Capitolo
V
LA RIVELAZIONE DEL GENERE
I fenomeni si
rassomigliano, le loro rassomiglianze formano i generi. Il genere è in
contraddizione coll'individuo e con sè stesso; ma appare; dunque è.
Il genere
esiste là dove si vede negli individui: negli animali havvi l'animale, ne'
cavalli il cavallo; perchè l'animale non appare che negli animali, il cavallo
non appare che nei cavalli. Gli individui possono moltiplicarsi, diminuire; il
genere resta indifferente al numero, alla diminuzione, alla moltiplicazione
degli individui; sempre uno, indivisibile, incorruttibile. Ma quando non havvi
più alcun individuo, il genere perisce; se non vi fossero più cavalli, il
genere del cavallo sarebbe spento: noi ne avremmo l'idea, potremmo concepirla;
pure sarebbe un'idea subiettiva, come quella che ci formiamo del Minotauro. La
nozione di un genere che perisce ripugna ai metafisici, i quali dopo di avere
ammesso il genere come appare, uno, indivisibile, incorruttibile, non possono
concedere che perisca. Come mai, dicono, ciò che è superiore al numero, alla
diminuzione, alla moltiplicazione, potrebbe svanire? Il genere perisce come
ogni cosa che cessa di parere; finchè pare è uno, indivisibile, incorruttibile;
quando scompare, ha cessato d'esistere; le rivoluzioni cosmiche, rinnovando le
razze e la vegetazione, rimutano i generi.
Quanti sono i
generi? Ve ne hanno quanti ne appaiono, senza che sia possibile di fissarne il
numero. Tra due classi, tra due generi la natura ci offre sempre mostri,
eccezioni, creazioni intermediarie, transizioni impercettibili, gradazioni che
ci confondono; vediamo meno di quel che esiste, pure i generi intermediari non
cessano di esistere, benchè indiscernibili. I nostri errori non alterano la
natura delle cose. L'impossibilità di numerare i generi, l'impossibilità di
trovare una linea di separazione tra una classe e l'altra non distrugge le
separazioni impercettibili, nel modo stesso che la transizione impercettibile
dall'infanzia all'età della ragione non distrugge la separazione delle due età.
Vi hanno tre
specie di somiglianze: la somiglianza degli esseri organizzati, quella delle
qualità e quella dei rapporti. - L'uso riserva il nome di genere alla
somiglianza degli esseri organizzati, dove trovasi una germinazione che fa
somigliare gli individui in mille modi, e che nel tempo stesso li congiunge col
legame materiale della produzione. Così l'uomo genera l'uomo, e in pari tempo
gli uomini si rassomigliano nella statura, nel corpo, nei sentimenti, nella
ragione, in tutte le loro facoltà. La somiglianza delle qualità è più vaga e
più semplice; nella sua massima complicazione costituisce le classi dei gas,
dei liquidi, dei solidi, e in generale di tutte le materie primitive, che sono
le materie trattate dalla chimica come elementari. In ciascuna materia vi hanno
di molte somiglianze; dunque vi ha genere; ogni pezzo di ferro è ferro, ogni
volume di ossigeno è ossigeno. In terzo luogo, le cose si somigliano sotto il
rapporto della posizione, della disposizione, della distanza, della grandezza;
giacchè la somiglianza appare, il genere esiste ne' rapporti come ne' corpi
organizzati, come nelle qualità; diremo solo che qui il genere è fugace come
l'ombra. Un olivo è nella classe delle grandi cose considerato in un campo
arato, poi passa nella classe delle piccole cose accanto a una selva. Chi può
tener conto di questa classificazione?
