Capitolo
V
LA CRITICA NELLE TEORIE SCETTICHE
Ogni teoria scettica
si riduce al momento critico di un sistema staccato dal dogma e rivolto contro
il dogma stesso. Per difendere l'ente, la scuola di Elea nega la distinzione
delle cose; questa negazione è il momento critico degli eleati; afferrate la
negazione, rivolgetela contro l'ente; avrete le teorie scettiche dei sofisti.
Platone e Aristotele spiegano il mondo colla ragione, sacrificano alla ragione
le cose sensibili; questo sacrificio costituisce il loro momento critico.
Staccatelo dal platonismo e dal peripatetismo; rivolgetelo contro la ragione,
avrete le teorie di Pirrone e de' suoi successori. Il cartesianismo dubita
della natura, del non-io, del senso di tutto ciò che non è nè chiaro, nè
evidente; crede solo alle idee e a Dio, l'idea di tutte le idee. Isolate il
dubbio cartesiano, applicatelo alle idee e a Dio, sarà lo scetticismo di
Berkeley e, più tardi, di Davide Hume.
La nostra
formola, la dominazione della logica che si distrugge da sè, abbraccia,
riassume e oltrepassa tutte le toerie scettiche. Per dimostrarlo basterà
analizzare la tradizione scettica.
Presso i sofisti
l'arte del dubbio è nell'infanzia. I sofisti ignorano compiutamente
l'istrumento della critica; non conoscono nemmeno il sillogismo, trascurano
l'equazione, e sono ridotti alla dialettica dell'identità. Questa è la
dialettica dell'essere e del non-essere. Gorgia dice: «La verità non esiste; se
esistesse, non potrebbe essere conosciuta; se fosse conosciuta, non potrebbe
essere insegnata.» Perchè? per la ragione che sarebbe la verità della
distinzione delle cose. Per esistere, le cosedevono separarsi le une dalle
altre; per nascere, per morire, per muoversi devono distare le une dalle altre.
Dunque esistere è essere limitato, non-essere; conoscere è conoscere la
separazione, il nulla, ciò che non è; dunque la verità sarebbe ciò che non è;
dunque non havvi nè verità, nè cognizione, nè insegnamento. Gorgia ha ragione;
il suo torto è di fermarsi all'essere e al non-essere: egli li suppone veri;
dev'esser lecito di supporli astratti, apparenti, relativi. Invece di
considerare l'essere nel cavallo, considerate il cavallo, cioè l'individuo, il
genere, il corpo, le sue l'unzioni, la sua organizzazione; fate del cavallo una
materia intelligibile, poi dite a Gorgia: L'essere e il non-essere non sono se
non gli accessorj di quest'ente intelligibile: non si tratta di sapere se il
cavallo sia o non sia, si tratta di riconoscere la nozione del cavallo, di
accettarne tutte le conseguenze. Gorgia sarà vinto, la sua critica si fermerà,
i dilemmi svaniranno, i sofisti cederanno il passo a Platone e ad Aristotele.
Il primo si sottraeva all'essere e al non-essere coll'idea; il secondo
coll'essenza. Il dogmatismo trionfava di una critica imperfetta.
Lo stesso
dicasi di Protagora: come Gorgia, stabiliva un principio che facilmente
s'interverte. «L'uomo,» diceva egli, «è la misura delle cose; tutto è relativo,
tutto cambia, tutto si riferisce a me, alla mia maniera di vedere; il vero è
nella mia mente, nella mia opinione; dunque tutto è vero, e l'errore non è.»
Anche in questo ragionamento havvi un punto di partenza preconcetto, un punto
dove la contraddizione è afferrata, ma limitata. Tutto cambia, dice
Protagora; e se tutto non cambiasse? e se vi fossero cose eterne e invariabili?
