et demone, il qual dice che la natura, la qual fa i corpi, dà a quelli stormenti condecenti e dimostra l’imagini dell’anime nei corpi. Vellio ancora Patercolo, nell’ultimo lib. della Istoria romana, di quello Vatinio parlando di cui l’odio andette in proverbio, disse questo in questa medesima sentenza, nel qual la bruttezza della natura contendea con la bruttezza deli costumi, che parea che l’animo di quello fosse inchiuso in albergo di sé dignissimo. Marziale ancora nel lib. 12 degli Epigrammi sospetta che Zoilo sia un tristo per la bruttezza del corpo, dicendo:
Di rosso crin, di faccia nera e piede curto, con gli occhi macolati e guasti, poco, Zoilo, non fia, se sei da bene.
Parimente è un greco epigramma di Pallade contra un certo zoppo nel lib. 2 de gli Epigrammi, il qual così dice: [52v]
La mente tua non men ch’el piede è ’nferma, e tua natura esteriormente mostra tutte le macchie e le magagne interne.
Oltre questi, Zenodoto dice che un certo Coriteo fu così sciocco e così di senno privo, come anco egli era di effigie bruttissima e infelicissima; onde nacque il proverbio che, volendosi dire un uomo bruttissimo, si dice «Più che Coriteo brutto»: di questo si fa menzione negli Adagi. Scrive Plutarco nella Vita di Ligurgo che appresso Lacedemonii per istitutto di esso Ligurgo non era in potere del padre di nodrire il figliuolo che nasceva, ma egli era portato in un certo luoco detto Lesche, dove sedendo quelli che erano maggiori della tribù, s’avessero visto il fanciullo che fosse stato brutto, lo mandavano a vendere, non altrimenti come che la vita di quello, che nel principio non fosse stato bello e dalla natura non fosse stato prodotto alla buona composizione del corpo, né a sé né alla republica fosse utile. Antonio Panormitano, o sia stato Enea Silvio, overo un altro [53r] il quale ha aggionto alcune cose al libro di esso Panormitano Delle facecie del re Alfonso, scrive che Bartolomeo Capra, arcivescovo di Milano, era solito di dire che per questa causa egli avea sempre cercato ministri bellissimi, perché le bruttezze dell’animo stanno nei corpi ancora brutti, ma che di raro era stata ritrovata malvagità in un corpo bello. Per cui forsi ha detto Porfirio che li demonii, gli animi de’ quali sono iniqui, hanno anco li corpi bruttissimi. Né è da lasciare a dietro quello che Plutarco e altri hanno detto di Filopomene, de’ Greci capitanio illustrissimo, la cui istoria in questo proposito è dignissima da essere notata. Filopomene dunque di bellezze fu poco dotato, e aspettandosi la sua venuta in Megara e mettendosi in ordine un sontuoso e magnifico convito con solennissimo apparato in casa d’uno suo amico, e in questo mezzo essendo egli in casa prima de tutti entrato, [53v], la moglie dell’amico, credendo, sì per la bruttezza del volto, come anco per la vesta di poco valore, che egli fosse alcuno mandato inanti da esso capitanio per l’importanza della cosa, lo pose a stellare legne; il che facendo lui con somma diligenza, sopraggionse l’amico, il qual commosso della indegnità della cosa disse: «Che cosa vuol dire questo, o Filopomene?» A cui egli in lingua dorica rispose dicendo: «Io pago la pena della mia bruttezza». Séguita poi la mosaica legge approbata da li romani pontefici, la qual proibisce che quello il qual fosse del corpo brutto overo viciato non potesse offerire il pane a Dio né avicinarsi al ministerio di quello, sì come è scritto nel Levitico, cap. 21. La qual legge approbando San Gregorio, sopra il cap. Hinc etenim, 44, approva che i vici del corpo e le macchie hanno segni de i vici dell’animo. Nella cui sentenza è parimente San Girolamo scrivendo A Fabiola della vesta sacerdotale, dicendo: «Si comanda a li sacerdoti che siano senza macchia, [54r] che non abbiano l’orecchie tagliate, che non abbiano il naso di simia, che non siano guerzi, zoppi né abbiano mutato il colore della pelle, le qual cose tutte si referiscono anco a li