PROEMIO
La
rivoluzione è il trionfo della filosofia chiamata a governate l'umanità. Fuori
della filosofia non v'ha rivoluzione; la ragione non è libera, la scienza non è
padrona; il culto è il principio supremo della società, domina la ragione,
detta le leggi e governa l'umanità. Ognuno intende per quella di Francia;
ognuno sa che la Francia dirige la rivoluzione. Qual deve essere la filosofia
della rivoluzione?
Era quella di
Locke. Essa vinceva il cristianesimo e trasportava sulla terra il destino dei
viventi, essa chiamava ogni uomo ad essere pontefice a sè stesso. Pure dal
giorno in cui la rivoluzione cadde sotto le tre reazioni di Napoleone, dei
Borboni e di Luigi Filippo, la filosofia di Locke si smarrì, Voltaire e
Rousseau rimasero sopraffatti, restò dubbia ogni conquista dello spirito umano.
I discepoli di Locke si attenevano ai fatti, e il fatto che non lasciava
titubante il diritto: si dimandò che cos'è il fatto, si dimandò se il
cristianesimo non è alla volta sua un fatto grande almeno quanto la rivoluzione
nascente. Concentravasi il fatto nella sensazione: si dimandò se l'idea non è
fatto quanto la sensazione, se il mondo delle idee, che disprezzavasi in
Platone, in Descartes, non valesse quanto il mondo della natura, e se la natura
potesse stare senza le idee. I discepoli di Locke pendevano al materialismo: fu
chiesto se la materia sia fatto certo, avverato, se si conosca della materia
qualche cosa di più che il suo apparire, se il suo apparire non sia qualità
piuttosto che materia, proprietà piuttosto che sostanza. La scuola di Locke accettava
il dubbio e vi trovava nuove forze per disfidare il dogma lungo tempo
inoppugnabile della cristianità; il dubbio era liberatore, era il primo
principio del libero esame, il dubbio feriva Cristo in cielo e si ricadeva
necessariamente sulla terra, nella sensazione di Locke, nella sfera dei fatti.
Fu chiesto se il dubbio non feriva il fatto stesso, se distrutto il cielo non
invadeva la terra, se non rendeva incerto l'avvenire, incerta la fede nella
rivoluzione, incerta ogni speranza di sfuggire alle tirannie del passato.
Vedevansi gli uomini sorgere liberi ed eguali dal limo della sensazione: fu
chiesto se l'ineguaglianza che sorge dalla sensazione non è anch'essa
legittima; se, opera della mente che sovrasta al diritto primitivo, non ha
anch'essa il suo diritto. Confidavasi nella ragione: fu chiesto se la ragione
non è fuori del senso; se, posta fuori del senso, nelle idee, non ha il diritto
di trascendere la natura, se nel trascendere la natura, non ha il diritto di
disprezzare il mondo che la scuola di Locke presenta come la terra promessa, se
non ha il diritto di metter capo nel cielo di Socrate o di Platone o de'
neoplatonici, d'onde si passava nel cielo di Cristo. Quindi nuovi sistemi
oltrepassavano disdegnosi la conquista di Locke, spiegavano il volo attraverso
la storia, e rimaneva dubbio se la rivoluzione non fosse un accidente, se la
negazione volteriana, se la demolizione di Rousseau non fossero traviamenti di
un popolo febbricitante; e dottamente si trassero innanzi Leibriiz, Descartes,
tutte le filosofie sconfitte, or consigliando a filosofi di allontanarsi dal
campo della politica, or consigliando alla rivoluzione di tramutarsi in una
nuova fase del cristianesimo, or trasportando il problema dell'umanità in
cavilli sì audacemente impotenti, che l'avanzare diveniva impossibile, il
retrocedere sembrava buon consiglio.
