Capitolo
III
LE FORME LOGICHE SI DISTRUGGONO DA
SE
Isolatamente
considerate, le forme della logica non resistono alla stessa loro azione.
Dimentichiamo la natura, dimentichiamo la creazione, svanisca ogni fatto
materiale. Il dilemma sorge nuovamente dal seno stesso dell'identità,
dell'equazione e del sillogismo.
Prendiamo la
prima forma dell'identità. Finch'essa lotta contro la natura, siamo
nell'alternativa di sacrificare i suoi assiomi o l'esistenza della natura; ma
quando l'isoliamo essa ci sfugge di nuovo. Per afferrarla, bisogna applicarla a
qualche cosa, bisogna opporla a ciò che non è identico. Accettiamo questa
necessità, che è già contraddittoria, qui ancora non si dice mai. che un
oggetto è identico con sè stesso; affermando che: il sole è
identico col sole, si cadrebbe in una vôta tautologia. Bisogna che
l'oggetto cambi, che scompaia momentaneamente, che un velo qualunque
s'interponga tra noi e l'oggetto, e ne alteri così i rapporti nello spazio o
nel tempo, e allora soltanto l'identità sia concetta, invocata e possa
constare. Dunque essa non esiste se non quando ha cessato di essere; l'identità
suppone il difetto di identità, suppone la differenza; essa non è eguale a sè
stessa, non può essere dedotta da sè stessa, e conviene che si contraddica per
essere intesa.
Sviluppiamo
il principio dell'identità. Dopo di aver affermato che una cosa dev'essere
eternamente la stessa, dopo di aver negato la possibilità del cambiamento che
la farebbe essere e non essere, l'identità, sempre in balia dell'oggetto,
prende una nuova forma, e si applica non più alla sostanza, ma alle qualità
delle cose. Qui diventa il principio della differenza, e dichiara che due
qualità opposte non possono appartenere in pari tempo a un medesimo oggetto. Si
ammette dunque che le due qualità possano appartenergli l'una dopo l'altra, si
accorda dunque che l'oggetto può cessarc di essere ciò che è, per diventare
altro. Dunque l'identità è in balia di ciò che non è identico e si distrugge
sviluppandosi.
L'equazione subisce
il medesimo destino. Essa si fonda sull'eguaglianza: ma due cose assolutamente
eguali non possono distinguersi, e sarebbero per noi la stessa cosa.
L'eguaglianza che credesi di affermare coll'equazione, non è l'eguaglianza, è
l'identità di una stessa cosa sotto due forme diverse, l'identità di un numero
nella diversità dei termini; e la differenza ferma l'eguaglianza nell'atto
stesso in cui dovrebbe svilupparsi. Se A è eguale a B; B è A: l'apparenza di B
è un errore, B non esiste; se A non è eguale a B, dov'è l'equazione? Insomma
l'equazione ci presenta la contraddizione dell'eguaglianza e
dell'ineguaglianza. La vera eguaglianza non può essere afferrata perchè
identifica i due termini: l'ineguaglianza escludendo l'eguaglianza, ci
impedisce di sviluppare l'equazione: quindi la contraddizione si manifesta
nella seconda forma della certezza.
Lo stesso si
dica del sillogismo. Il sillogismo si compone di tre termini, il primo de'
quali contiene il secondo, che contiene il terzo termine. Dunque esso suppone
già che i tre termini siano distinti, e che nel tempo stesso gli uni sian
contenuti negli altri; dunque suppone i suoi termini gli uni negli altri, e gli
uni fuori degli altri. Così il sillogismo si trova esposto, per la sua stessa
costituzione, alle inconseguenze dell'identità e a quelle dell'equazione. Si
propone di dedurre una cosa dall'altra, e accettando la distinzione delle cose
non si può nulla dedurre, siamo nella necessità di dover ottare tra la
differenza dei termini e la loro identificazione. Se A è fuori di B, e B fuori
di C, non dite che v'ha un rapporto fra i termini, non dite che si uniscano
nella conseguenza. Che se A è in B, e B in C, i tre termini non sono distinti,
sono un termine solo, havvi identità; il sillogismo è impossibile. Passiamo
oltre. Chi dà i termini al sillogismo? la natura. Chi li dispone? ancora la
natura, che unisce a due a due i termini per formare le proposizioni delle
premesse. Quando si dice il peso è materiale, la pietra pesa, dunque la pietra
è materiale; le premesse dinanzi alla logica sono affatto arbitrarie; tra il
peso e la materia, tra la pietra e il peso non havvi identità, nè eguaglianza,
nè deduzione. La necessità matematica del sillogismo si trova solo nella
conclusione, e questa necessità non si fonda se non sul capriccio della natura,
la quale suggerisce le due premesse; con altre parole, non si fonda se non
sulla materia della logica. Il sillogismo è dunque sottoposto a tutti i dilemmi
della natura. Cieco sul proprio punto di partenza, può venire soggiogato da
tutti i contrari, può essere dominato dall'identità, dalla differenza,
dall'eguaglianza e dall'ineguaglianza, dalla sostanza e dalla qualità, dal bene
e dal male; esso deduce egualmente la verità e l'errore, ed è l'istrumento
naturale di tutte le interversioni possibili. Il sillogismo parte dalle nozioni
più astratte per giungere alle più concrete: la più alta di tutte le astrazioni
è quella dell'essere; è sempre combattuta dalla nozione opposta del non-essere;
dunque, parallelo ad ogni sillogismo affermativo, potrà sempre svilupparsi un
sillogismo negativo; dunque il sì ed il no stanno rinchiusi nella forma stessa
del sillogismo.