Se la
metafisica ha trasformato il genere in uno stranissimo mostro, deve l'origine
dell'errore ad aver considerato le contraddizioni critiche del genere siccome
contraddizioni positive alle quali conveniva trovare un'uscita. Platone, il
primo a scoprire il genere, lo cercò per sottrarsi alla contraddizioni eterne
della scienza. Egli non poteva trovare la scienza nell'ente della scuola di
Elea, nè fuori dell'ente, nella natura. L'ente della scuola di Elea sopprime la
distinzione delle cose, nega l'oggetto stesso della scienza; dandoci una
verità, distrugge tutte le altre verità, distrugge la scienza. D'altra parte,
la natura è inconsistente, si muta e rimuta, non mai è quella che è, e di ciò
che si áltera non havvi scienza. Così Platone trovavasi tra l'antinomia
dell'ente e quella dell'alterazione, credeva che le due antinomie fossero
illusioni della mente, imputavale ad un proprio errore, non poteva tollerarle,
ne ignorava l'origine e l'universalità; quindi doveva cercar un'uscita come se
fossero problemi solubili. Il genere gli apparve come la terra promessa della
scienza; i generi erano inalterabili come l'essere, distinti come gli oggetti;
e sembravagli che, impossibile nell'essere, impossibile nell'alterazione, la
verità si liberasse coi generi da ogni contraddizione.
Tutto il
sistema esce dai generi che distinguono e specializzano le verità assorbite
dalla verità dell'ente, onde poi generare la diversità e la varietà delle cose
naturali. Ne risulta che il genere presso Platone cessa di essere un'apparenza;
dovendo spiegare ogni cosa, diventa più vero dell'essere, più vero degli
oggetti, diventa un principio metafisico. Vien dotato di un'esistenza
privilegiata; esiste per sè; due generi, il piccolo e il grande, creano la
materia, altri generi formano gli esseri della natura disegnati sul velo
matematico, mutabile e variabile della materia. Siamo già lungi dall'apparenza,
e tanto non basta. La natura è bella, e il genere deve diventar bello, deve
diventare un tipo per comunicare la bellezza agli esseri, ed è questa nuova
falsificazione dell'apparenza; chè il genere non è nè bello, nè brutto, ma
abbraccia gli individui tutti, fatta astrazione dalle perfezioni e dalle
imperfezioni: il cieco e il sordo cessano forse d'essere uomini? Infine, la
scala dei generi trasformati in tipi, presso Platone s'innalza nella gradazione
della bellezza ideale, e non giunge al genere supremo delle astrazioni se non
trasportarvi tutte le bellezze, tutte le perfezioni. Nuova fallacia, perchè
l'essere non è nè bello nè brutto, ed abbraccia senza preferenza tutti gli
esseri buoni e mali. Il genere si trasforma così in un idolo, poi in un Dio,
poi diventa attivo, creatore, e sempre per dare un'uscita alla scienza,
impossibile nell'essere, impossibile nella natura. Questa è l'ultima
falsificazione, e la più pericolosa, perchè l'essere non è più attivo dell'uomo
o dell'albero; egli è, ed ecco tutto; non ha scopo, nè mente, nè azione alcuna.
L'opera di
Platone restò dubbiosa nella mente stessa di Platone, che nel Parmenide avvisò
esservi delle contraddizioni irreducibili. Aristotele sviluppò, distrusse
l'edificio de' generi platonici; ma per cercare, alla maniera di Platone
un'uscita alla scienza per, che non deve mutarsi, non ostanti le variazioni
della natura. L'uscita di Aristotele fu l'individuo; ma l'individuo che si
sottrae alle sue contraddizioni eterne, sempre tenute per contraddizioni
positive. Quindi Aristotele deve stabilire un individuo che non muta, che resta
sempre lo stesso, superiore al suo apparire e al suo sparire. Aristotele deve
stabilire un individuo fuori dell'individuo apparente, un'essenza indivisibile,
un'entelechia, un'energia, un'anima. Eccoci di nuovo nel movimento metafisico,
con un essere più vero del parere; l'individuo metafisico deve spiegare gli
individui realmente apparenti, e i generi diventano meno veri, meno reali.