Mio primo
desiderio fu di trovare un maestro, di avviarmi confidente in una via sicura;
volli sfuggire ad ogni modo la sventura di essere solo. Non mi fu concesso
evitarla. Dovunque mi volgessi, trovai portentosi ingegni, scoperte preziose;
non una dottrina ferma nel suo principio: una dottrina che ci ritornasse
l'umanità, la sicurezza un tempo concesse ai discepoli di Locke. Condannato a
cercare in me stesso la formula in cui potesse compiersi la filosofia della
rivoluzione, mi proposi il problema quale affacciavasi in piazza e nelle
scuole, presso i filosofi e nelle assemblee politiche. Si tratta di sapere, io
mi dissi, in qual modo possiamo rimanere nel fatto, mentre il moto della logica
ci trae lungi dal fatto; si tratta di sapere come io possa credere a ciò che
vedo, a ciò che sento, mentre il ragionamento mi travia, mi sconcerta, mi
impone di rispettare ciò che non vedo, ciò che non sento, ciò che non è. Il
catechismo della rivoluzione è semplice, si riduce a due principi, la verità,
la giustizia; non v'ha alcuno che lo ignori: ma giunge il sofista, e vi dimanda
che cos'è la verità? che cos'è la giustizia? Le riduce al vostro opinar
personale, vi mostra che potete ingannarvi, che dovete rispettare l'opinione
opposta; resiste alla vostra virtù con una sua virtù, con un suo ascetismo: se
vi appellate alla natura, vi oppone la ragione; se parlate di scienza, vi
oppone una sua scienza, un suo criterio del vero, reclama la sua libertà, quella
dei credenti, e vi invola ciò che vedete, la verità di Voltaire, ciò che
sentite, la giustizia di Rousseau. Per sciogliere il problema, rimovere
l'inciampo, e far sì che la filosofia non fosse un inganno, che nessuno ci
possa illudere sotto pretesto di scienza. Come possiamo rimanere nel fatto,
mentre il fato ci vien frodato dalla logica? Il mio libro darà la risposta.
Nella prima
parte dimostro la critica che rovescia ogni fatto, e la riduco ad un'unica
formula. - Nella seconda parte ristabilisco il regno dei fatti in modo, che si
possa procedere coll'unanimità del buon senso, là dove non vi sono errori
materiali che ci dividano. - Nella terza parte mostro come la rivoluzione
scorra libera sulla via dei fatti, verso il vero ed il giusto, verso il regno della
scienza e dell'eguaglianza.
Offro il mio
libro all'Italia, che geme in una crisi solenne, è posta tra l'antico sistema
cristiano e il rinnovamento compiuto del suo patto sociale, non havvi mezzo, se
la filosofia non trionfa, sarannol'imperatore e il papa, Cesare e Cristo che
trionferanno sotto le antiche forme o sotto peggiori. Se la rivoluzione
organizzata in Francia non continua la sua guerra contro la cristianità,
l'Italia resterà sede di un'anarchia che farà desiderare gli antichi tiranni.
Ad ogni giorno ne abbiamo novelle prove: ed io le trovo numerose nelle
stesse invettive con cui mi rispondevano or ora i regii di Torino, di Genova e
di Firenze. La questione da me proposta era pur semplice. È vero, io dico loro,
che mentre l'odio del popolo contro l'antico sistema cresceva ad ogni giorno,
voi avete voluto evitare ad ogni patto la rivoluzione? è vero che per evitarla
avete ingannato il popolo intorno alla volontà del papa e dei principi? è vero
che avete sostituito alla guerra della libertà una guerra di conquista? è vero
che vi siete affaticati disperatamente perchè il popolo da voi illuso
rifiutasse il soccorso del popolo francese? è vero che avete confidata la
guerra a un re da voi esperimentato traditore e già intimo alleato
dell'Austria? è vero che avete impedito ai popoli di riunire le loro assemblee,
di proclamare i loro diritti, di ferire i loro nemici interni, di far salva
l'Italia dall'assolutismo che la preme? è vero che la vostra cospirazione regia
e cattolica riusciva alla sconfitta di Villafranca, al mistero di Novara? è
vero che dopo i disastri più goffi e vergognosi siete millantatori e insolenti