Tutto si riferisce a me; e se tutto non si riferisse a me? e se vi
fossero cose esistenti per sè? La mia persona è la misura delle cosa;
e se la misura delle cose non fosse la mia persona? se io non fossi se non
un accessorio, un'apparenza, la forma di una misura universale, impersonale,
qual'è la ragione? Protagora sarebbe vinto, e lo fu realmente, dal genere
inalterabile di Platone, dalla ragione di Socrate; fu vinto perchè al di là del
rapporto s'intravvede l'oggetto, perchè il mondo si rivela, astrazion fatta da
me, e perchè io non sono se non una relazione e forse un errore dcl mondo. Per
Protagora l'anima non è se non la collezione de' diversi momenti del pensiero;
d'onde viene dunque l'apparenza dell'unità? essa è incontestabile quanto la
distinzione de' pensieri. Giusta Protagora, il bene in sè è l'utile; perchè non
sarebbe egli il danno, il sacrificio? Noi ci figuriamo la virtù come un bene,
il sacrificio esce spontaneo dalla nostra volontà. In breve, i sofisti non
conoscono l'istrumento della critica; fanno aggirare la critica sul punto di
una tesi, non sanno intervertire la tesi, nè reciprocare i dilemmi alternando i
termini. Per trionfare, il dogmatismo ebbe solo a rizzare la sua tenda alquanto
più lungi sopra nuove tesi.
La teoria del
dubbio si avanza d'un passo con Pirrone, che mette in opposizione i generi
cogli individui, l'intelligibile col sensibile. La contraddizione si estende, e
ingrandisce; con qual processo? Non si vede; lo scetticismo resta ancora
confinato in certo numero di tesi e di luoghi comuni per dimostrare che le
nostre opinioni cambiano secondo la varietà degli animali, degli uomini, dei
sensi, delle circostanze; secondo la posizione, la combinazione, il rapporto,
il soggetto, l'abitudine, ecc. E se tutto non cambiasse? Pirrone sarebbe vinto;
ma per noi la contraddizione resterebbe, perchè l'identità, l'equazione e la
deduzione riprodurrebbero i dilemmi anche nell'apparenza eterna, anche
nell'apparenza isolata, sensibile o intelligibile, anche nella percezione
infallibile, anche nel caso in cui la varietà delle opinioni e l'inganno
dell'errore fossero fenomeni sconosciuti. Non è l'io, non è il moto, non è il
rapporto, non è l'errore che mi confondono, ma rimango confuso da ciò che
esiste. Pirrone propone la felicità nella quiete, nella tranquillità; lascia il
mondo al suo corso, e si riposa sul guanciale del dubbio; e se io voglio
osservare, lottare, credere, ingannarmi, se cerco le delizie dell'errore? Ciò
si vede, ciò è possibile, e ciò distrugge la morale di Pirrone. Poi, perchè
cercate l'equazione della felicità? Per difetto di critica. Pirrone ignora
adunque l'istrumento della critica, e l'arte di intervertire ogni tesi col
mezzo di tutte le altre.
Enesidemo,
Agrippa e Sesto Empirico toccarono i primi dell'istrumento della critica, ma
solo per inventare i luoghi comuni che contestano la possibilità della
dimostrazione. «Non si può nulla dimostrare» dicono essi, «perchè o
dimostrerete scambievolmente una cosa per l'altra, grazie ad un circolo
vizioso, o cercherete sempre la prova della prova, e cadrete nel regresso
all'infinito: di là l'insufficienza di tutti i principj.» Sia; perchè dunque
volete dimostrare ogni cosa? Qual'è dunque l'istrumento che esamina la
dimostrazione, e la trova circolare o regressiva all'infinito? I nuovi scettici
non s'accorgono che tale istrumento è la logica, la quale vuoi dominare i
fenomeni, e si rivolta contro la materia della logica. Se nulla può essere
dimostrato, la nozione della prova non può essere completa; se siamo sempre
nella necessità di cadere in un circolo vizioso, e nel regresso all'infinito,
accetteremo i fatti evidenti, non dimostreremo l'evidenza, e la scienza si
ristabilirà sopra una base non dimostrata. Enesidemo replica che in questo caso
il dubbio si ripresenta, i fatti sono gratuitamente assenti; Quod gratis
asseritur, gratis negatur. Ma non sussiste una differenza tra l'affermare
un essere imaginario, e il riconoscere un essere reale? tra il mentire e il
vedere? Accettando quanto appare non l'inventate, resta vero per sè. Enesidemo
suppone che la verità vuol essere dimostrata, l'ipotesi contraria è egualmente
legittima, e non si decide a priori se il vero debba precedere o
succedere alla dimostrazione. Supponiamo che sia possibile di dimostrare ogni
cosa, e che un filosofo risponda a Enesidemo: ho vinto l'infinito, ho scoperta
la pietra prima, dove comincia e finisce ogni dimostrazione; supponiamo che
questo filosofo nè inganni, nè sia ingannato; Enesidemo sarà vinto, la critica
non lo è. Essa opporrà la conseguenza alle premesse; e l'identità, l'equazione
ed il sillogismo non cesseranno di dimostrarci la contraddizione nel seno
dell'evidenza universale. Lo ripeto; non è l'incertezza, non è l'oscurità che
turbano il nostro intelletto, è l'evidenza stessa, la quale mi confonde
egualmente, sia che si presenti d'intuito, sia che venga conquistata colla
dimostrazione.