L'individuo che appare in un genere, per Aristotele è l'individuo metafisico
che si unisce alla materia, e la materia è il suo genere. Il bronzo è la
materia della statua, il metallo è la materia del bronzo; quanto più
generalizziamo, tanto più ci allontaniamo dalla verità. Giunti all'essere,
siamo alla materia pura, che è l'essere in potenza, ma il non-essere in atto,
come l'individuo metafisico (essenza) è un essere in potenza, e congiunto alla
materia è un essere in atto. Platone trasportava le antinomie al sommo della
scala de' generi; Aristotele le trasporta nell'identità dell'essere e del
non-essere, al più basso della scala delle cose. D'onde lo spostamento? Sempre
dalla necessità di sciogliere l'antinomia dell'individuo, che s'unisce a un
genere. Di là l'individuo metafisico, più la materia generica; le quali due
cose congiunte danno la più strana equazione dell'apparenza quale si presenta.
Aggiungevasi così le contraddizioni nuove ed artificiali, dell'individuo
metafisico e della materia generale, alle contraddizioni eterne dell'individuo
e del genere realmente apparenti.
Il
genere-tipo di Platone sopravisse, divenne or un eone, or il pensiero di
Dio, ora il verbo divino; per render ragione dell'apparenza si allontanò sempre
più dall'apparenza. Lasciamo la scuola d'Alessandria, in cui la metafisica del
genere troppo si complica con altri problemi: sarà meglio seguirla nel
medio-evo noi la rinveniamo nel dramma della scolastica. La scolastica era una
metafisica, dunque combinava le questioni del giorno colle questioni eterne; la
questione del momento era il cristianesimo, la questione eterna era la
antinomia dell'individuo e del genere. Ecco il problema qual fu posto dalla
dotta ignoranza degli scolastici: «Dio,» dicevasi, «è uno e trino; la
eucarestia è una e multipla; il genere è in opposizione coll'individuo: ora
questi sono fatti illogici; bisogna scoprire il principio che li spiega come
fatti naturali e necessari: qual'è dunque il principio che fa essere ad un
tempo uno e multiplo il fatto di Dio, quello della eucarestia e quello del
genere?» La questione era assolutamente metafisica..
Roscellino
diede la prima soluzione. Non riconosce se non l'individuo; secondo lui nulla
esiste se non alla condizione di esser un individuo uno e intero; i generi, le
qualità, i rapporti non esistono; non ci presentano nè l'unità, nè l'integrità
individuale. In primo luogo, diceva Roscellino, se l'individuo è reale, il
genere non è che una parola, flatus vocis, non si concepisce l'uomo che
sotto la nozione dell'individuo; se fosse altrimenti, vi sarebbero due uomini
in un uomo. In secondo luogo, la qualità non è individuale, dunque non esiste; il
colore non è che un corpo colorato - la saggezza dell'uomo non è
che un uomo saggio - non si deve fare alcuna distinzione tra il cavallo e il
suo colore. - finalmente, secondo Roscellino, il rapporto non si presenta
come individuo, quindi non esiste; dunque la relazione del tutto colla parte è
una chimera; dunque non havvi che il tutto uno e intero, la parte non esiste.
Se esistesse, il tutto non sarebbe tutto, la parte sarebbe tutto e parte, il
che indicavasi da Roscellino dicendo: Se havvi la parte, sarebbe una parte
di sè stessa, una cosa essendo quella che è soltanto date tutte le sue parti;
d'altronde, la parte, esistendo, dovrebbe precedere il tutto e precedere sè
stessa; se non precede il tutto, non lo forma; se non è preceduta dal
tutto, non è parte. La conseguenza cristiana era evidente; la trinità non può
comporsi nè di tre parti, nè di tre generi; quindi non esiste, non vi sono che
tre Dei.