vici dell’animo». Ma, per la Legge canonica, sola la bruttezza del volto impedisce ciascuno a pigliare gli ordini sacri: cap. 2, e ivi la Glossa nella parola Deformitatem; con la qual legge si conforma quello antico costume de’ Romani, appresso i quali non era lecito pigliare la vergine la quale avesse in sé macchia alcuna del corpo, sì come, per autorità di Antistio Labeone, scrive A. Gellio lib. 1 cap. 12, e il Fenestella De i magistrati romani cap. 7. Per le cui sentenze San Girolamo riprende quelli padri che consacrano le sue figliuole a Dio, le quali sono brutte; egli, scrivendo A Demetriade vergine, così dice: «Sogliono i miseri padri, e non cristiani di piena fede, le figliuole loro deformi e di qualche membro mutilate overo deboli, perché non possono ritrovar degni generi, dare alla verginità». [54v] Appresso Seneca è anco una legge, nel lib. 4 delle Declamazioni, che il sacerdote sia integro, perciò che quello sacerdote il quale non è integro del corpo quasi come cosa cativa e di mal augurio è da essere schiffato; benché e ivi ancora per un’altra parte sia scritto che tal legge si referisce all’animo integro e non al corpo. Ma che ancora si referisca al corpo lo affermò Dionisio Alicarnaseo nel lib. 1 dell’Antichità romane, dove egli loda Romolo dator delle leggi romane perché fece che i sacerdozii non si dovessero vendere né per le sorti dividere, ma di ciascheduna curia creò due uomini di cinquanta anni nobilissimi e similmente di virtù prestantissimi, né però poveri overo in parte alcuna del corpo viziati overo macolati. Plinio, lib. 28 cap. 10, dice aver ritrovato appresso gli autori che a quelli a’ quali sono le lentigini sul volto, le quali sono la bruttezza della faccia, era negato l’uso de li sacrifici magici. A cui è simile Apuleio nella Apologia, il qual scrive che bisognava elegere il fanciullo, il qual si do[55r]vea ordinare nell’arte magica, fra l’altre cose bellissimo. Ma che più? Gli antichi di modo aborrivano e maledicevano la bruttezza, e per la bellezza si riputavano avere tanto favore che, l’aver incontrato un bello, quello aveano per uno augurio e segno felicissimo, per il contrario poi un brutto per un segno inauspicato e infelicissimo: quindi Settimio Severo imperatore, avendo incontrato un certo Etiopo, fece congiettura che egli era vicino alla morte; questo si legge in Eliano Sparziano, nella Vita di quello. Scrive parimente Plutarco nella Vita di Brutto che, apparendo uno Etiopo a Brutto e a Cassio, quali voleano entrare nel campo e far la battaglia, li fu indicio della morte loro. Augusto poi imperatore, come scrive Svetonio nella Vita di quello, i nani, i storti e ogni sorte de simili uomini, sì come scherno della natura, in tutto egli aborriva né quelli vedere potea. In questo proposito è molto da essere notato quello che scrive Pausania nel lib. 1, nel quale egli scrive le Cose attiche: [55v] egli scrive che Firne overo, come altri scrivono, Frine meretrice tespiense, essendo accusata appresso gli Ateniesi d’un certo delitto, finalmente solo per la bellezza fu assoluta, avendo ella levata la ricca vesta dal suo bello e candido petto; tanto puote il favore della bellezza. Il che non avea potuto Ipperide oratore preclarissimo con la sua orazione, quantunque vi mettesse ogni ingegno e arte per liberar quella, sì come si può vedere in Quintiliano lib. 2 cap. 16; questo è posto parimente da Plutarco nella Vita di esso Ipperide. La qual istoria assai prova la sentenza di Publio Siro dicendo che la bellezza impetra ciò che ella vuole senza che nulla ella addimandi. Per la qual cosa Laerzio scrive, per sentenza di Aristotele, che la bellezza è più efficace e più potente di qualunque pistola o raccommandazione. Parimente Teofrasto addimandava la bellezza una fraude tacita perché ella persuade senza parlare. Alle qual cose aggiongeremo quelle che scrive Giovanni Stobeo nel Sermone 63 dicendo: «Fra l’altre cose io