Come si vede
il dogmatismo, più abile a tormentarsi, che lo stesso scetticismo, gli
eleatici, Platone, Aristotele sono i veri inventori del criticismo antico; gli
scettici posteriori si restrinsero a staccarlo dai sistemi che lo supponevano.
Istessamente, Descartes, è il maestro del criticismo moderno, che s'ingrandisce
staccandosi dal sistema cartesiano
La filosofia
trovavasi immersa nel probabilismo e nel disordine della tradizione scolastica,
quando Descartes pensò di darle la precisione della matematica, e così la
spinse involontario nella via della critica. Il suo melodo svolgesi equivoco
quanto il suo criterio; la duplice evidenza logica e materiale, da lui assunta
come regola sotto il nome di chiara e distinta percezione, dà per conseguenza
un metodo doppio sotto di un'apparenza unica. Questo metodo raccomanda
l'analisi; e l'analisi può prendersi in due sensi opposti: da un lato può
essere l'esame attento, minuto, regolare di tutti i fenomeni; esame che si
riduce ad un'osservazione senza critica, all'osservazione del chimico o del
fisico: dall'altro lato, l'analisi può essere la separazione matematica di
tutti i fatti che non sono riuniti dall'identità, dall'equazione e dal
sillogismo. Descartes che vuol raggiungere coll'analisi la certezza matematica
propende verso la seconda direzione, e la certezza che si propone abbraccia
egualmente due procedimenti opposti, quello d'ogni scienziato che deduce
conseguenze incontestabili da un principio prestabilito, e il procedimento
della critica che distrugge l'evidenza nell'atto stesso in cui pretende
dimostrarla, le sue abitudini matematiche.
Le regole del
suo metodo sono le seguenti: «1° Non ricevere mai alcuna cosa per vera, a meno
che non sia per tale riconosciuta, sì che il dubbio diventi impossibile. 2° Dividere le difficoltà in tante parti
numerose quanto si può ed è richiesto per meglio scioglierle. 3° Procedere con
ordine cominciando dagli oggetti più semplici e più facili a conoscersi. 4° Fare
dovunque enumerazione sì complete e riviste sì generali, che ne restiamo
assicurati di nulla aver ommesso.» Queste regole sono equivoche. Le tre ultime
riescono scolastiche, incerte e di mera prudenza nell'applicazione. Come sapere
se tutte le difficoltà sono divise? se l'ordine è vero, naturale? se
l'enumerazione è compiuta? se nulla fu ommesso o trascurato? Qual uomo non si
propone di ben riconoscere le difficoltà? chi ricusa di procedere con ordine?
chi vuoi fare enumerazioni incompiute? Nessuno: le tre ultime regole
abbracciano dunque la precisione della matematica e quella di una scienza senza
rigore e permettono egualmente il dubbio e il dogma. La prima regola più
rigorosa reclama l'evidenza: quale evidenza? Quella dei fatti o quella
dell'identità, della equazione, della deduzione? Descartes scambia la prima
colla seconda, varia colle occasioni, or logico or trascinato dalla materia
della logica.
Nell'equivoco
Descartes sperava l'equazione dell'universo; sperava l'evidenza di una premessa
e di una deduzione, l'intuito della verità prima, e delle sue conseguenze. Tale
convinzione vien supposta dal suo dubbio: Descartes dubita dei suoi pensieri e
non del pensiero, è incerto delle sue cognizioni; non lo è della matematica, nè
della logica, nè della ragione.Il suo dubbio si limita ad avverare la
possibilità dell'errore, la nostra fallibilità. Descartes non spinge l'analisi
fino a separare la qualità dalla sostanza, la causa dall'effetto; non
interverte le tesi, non dimostra la contraddizione che strazia l'alterazione,
il rapporto, la materia e lo stesso pensiero, fatta astrazione della nostra
fallibilità e pensa solo all'errore; divenendo dogmatico, non cerca se non di
vincere l'errore colla forza dell'equazioni dedotte dal suo pensiero. Crede a
Dio perchè nella nostra mente dal concetto di Dio si transisce all'esistenza di
Dio; crede al mondo perchè la sincerità di Dio è eguale alla verità della
creazione: in sua sentenza il mondo si conserva per una continua creazione,
perchè tra il conservato e il creato havvi distinzione di tempo ed eguaglianza
di effetto. Dichiarando eguali lo spazio e la materia, Descartes si apre
l'adito per transire dalla metafisica alla fisica; e svolgendo poi una lunga
serie di equazioni meccaniche, rende ragione della formazione dei mondi e
dell'organizzazione degli esseri viventi. Lo stesso principio cogito ergo
sum, non rassomiglia forse a un'equazione tra il pensare e l'esistere? Per
Descartes l'essenza dell'anima non consiste forse nel pensiero?