come se aveste riportate venti vittorie? Dunque siete felici, siete vincitori,
avete vinto? e chi? la democrazia: il papa è a Roma e l'Austria ristaurata. Vi
dite nemici dell'Austria! Da quando? Io vi vidi, o signori, ai piedi
dell'imperatore, degli arciduchi, dei principi: vi vidi ambasciatori,
magistrati, cortigiani del despotismo austro-pontificio; io vi vidi nemici
della patria e disprezzatori di ogni libero pensiero, io vi udii dichiarare
apostata e rinnegato all'Italia che ripudiava la vostra monarchia, la vostra
religione dominante, i vostri padroni, la vostra nazionalità, che volevate
rinchiusa nelle frasi dell'Arcadia e nell'ortodossia del sonetto. No, voi
nasceste Austriaci, voi lo siete di mente e di cuore: come l'Austria voi
difendete il trono e l'altare; come l'Austria imponete il cattolicismo colle
baionette e coi gendarmi; come l'Austria venerate i privilegi dei conti, dei
marchesi e dei vescovi; come l'Austria negate che il popolo sia sovrano; come
l'Austria ricusate al popolo il diritto di votare; come l'Austria proscrivete
la filosofia e la rivoluzione, pronti ad avventurare tutto, a tradire tutti, e
l'Austria stessa, per fuggire la verità e la giustizia. Peggio che Austriaci,
sotto il disprezzo de' principi, sotto il bastone di Radetzky non trovate
energia se non per maledire chi parla dei diritti della ragione; peggio che
Austriaci vi siete costituiti nei vostri giornali spie pubbliche, officiali per
denunziare i repubblicani che vivono in Lombardia e nel Veneto. E se non foste
infami, non avrei io torto?
Mi fu
risposto che sono utopista: e in che lo sono io? Forse nel ricordare quanto si
ripete da ogni ministro ad ogni tribuna che non si libera Roma senza intimare
la guerra alla cristianità? Forse nel ripetere, ciò che ognuno sente, essere
tutta la cristianità collegata col pontefice e coll'Austria per conservare la
servitù dell'Italia? Forse nell'annunziare la guerra inevitabile, continua
della rivoluzione francese contro la cristianità? Forse nell'asserire che la
guerra della rivoluzione esiliava già dall'Italia il pontefice e l'imperatore,
e creava quella nazionalità che i nazionalisti nel delirio della loro
contraddizione invocano e rinnegano ad ogni tratto? Sogno io forse parlando di
una guerra di cui voi tremate, o signori, più ancora che il popolo non ne
speri? Sono io forse utopista nel dichiarare che la rivoluzione deve essere
applicata in Italia quale sarà fatto e legge in Francia, quale uscirà discussa,
approvata, sancita da una nazione di 36 milioni d'uomini? Sono forse avventato
nel dichiarare nullo, irrito, ogni sforzo per discutere in oggi la liberazione
d'Italia a Milano, a Napoli, a Firenze, a Roma, dove sotto pene atroci è
vietato leggere quanto si pensa dovunque sul sistema della cristianità? Sono
forse temerario nel dichiarare sacrilego ogni sforzo di stordire i popoli nel
momento dell'insurrezione, sradicando d'un tratto gli Stati, le tradizioni,
l'antichissima autonomia, e sopprimendo le assemblee, la voce del popolo per
improvvisare un'unità regia o repubblicana che poi al menomo urto cada
disciolta? Sono forse paradossale perchè pedissequo del fatto puro, servo del
diritto ed anche della legge ove non sia iniqua, predico quel fatto, quel
diritto su cui reggeva la resistenza di Venezia e di Roma, e su cui regge ogni
Stato, e starebbe anche l'Italia se troppo potenti non fossero l'ignoranza e il
tradimento che la straziano, ogniqualvolta non è percossa dalla spada
dell'Impero? In breve, si dica che sono avventato perchè diffido dei progetti
avventati, degli avventurieri, siano essi re, papi o condottieri, perchè
diffido dei capi che alla vigilia della lotta non vedevano la lotta, non
sentivano, anzi negavano, anzi tradivano il principio che ferveva in ogni
popolo oppresso dal sistema cristiano.