istimo felice quello [56r] per la bellezza, la quale fra i beni umani massimamente appare e è suavissima a li dei, a gli uomini gratissima, a chi la possede non è molesta, e è facilissima da conoscersi; perciò che gli altri beni posti nell’uomo, come è la fortezza, la prudenza, possono stare nascoste se non si dimostrino per qualche opera, ma la bellezza a modo alcuno non può nascondersi, perciò che ella subito mostra il suo veloce senso; a queste cose molti buoni hanno invidia e si fanno nimici, ma la bellezza fa amici quelli che quella possedono e non lascia esser fatto alcuno nimico a sé». E nel medesimo luoco un certo pitagorico veramente santo questo medesimamente scrisse in lode della bellezza, dicendo: «Quale è la vera felicità della vita, e quali altri sono da essere giudicati beati se non, per dio, quelli i quali sono ornati della bellezza del corpo, dono della natura? Perciò che molti onorano e riveriscono quelli sì come dei overo simolacri de dei». Debbe essere finalmente la donna bella sommamente amata e riverita e (se fosse lecito di dirlo) adorata per causa [56v] di creare figliuoli belli; i quali per il più sogliono essere simili alle madri, sì come approva un adagio de’ Germani appresso il Babellio, il qual dice che da brutta vacca nasce anco brutto vitello. Onde meritamente si può vedere che Giunone, appresso Vergilio lib. 1 dell’Eneida, per tal causa fece tal parlare a Eolo re de’ venti:
Sono in mia potestà due volte sette ninfe di corpo estremamente belle, delle qual la più vaga, Deiopea, vuo’ con teco legar con santa legge di matrimonio, e propriamente darla acciò che insieme tutti gli anni suoi per questi benefici sempre viva, padre venendo di sì bella prole.
Per le qual parole manifestamente si conosce che Vergilio ha insegnato a gli uomini fuggire le donne brutte e eleggere donne bellissime per creare anco i figliuoli bellissimi; perciò che, oltre il proverbio de’ Germani, dice ancora Libanio antiocheno sofista, scrivendo A Salonico, [57r] che mal provede ali figliuoli il padre il qual piglia brutta moglie: perciò rade volte si vede da brutta moglie nascere belli figliuoli. Conchiudendo dunque, s’un santissimo patriarca, Giacob, servì quattordeci anni per avere una donna bella, se le santissime leggi di Dio concedono che si possi ripudiare la donna brutta, se la donna bella è l’ornamento della casa, se la bellezza è dono di Dio; se tanti uomini forti, e semidei, non hanno istimato la morte per la bellezza d’una donna; se li dei e dee e gli eroi sono dalla bellezza lodati; se la bellezza è stata anteposta dali scrittori e filosofi alla sanità e alla giustizia e è stata avuta sempre in onore grandissimo; se quelli che erano belli anticamente erano eletti prìncipi, signori e re, se la bellezza è la dote delle giovani, se nessuna cosa è da essere più laudata della bellezza; se i santi sono belli e i dannati brutti, se Cristo istesso è bellissimo sopra tutte le cose e è causa di tutte le cose belle; se la bellezza esteriore [57v] dimostra l’animo di dentro, e la bruttezza del corpo dà indicio della bruttezza dell’anima; se li ministri di Dio debbono essere bellissimi; se la bruttezza è maladetta; se l’incontrare un bello è di buono augurio e per contrario l’incontrare un brutto è indicio e segno di cosa cativa; se quello non può essere felice il qual è brutto, se la bellezza può liberare l’uomo dalla morte, se la bellezza si fa tutti amici e la bruttezza nimici; finalmente, per non dire tutte le lodi della bellezza, se la donna bella genera figliuoli bellissimi, chi sarà quello così fuori di mente e affatto balordo che non lodi le donne belle e cerchi con ogni industria e forza di avere una donna bella, fuggendo le brutte come fa la nave il scoglio? Ma lasciando questa materia, della quale abbiamo detto assai, passiamo più oltre alla difesa delle povere donne.
|
Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License |