Il metodo che
accettava l'evidenza dei fatti, accetta in pari tempo l'evidenza dell'identità,
dell'equazione e della deduzione; e ne segue che, progredendo, sottomette
all'identità, all'equazione, alla deduzione gli stessi fatti prima dichiarati
evidenti. Dopo di aver ammessa preliminarmente la chiara e distinta percezione
della nostra esistenza, dopo di aver preso il suo punto di partenza nel
pensiero, Descartes vuol dimostrare la verità stessa del pensiero: dopo d'aver
adottata preliminarmente la matematica, vuol dimostrarne la verità: dopo di
aver accettato il dato della ragione, confessa che la sua ragione potrebbe
ingannarlo, che gli assiomi potrebbero essere falsi, che i teoremi matematici
potrebbero non contenere se non un valore soggettivo, ed essere solo errori
dell'uomo; riconosce, infine, che la chiara e distinta percezione da cui il
dubbio vien reso impossibile, potrebbe essere una percezione umana,
un'illusione dell'io. Il movimento delle equazioni porta Descartes molto al di
là del criticismo esposto nella prefazione del suo sistema, nell'analisi del
dubbio preliminare. Descartes resta sempre dogmatico: ma a qual patto? a patto
d'un miracolo continuo: nel suo sistema io son certo di esistere perchè Dio lo
vuole; la matematica è vera perchè Dio l'ha decretata tale; il mondo non inganna
la mia percezione, perchè l'inganno fu respinto dalla volontà di Dio: havvi un
rapporto tra i miei pensieri ed i corpi, perchè Dio ha prestabilito questo
rapporto: Dio, un prodigio perpetuo della volontà divina; ecco il termine medio
della metafisica cartesiana. E Descartes come dimostrava l'esistenza del gran
genio della verità, di Dio? Col pensiero; in guisa che nel suo sistema il
pensiero prova Dio, e Dio prova il pensiero; la matematica conduce alla
teodicea, e la teodicea conduce alla matematica; la divinità è figlia
dell'evidenza, e l'evidenza è figlia della divinità. La logica accetta e
distrugge alternativamente i pensieri, gli assiomi, la matematica; però colla
differenza, che la demolizione è naturale, e la ricostruzione soprannaturale;
la prima è provata, la seconda supposta. Poi la supposizione stessa si trova,
da ultimo in balia di un'incognita, per la ragione già detta che questo Dio
creatore, conservatore, sincero, veridico, è assolutamente libero,
assolutamente superiore alla creazione, alla conservazione, alla sincerità,
alla verità; potrebbe voler ingannarci, potrebbe correggere i suoi disegni,
pentirsene, rinnegarli. E forse furon già cambiati, e il mondo appare il
contrario di quello che è nella presenza di Dio.
Dopo
Descartes la critica è come la freccia nei fianchi della balena; la metafisica
deve morire; nè Spinosa, nè Leibnitz potranno salvarla. La critica è
assicurata, che tra i pensieri e le cose, tra l'anima e il corpo, tra lo
spirito e la materia, havvi la distanza della contraddizione; è assicurata, che
la storia, che la tradizione, che la morale, che la politica sono scienze
congetturali, negate, disdegnate dalla filosofia cartesiama,esse svelano ogni
giorno le antinomie che le straziano. Il dubbio sull'esistenza dell'io e della
natura resta invincibile, l'intuizione è sospetta, nè può essere garantita da
Dio: si dubita di ciò che si vede: e Dio, che sfugge alla visione, non può
toglierci dalle incertezze. Non sarà difficile l'oltrepassare la critica di
Descartes tentando di oltrepassare il dogma.