Lo ripeto:
tutta la necessità del sillogismo sta nella conclusione; ma l'idea della
necessità non può restare nella conclusione. Sotto l'impero della logica il
sillogismo s'interverte e ritorna alle sue proprie premesse. Se la conclusione
è eguale alle premesse, le premesse debbono essere eguali alla conclusione nei
limiti in cui il contenente e il contenuto coincidono; dunque in ogni premessa
i due termini debbono restare insieme per una necessità eguale ed identica alla
necessità che collega i due termini della conclusione. In questo moto
regressivo la conclusione necessaria distrugge le premesse arbitrarie. Il
sillogismo vuole dunque che si dimostrino le sue proprie premesse; e qui la
contraddizione interiore del sillogismo si svela in tutta la sua forza. Che
cosa è la premessa? È una proposizione generale. Ora, se non è dimostrata, è
arbitraria; se è dimostrata, bisogna supporre sempre un sillogismo anteriore al
sillogismo: eccoci indotti al dilemma di una premessa arbitraria o di un
regresso all'infinito. Del resto, anche circoscrivendoci nella sfera
dell'esperienza, la premessa suppone l'impossibile, perchè la proposizione
generale suppone l'induzione, e l'induzione non si accerta se non osservando
tutti gli individui, perlochè il sillogismo ci costringe al percursus rerum
naturae, all'impossibile.
Il vizio del
sillogismo è sì evidente, che Aristotele, suo primo legislatore, alla teoria
del sillogismo aggiungeva la teoria della dimostrazione. Secondo Aristotele, la
deduzione non è valida se non fondata su principj veri, primitivi, notorj,
anteriori alla conclusione, e causa della conclusione stessa. Ciò
posto, non havvi dubbio che il sillogismo diventi interamente necessario; ma
qui non è più il sillogismo, è la stessa verità, è una filosofia che determina
i principj primitivi, veri, notorj. Qui il sillogismo suppone già
scoperti i principj anteriori alla conclusione, e causa della
stessa conclusione; il che torna a dire, che qui esso suppone già chiuso per
sempre il circolo di tutte le interversioni, e quindi sciolti per sempre tutti
i dilemmi della natura. - Continuando a spiegare l'essenza del sillogismo
dimostrativo, Aristotele dichiara che le premesse devono essere necessarie,
essenziali, universali e generiche: non v'ha dubbio che, scoperta
una volta l'universalità, la necessità e l'essenza, si domina l'universo. Ma
dove prendere l'universalità, la necessità, l'essenza? non sono esse straniere
al sillogismo? In sentenza d'Aristotele il termine medio per dimostrare
dev'essere causa: d'accordo; se voi avete la causa, avete
l'effetto: dov'è dunque la causa? Supponiamola trovata. La causa è generatrice,
fluente; si áltera, e implica contraddizione; la causa è una potenza, e quindi
contiene in sè i contrari, contiene ciò che può diventare e non diventare, ciò
che può affermarsi e negarsi, essere e non essere. Se spetta alla causa a
generare, a dimostrare, a creare la conclusione; se dipende dal termine medio
della causa, tutta la forza del sillogismo, non è più il sillogismo che
dimostra, è la realtà vivente delle cose che dà la conclusione. Per sè il
sillogismo resta straniero al processo dimostrativo, e si riduce ad una mera
estimazione di vuote grandezze. La dimostrazione della causa crea, passa dal
padre al figlio, dal germe al frutto; la dimostrazione del sillogismo passa dal
contenente al contenuto, dal più grande al più piccolo, dal tutto alla parte; i
quali rapporti sono violati nella generazione, in cui il tutto è più grande
della parte, il contenuto oltrepassa la natura del contenente, e le leggi della
quantità aritmetica sono di continuo falsate. Dunque da una parte Aristotele è
il legislatore del sillogismo matematico, e in presenza del sillogismo
matematico, tutto è impossibile; il diventare è un assurdo, l'alterazione non
può essere. D'altra parte, Aristotele è il legislatore dalla dimostrazione,
dove tutto dipende dalla causa, dall'alterazione, dal diventare; dove tutto è
possibile, tutto è vero. Da una parte basta al termine medio essere una
grandezza contenuta dal gran termine, e contenente il piccolo termine. D'altra
parte, il termine medio dev'essere una causa, generare e creare realmente la
conclusione. Così Aristotele ha dato due teorie distinte, l'una logica, l'altra
naturale; l'una rappresenta la forma, l'altra la materia della logica; e le due
teorie si escludono e si contraddicono su tutti i punti, perchè condannate a
riprodurre la lotta che sussiste tra la forma e la materia della logica.
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