Chi ci accusa
di temerità? i signori che si sono costituiti il privilegio di liberare
l'Italia senza rivoluzione e senza reazione: or bene, obbediremo; espongano
adunque il savio loro disegno. Ci dicano come uno Stato di terz'ordine, che per
iperbole chiamasi il Regno, possa vincere l'Austria, confiscare i principali
italiani, domare il papato, far fronte alla Germania, alla Russia, trascinar
seco l'Inghilterra, mutare il mondo, e in pari tempo ingannare la Francia,
sbaragliare la rivoluzione, che metteva già il così detto Regno a soqquadro in
Savoia, a Genova, a Nizza, nei tre quarti dell'angusta sua superficie. In qual
modo il Piemonte potrà liberare l'Italia? col diritto? Non ha diritti. Colla
forza? qual'è la sua forza? Quale? Si tolgano l'Austria ed il pontefice, e sarà
ventura se non si scinde in più regioni e se rimane uno degli Stati della
federazione repubblicana. Il regio Piemonte è custode dell'Alpi. Contro chi? È l'antemurale
del sistema austro-pontificio; è condannato a difenderlo per difendersi, a
proteggerlo per sostenersi, se svanisce deve contraffarlo, parodiarlo; deve
esser l'avanguardia contro la Francia, deve combattere la rivoluzione, parlando
d'indipendenza, di conquista, d'unità, deve assumere la luogotenenza
dell'impero nei casi di rivoluzione, deve supplire coll'astuzia, col tradimento
al sistema che decade, deve essere ostacolo alla libertà d'Italia sotto pena di
morte. Questa è la ragione per cui sta la camera piemontese; per cui il
Piemonte affetta di non esser complice della reazione europea; questa è la
ragione per cui il gabinetto piemontese cospira a Milano, a Firenze, a Palermo,
a Napoli coi capi della corruzione, che mercanteggiano gli stati leggendo la
Bibbia; questa è la ragione per cui il ceto-medio piemontese sta collegato
colla nobiltà, per dividersi tutti i lucri del regno futuro; questa è la
ragione per cui mille scribivendoli liberi o pagati assalgono con un torrente
di contumelie chi turba la concordia della cospirazione scempia e malvagia che
perde l'Italia; questa è la ragione perchè assalgono ad ogni giorno, in pari
tempo, il papato e la filosofia, l'Austria e la rivoluzione, la chiesa e la
Francia, sì che ogni cosa resti tra il si ed il no, fuori del fatto, fuori del
diritto, in guisa che il buon senso appaia demenza, e la verità impostura.
L'insidia previdente oltrepassa già la monarchia; facendosi astratta, s'insinua
nel campo della democrazia; facendosi ognor più contraddittoria, parla il
linguaggio rivoluzionario per meglio capovolgere la rivoluzione. Qui accoglie
ogni idea nemica del popolo, e continua il moto che parte dall'alto; già
trasportava la rivoluzione nella dittatura del pontefice, poi in quella d'un
re; la trasporterà in un cittadino: purchè impedisca di riunire le assemblee
federali, il cittadino sarà caro ai signori; purchè proclami la guerra prima
della rivoluzione, sarà caro alla reazione; purchè voglia dirsi Napoleone prima
d'ogni vittoria, prima della guerra, sarà acclamato qual nume liberatore;
purchè il nume continui l'insidia delle fusioni si chiamerà avverso alla
gloria, al primato dell'Italia chiunque non gli sia plaudente. Il più melenso
formalismo avrà la sua catastrofe. E che posso, che devo io rispondere agli spaventi
simulati da chi ode due mie parole: irreligiose, legge agraria? Nulla.
Sia pure dimostrato che sono empio quanto Voltaire, colpevole quanto Rousseau,
esecrando quanto Bruno, quanto Campanella, quanto il risorgimento, quanto la
rivoluzione, quanto la filosofia. In nome della filosofia accetto la inimicizia
di tutti i nemici della democrazia.
1 Agosto
1851.
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