Malebranche,
Spinoza e Leibni abusarono di Dio: i tre sistemi sono tre confessioni implicite
e progressive della contraddizione universale che li opprime. Perchè
Malebranche dichiara essere il mondo percetto in Dio? Perchè esagera egli i
miracoli del cartesianismo? perchè dimostra l'impossibilità di ogni relazione
tra lo spirito e il corpo, tra il pensiero ed il suo oggetto: dunque deifica
questa relazione, e spiega la percezione divenuta impossibile colla teoria
della visione in Dio. Presso Spinosa la contraddizione tra il pensiero e la
sostanza che pensa è scoperta, proclamata; quindi il sistema di Spinoza è già
il sistema della contraddizione universale. Presso Leibniz la confessione è
ancora più esplicita; le sue monadi, la sua armonia prestabilita, la sua
teodicea suppongono che lo spirito e il corpo non possono fra di essi
comunicare, che il pensiero non può avere alcun rapporto col suo oggetto; che
il mondo fisico, anche considerato negli elementi i più semplici della materia
e del moto, è assolutamente impossibile per chi non rinuncia alla logica.
Berkeley e
David Hume separano infine il momento critico dal sistema di Descartes e de'
suoi successori. Berkeley applica il metodo alla natura, la nega, resta solo
colle sue idee, col suo Dio, primo a proclamare lo scetticismo psicologico. Ma
nella psicologia lo scetticismo erra a caso, il non-io è evidente quanto il suo
contrario, l'io pensante: non v'ha dunque ragione per sacrificarlo, nè per
preferirglielo. D'altronde, possiamo accettare Dio quando neghiamo il mondo? La
separazione matematica delle nozioni non conduce a sacrificare una nozione
all'altra: dimostra l'impossibilità d'ogni sacrifizio, d'ogni scelta, d'ogni
punto di partenza. Berkeley non possedeva il metodo, ed il buon prelato era la
vittima del metodo. Con David Hume lo scetticismo psicologico fa un nuovo
passo. Meglio istrutto, David Hume nega Dio, le idee, il mondo; non vede fuori
di sè nè generi, nè esseri soprannaturali, nè cose naturali. Poi, confinato
nella psicologia, ripete sotto altre forme gli errori di Berkeley. Quando
combatte Dio, combatte un errore, e non un'evidenza; fa atto di buon senso, e
non di critica: quando nega le idee di sostanza, di causa, di tempo, di spazio
perchè non adeguate alla sensazione, non si accorge che sono evidenti come la
sensazione, e che hanno il diritto di intervertire tutte le sue tesi; quando
nega il mondo, non s'accorge che il mondo è evidente quanto l'io, e che l'io è
incerto quanto il mondo. David Hume non giunge mai ad afferrare nè l'istrumento
della critica nella sua purezza, nè la contraddizione ne' dilemmi, nè
l'interversione dialettica nelle sue antitesi: non separa mai la critica
dell'evidenza dalla critica dell'errore.
Era riserbato
a Kant di compiere il momento critico cartesiano; e Kant ebbe il doppio merito
di afferrare l'analisi nella sua forza, e di mostrare l'evidenza nelle sue
contraddizioni. Egli cominciò dall'afferrare l'analisi, separò matematicamente
l'uno dall'altro tutti gli elementi del pensiero, tra cui non havvi identità; e
le nozioni da lui separate non furono più ricongiunte, qualunque sia la forza
occulta che le combina e non rimasero più se non fatti uniti a caso, senza che
se ne sappia la ragione. Dopo Kant, la sostanza non ha più rapporto alcuno
colla qualità, nè la causa cogli effetti; il tempo, lo spazio, le condizioni
dell'universo, non tengono più all'universo stesso. Dopo Kant è ben inteso che
la scienza finisce dove comincia la sintesi; dove comincia la cognizione, la
scienza è distrutta; non è più concesso l'affermare che il mondo esiste o che
noi esistiamo; questi più non sono se non giudizi fatali, empirici, i quali
rimarranno in eterno fuori della scienza..
Il secondo
merito di Kant fu la scoperta delle antinomie ridotte all'opposizione del finito
e dell'infinito, della libertà e della fatalità, della natura e di Dio; e
aprivasi così la serie dei dilemmi. Nè Descartes, nè David Hume, nè alcuno tra
i filosofi moderni aveva mai sospettato che la contraddizione potesse trovarsi
ordinata a priori nell'universo. Nessun uomo prima di Kant aveva
concetto il pensiero di por fine ad un errore infinito, rivelando i dilemmi
originari dello spirito umano.