L'individuo
di Roscellino offriva due inconvenienti: negava un fatto incontestabile,
l'esistenza del genere, della qualità e del rapporto; e di più, negava un
pregiudizio incontestato, l'unità di un Dio Trino. Guglielmo di Champeau
svelava il primo punto; la Chiesa, col punire Roscellino, dimostrava il
secondo: oramai l'individuo di Roscellino, condannato dalla critica e dalla
Chiesa, non poteva più reggere; una nuova soluzione era necessaria. Che
dimostravasi? l'assurdità dell'individuo che tendeva impossibile il genere e la
chiesa: dunque l'uscita doveva trovarsi nel genere che difendevasi, e
nell'unità di Dio. Guglielmo di Champeau stabili dunque per principio la realtà
del genere e della qualità, li trasformò in esseri metafisici, e ad essi spettò
di spiegare l'individuo. La tradizione dice «che Guglielmo di Champeau pensava
che l'universale risiede essenzialmente negli individui, che li costituisce, e
che tra gli individui dello stesso genere non havvi differenza essenziale, ma
solo una differenza dovuta alla pluralità degli accidenti.» Dunque l'individuo
esiste per accidente; per accidente si compone di parti: per accidente si
distingue dagli altri individui; solo il genere esiste, ed esiste come un
essere indipendente. Roscellino aveva stabilito un individuo diverso
dall'individuo apparente, e di cui non potevasi dire che avesse qualità,
rapporti e che dovesse appartenere ad un genere: Guglielmo stabilì un genere
ch'era diverso dal genere apparente, perchè solo esistente, mentre l'individuo
è un genere senza differenza.
La
conseguenza della dottrina di Guglielmo era evidente, e Abelardo la
smascherava. Se il genere solo esiste realmente, se esiste indifferentemente
negli individui, se l'individuo si riduce ad un accidente del genere, il genere
assorbirà in sè tutti gli individui; Socrate sarà ad Atene e nel tempo stesso a
Roma; se l'animale è ammalato in Socrate, dovrà esserlo egualmente in Platone.
Non basta: se gli individui si distinguono per mezzo degli accidenti, diremo
noi che Dio è trino per accidente? diremo noi ch'egli è sottoposto all'accidente?
Era inteso che Guglielmo trionfava di Roscellino, era inteso che bisognava un
genere; in pari tempo il genere di Guglielmo mostravasi impotente a spiegare
l'individuo. Occorreva di trovare una nuova uscita. Questa volta il problema
consisteva nel cercare un genere abbastanza discreto perchè se ne potesse
trargli dal seno l'individuo: ed Abelardo impose alla metafisica la stravagante
missione di spiegare l'origine dell'individuo cioè l'individuazione. Dicendo
cogli eclettici che Abelardo confutò, l'uno coll'altro, Roscellino e Guglielmo
di Champeau, aggiungendo che fu concettualista, non s'intende nè la sua
missione, nè la sua influenza, nè la fase metafisica che rappresenta. Abelardo
entra nella storia della metasica per aver primamente proposto il problema dell'individuazione.
La sua soluzione fu che: l'universale non è se non la collezione degli
individui - l'uomo è negli uomini - il genere è la materia degli individui - l'individuo
fa parte della collezione come differente dalla collezione stessa, - Il
linguaggio comune prova quest'equazione, perchè quando noi vediamo una massa di
ferro d'onde si deve trarre un coltello e uno stile, noi diciamo questo sarà la
materia del coltello e dello stile, quantunque la massa non debba tutta
prendere le due forme, ma bensì diventare in parte coltello, in parte stile. - Applicando
questa individuazione alla trinità, Abelardo conchiudeva che il padre, il
figlio e lo spirito erano le parti di un Dio, cioè di una totalità.
Alberto Magno
succede ad Abelardo. Egli è sottile, verboso, disordinato; da lui non si
attende un processo rigoroso e intimamente collegato ad una dottrina anteriore.
Pure, interrogato sulla metafisica del genere, mostra che il suo punto di
partenza è il problema dell'individuazione. Egli non può accettare la dottrina
del suo predecessore: presso Abelardo il genere è una collezione, una totalità,
un composto, e l'individuazione si spiega con una specie di equazione tra il
tutto e le parti, tra il composto ed i componenti. L'equazione non regge alla
critica, è fittizia; il genere non è una collezione, nè una totalità, nè un
composto; il primo termine dell'equazione fu falsato a disegno, col sostituire
la totalità al genere, la collezione all'universale. Alberto svela questa
falsificazione quando «La totalità», dice Alberto, «perchè totalità non esiste
fuori degli individui che abbraccia; l'universale, perchè universale, è
distinto dagli individui. Di più, una totalità perchè totalità si valuta
misurando le parti, di cui ciascuna appartiene alla sua sostanza. Di più, la
natura della totalità non ne costituisce gli elementi, ma la natura
dell'universale li costituisce, essendo il tutto costituito dalle sue parti,
mentre le parti dell'universale non lo costituiscono, ma ne sono costituite.
Così la totalità non può mai diventare elemento del suo elemento, a differenza
dell'universale, che, costituendo i suoi oggetti, diventa parte essenziale di
essi. Di più, la totalità non è intera in ciascuna delle sue parti
separatamente presa, l'universale è tutto in ciascuna delle sue parti: di più,
la totalità non è intera se non quando le sue parti sono presenti; l'universale
è l'universale, siano le sue parti presenti o assenti. Infine la totalità è una
collezione di parti finite, l'universale si estende a parti infinite.» Havvi
dunque una vera contraddizione tra il genere e la collezione che poteva
spiegare l'individuo: Alberto non sospetta che sia l'istessa contraddizione che
separa il genere dall'individuo; non pensa che dinanzi al genere, gl'individui,
siano essi riuniti o dispersi, restano sempre individui; solo pensa che
l'equazione essendo fallita per errore di Abelardo, bisogna cercare una nuova
invenzione, un nuovo espediente per discoprirla.
Onde meglio
sgombrare il campo, Alberto dimostra che l'universale non può confondersi
neppure colla materia, e che non può paragonarsi al ferro che è nel coltello e
nello stile. «Che l'universale non sia nella materia, risulta», dice Alberto,
«da questa considerazione, che la materia non dà agli oggetti in cui si trova
nè l'essere, nè il nome, nè la ragione; cose tutte che l'universale sostanziale
dà agli oggetti di cui è l'universale. L'universale non è dunque la materia. Di
più, ciò che affermasi come predicato della cosa in cui trovasi, è forma; ora
l'universale si afferma come predicato delle cose in cui trovasi; dunque
l'universale è forma. Di più, nulla può essere comunicato a una pluralità di
ciò che trovasi in queste cose, se non l'essenza, la forma.» Egli è dunque
impossibile di confondere l'universale colla totalità o colla materia; e
bisogna che la metafisica scopra una equazione tra il genere e lo individuo,
creando una nuova individuazione. Di là ll sistema di Alberto.
«L'universale
è la forma, dice egli, l'essenza di ogni cosa; non è una sostanza indipendente;
non esiste alcuna casa separata da tutte le case particolari e materiali, a
meno che noi non la vogliamo stabilire nell'anima dell'architetto.» La forma è
dunque un pensiero di Dio. «Essa è raggio e luce dell'intelligenza
attiva, è semplice, pura, immateriale, immobile, incorporale, incorruttibile e
causa d'azione;» è dessa che particolarizza gli oggetti nella materia, li
modifica e loro dà un nome; ed in ciò consiste l'individuazione. Qui il genere
s'allontana sempre più dall'apparenza. Per generare l'individuo, a malgrado
della contraddizione per cui ne resta separato, diventa causa d'azione, luce,
pensiero di Dio; l'equazione non è scoperta se non nell'entità disperata e
miracolosa di Dio.