Riconosciuti
i due meriti di Kant, non dimentichiamo che il principio della critica è la
dominazione della logica, che distrugge sè stessa; e ci sarà facile di scorgere
i difetti della critica kantiana.
La critica di Kant ha un punto di partenza, l'io
pensante di Descartes: è critica psicologica: è dunque una critica imperfetta,
falsa e iniziata a caso, perchè il punto di partenza dev'esser dovunque, fuori
di noi come in noi. Kant attribuisce le contraddizioni alla mancanza di armonia
tra le nostre facoltà e le cose esteriori: per lui le contraddizioni sono
errori del nostro intelletto e suppone che non possano essere nelle cose.
Perchè? non lo dice: la sua asserzione è gratuita, l'edifizio che si fonda su
questa asserzione poggia sul falso. - Dissolvendo le nostre cognizioni nei loro
elementi, l'analisi di Kant è esatta: ma quale ne è il processo? chi lo fa? non
vedesi: la separazione si termina negli elementi, il dubbio sovrasta a tutti i
giudizi non analitici, a tutte le sintesi; Kant non si spinge più oltre, non fa
giuocare la logica, non cerca un passaggio matematico da un elemento all'altro,
da un giudizio all'altro. Dunque non oltrepassa la dissoluzione, non iscopre le
vere contraddizioni dell'evidenza, non rivolge le condizioni di ogni cosa
contro la cosa subordinata, non rivolta le condizioni dell'universo contro
l'universo, non giunge all'assioma dell'impossibilità di tutte le cose e di
tutti i pensieri. Non progredendo apertamente coll'istrumento della logica,
Kant non coglie al vero le antinomie. L'io e il pensiero non solo s'uniscono
arbitrariamente, ma si escludono scambievolmente: il non-io non è solo
affermato gratuitamente, ma è affermato contraddittoriamente, dovendo io
ignorare ciò che è fuori di me. - Quali sono le antinomie di Kant? Riduconsi al
finito e all'infinito, alla libertà ed alla fatalità, a Dio ed alla natura;
antinomie che il filosofo tedesco annovera e classifica artificialmente sotto
le diverse categorie della ragione. Nuovo errore. Le antinomie sono in noi e
fuori di noi; non si riducono nè a tre, nè a dieci, nè a venti; non possono
essere nè classificate, nè coordinate; la stessa idea di ordinare le antinomie
si oppone alla critica, e la distrugge. Dio è il termine più importante
dell'antinomia di Kant, e Dio non doveva mostrarsi nella critica; non è un
fatto, non è un'evidenza, ma un'iperbole che conferma la critica, un sotterfugio
che compromette quelli che vi ricorrono. - Infine Kant pretende sciogliere le
antinomie; ed evita le une imputandole a un difetto del nostro intendimento;
scioglie le altre scegliendo una tesi malgrado l'antitesi, per la ragione che
la necessità di operare ci impone certe credenze. Nel primo caso continua
l'errore psicologico, che imputa le antinomie a un difetto della mente. Quando
poi sceglie certe tesi perchè la necessità di agire legittima certe credenze,
egli disconosce e l'antinomia e l'azione. L'antinomia non ci lascia liberi, il
suo dilemma è impassibile, eterno, nè si lascia piegare da alcuna convenienza,
da alcun interesse: il vero è vero; il fatto, fatto; torna esso a nostra ruina?
tanto peggio, nè ci è dato di mutano. L'azione poi trovasi in balia della
critica quanto il vero; è stretta dalle antitesi del dovere e dell'interesse,
del dolore e del piacere, della felicità e dell'infelicità; l'impossibilità
dell'azione sorge dal fondo stesso dell'azione; fosse pur vera l'esistenza
dell'io, della natura e dello stesso Dio, fossero pur evidenti la ricompensa
della virtù, la pena del delitto. Più logico era Descartes quando di proposito
deliberato dichiarava di voler rimanere onesto a dispetto della critica. Kant
vuol frodare una conseguenza incalcolabile, eterna, a un istinto della volontà,
a una nobile ispirazione, a un sofisma che accoglie il nostro destino
spaventato dalla critica. Posto il sofisma, cammina da sè, vuole stabilito
l'essere dove vi ha il non-essere; vuol l'io benchè incerto, il non-io benchè
irrito, Dio benchè annullato; e con Dio vuole la grazia, la salvezza, il
paradiso, forse l'inferno; e un primo errore evoca lo spettro del
Cristianesimo, e il lavoro della critica cade al disotto di Descartes.
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