La critica
degli scolastici, che non cade mai sull'apparenza, cade sempre sulle entità
metafisiche, e sulle loro equazioni; la scolastica si trova in piena
metafisica, e vi rimane; imputa sempre ai dottori le contraddizioni della
natura. Guglielmo di Champeau critica l'individuo di Roscellino: Abelardo
critica l'universale indipendente di Guglielmo: Alberto critica il genere
collettivo di Abelardo: il successore di Alberto, Tomaso d'Aquino, segue lo
stesso metodo, e continua la metafisica del genere. Ammettevasi che
l'universale forma l'individuo, che deve formarlo, se non sapevasi ancora il
come, il torto era dei filosofi; e questo appunto fu il torto di Alberto, a
fronte di Tomaso d'Aquino. Alberto asseriva che l'universale crea l'individuo,
e non diceva come lo crea. Certamente, l'universale crea gli oggetti
particolari unendosi alla materia; ma la materia non ha forma, è indefinita;
non vedesi dunque come l'universale possa creare un oggetto nella materia, qui
piuttosto che là, oggi piuttosto che dimani. L'individuazione si specifica nel
tempo e nello spazio, l'universale non è specializzato, la materia non lo è; in
qual modo l'universale indeterminato e una materia indefinita unendosi
potrebbero creare un individuo determinato e finito? San Tomaso cerca dunque
un'uscita all'equazione fallita, e la sua uscita consiste nella nuova
invenzione della materia segnata. Spetta alla materia, dice egli, il
determinare l'individuazione e il determinare la sostanza nel luogo e nel
tempo, determinat ad hic et nunc, e la misura, secondo lui,
specifica quanto trovasi indeterminato nell'universale. Però una obbiezione si
offriva immediatamente; la materia è indefinita, fluente, inconsistente: come
mai potrebbe dare un limite preciso all'universale, sì che l'individuo emerga
dall'unione dell'universale colla materia? Il dottore risponde: «La materia
indeterminata non è principio d'individuazione. Sciendum est quod materia,
non quomodo libet accepta, est principium individuationis, sed solum materia
signata;» cioè giusta Cajetano, la materia capace di tale e di
non tale altra quantità. Citiamo ancora S. Tomaso: «Il principio della
diversità degli individui della stessa specie è la divisione determinata dalla
quantità: difatti la forma di questo fuoco non differisce dalla forma d'un
altro fuoco, se non dalle parti nelle quali si divide la materia, nec aliter
sine divisione quantitatis, sine qua substantia est indivisibilis.» Così
l'universale, agendo sulla materia segnata, crea ogni cosa, cioè: 1° gli esseri
della natura fisica, 2° le anime, 3° gli angeli.
L'individuo
sfuggiva ancora alla materia segnata, l'equazione era fallita; Duns Scoto lo
fece osservare. «Se la materia», diceva egli, «è causa d'individuazione,
laddove si troverà la stessa materia si troverà lo stesso individuo; e come la
materia è la stessa «in generato et in corrupto, l'essere che nasce e
l'essere che si corrompe saranno un medesimo oggetto: - la causa
d'individuazione è causa di distinzione; ma la materia non è causa di distinzione,
dunque non individualizza. - Le anime, gli angeli sono individui; sono essi
materiali? No; dunque non è la materia che li individualizza.» La materia
indeterminata distruggeva l'individuo, la materia segnata o misurata lo
distrugge egualmente; bisognava dunque cercare altrove il termine medio che
permettesse al genere di giungere all'individuo. Scoto inventò un nuovo
espediente. «Il principio dell'individuazione,» secondo lui, «non è nè la
materia, nè la forma, nè la quantità; è una proprietà individuale, un'ecceità.»
L'universale esiste per sè, non è l'individuo, ma si contrae, diventa
l'ecceità, forma un sol essere colla cosa, resta inseparato dalla cosa; esso è
nella cosa, non in atto, ma in potenza prossima, potentia propinqua.
Nel sistema
di Duns Scoto la metafisica dell'individuazione tocca l'apogeo; è impossibile
andar più oltre. Il dramma dell'individuazione scotistica comincia, si svolge e
si compie al di fuori dell'apparenza. Per Duns Scoto il punto di partenza non
era il genere apparente, era il genere d'Alberto Magno, un raggio
dell'intelligenza divina. Questo genere è attivo, a malgrado dell'apparenza che
mostra i generi impassibili: in secondo luogo, il genere si contrae, benchè
l'apparenza non ci permetta nemmeno di concepire la contrazione nei generi. In
terzo luogo, il genere diventa un quid, una ecceità, e l'ecceità
è un principio d'individuazione che non è ancora l'individuo apparente e
materiale, ma si limita a simularlo; il perchè l'ecceità e l'individuo hanno
due nomi distinti. Qui la dottrina dell'individuazione metafisica è esausta;
Occam pose termine alle individuazioni imaginarie. - Voi andate errati, disse
egli agli scolastici; l'individuo non sorge dall'universale di Guglielmo di
Champeau, perchè non è un accidente; non sorge dal genere collettivo di
Abelardo, perchè il genere non è una collezione; non sorge dall'idea di Alberto
Magno congiunta colla materia, perchè il genere indeterminato e la materia
indefinita hanno caratteri opposti all'individuo; non sorge dalla materia
segnata di San Tomaso, perchè la materia segnata e misurata è ancora
indefinita, e può diventare individui diversi: - da ultimo, l'individuo non
sorge dall'ecceità assolutamente impossibile di Duns Scoto; siete nell'assurdo,
l'individuazione è impossibile perchè l'individuo esiste.
Per mala
ventura Occam tocca la riva per ingolfarsi di nuovo nel pelago metafisico,
s'impadronisce dell'apparenza dell'individuo per assolire risolutamente il
genere. Lo combatte fuori delle cose, nelle cose, nello spirito (extra res,
in re, in intellectu), ne riassume le contraddizioni, le imputa a
Guglielmo di Champeau, ad Abelardo, ad Alberto Magno, a San Tomaso, a Duns
Scoto; nega il genere; in sua sentenza solo l'individuo esiste. Stabilito
l'individuo come fatto primo e metafisico, Occam accetta l'assunto di spiegare
l'apparenza del genere. Ecco una nuova metafisica che incomincia; ma incomincia
dubitando di sè. Si può dire in una maniera probabile, sono
parole di Occam, che l'universale non esista? È probabile che l'universale
non esista? dunque potrebbe esistere. Come? «Fuori dell'anima,» continua Occam,
«l'universale non è nè qualità nè sostanza. Quando l'intelligenza percepisce
una cosa fuori dell'anima, si rappresenta una cosa simile, e se possedesse il
potere creatore produrrebbe questa seconda cosa: l'universale è dunque una
finzione, una chimera, con le concezioni degli artisti e de' logici.» Ma fuori
di noi le cose non si somigliano forse? e se somigliansi, non è in forza de'
generi? che è dunque la scienza se non è la classificazione degli esseri giusta
le loro somiglianze? «La scienza» risponde Occam, «non volge che sulle parole;
talora le parole esprimono sè stesse, e la scienza è puramente grammaticale;
talora esprimono le concezioni astratte della mente, e la scienza è puramente
logica; talora esprimono le cose, e la scienza è reale: grammaticale, logica o
reale, la scienza cade solo sui segni. – Nel fatto, dice Occam, la scienza non
cade se non sulle proposizioni, e solo le proposizioni sono oggetto del sapere.»
Ma le proposizioni sono generali; se i generi non sono altro che parole, se
fuori di noi non vi hanno somiglianze, se l'universale si riduce ad una
finzione, ad una chimera come le concezioni degli artisti e dei logici, la
scienza non diventa forse una finzione, una chimera, una poesia, un vero
soliloquio? Occam replica: «Poco importa alla scienza del reale che i termini
della proposizione siano fuori dell'anima o solo dell'anima, purchè i termini
siano riferiti alle cose stesse; quindi l'interesse della scienza non richiede
che ammettiamo le nature universali distinte dalle particolari.» No, importa
che i termini si riferiscano alle cose; importa dunque che le parole generiche
si riferiscano ai generi; importa che il genere esista come appare, come è nel discorso,
nè più, nè meno: se non è, la nostra scienza parla di somiglianze che non sono,
e si riduce al soliloquio d'un insensato. Vedesi, dall'indecisione, dagli
espedienti di Occam, che il nuovo problema della generalizzazione sorge per
trascinare la psicologia in una nuova scolastica.
Tale è la
metafisica del genere; vera scolastica, che prende le contraddizioni
dell'apparenza per contraddizioni positive, e lotta disperatamente per
discoprire l'impossibile: la lotta cambia di forma presso Descartes e presso
Locke, agita ancora i nostri scolastici. Essa deve tramontare al levarsi della
critica, la contraddizione deve metter foce nell'apparenza. I generi esistono
dunque perchè appaiono; il genere non diminuisce nè aumenta, quando gli
individui diminuiscono o aumentano; dispare quando scompaiono.
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