Capitolo
VI
I PRIMI GENERI
Lo spazio e il tempo
sono due apparenze primitive, universali e necessarie. Ogni apparenza ci
annunzia la funzione ch'ella compie. Lo spazio si annuncia come condizione
dell'esistenza dei corpi; egli è dunque condizione dei corpi, condizione
dell'intera natura. Istessamente non possiamo concepire alcuna successione di
fenomeni senza concepirla nel tempo; dunque ogni successione si attua nel
tempo. Io vivo nello spazio e nel tempo, io morrò senza che il tempo e lo
spazio possano cessare; se non fossi nato, il tempo e lo spazio sarebbero
egualmente; il tempo e lo spazio sono indipendenti da chi li contempla: questa
è l'apparenza, questa la realtà.
Abbiamo veduto
le antinomie del tempo e dello spazio; esse sono; è mestieri accettarle: chi
tentò di scioglierle, cadde necessariamente nella metafisica dello spazio e del
tempo.
In generale
la metafisica dello spazio e del tempo ha subito le evoluzioni stesse della metafisica
del genere; ed era naturale; il tempo e lo spazio sono due generi. Lo spazio
contiene il corpo esteso, l'estensione essendo in tutto ciò che è esteso, nel
modo istesso che l'uomo è in ogni uomo, la bianchezza in ogni cosa bianca. Il
tempo contiene ogni successione, nessuna successione potendo sfuggire al primo
e più astratto genere della successione. Chi cerca l'equazione dell'individuo
col genere deve cercare l'equazione dello spazio generico collo spazio reale,
del moto ideale col moto materiale. Di là lo spazio or fatto eguale alla
materia, e in fondo negato, or affermato come principio primo, e poscia ridotto
il corpo a non essere in essenza altro che spazio, ond'essere poi negato alla
sua volta. Di là il tempo or fatto eguale al moto, e poscia soppresso nella sua
essenza generica, mentre altri, al contrario, faceva eguale la successione al
tempo, negando così la successione. Di queste teorie il numero è grande,
l'atteggiamento varia co' filosofi, ma la lor natura è pur sempre la stessa,
poichè suppongono che le eterne contraddizioni del tempo e dello spazio siano
errori de' filosofi.
Il tempo e lo
spazio sono necessari, perchè è impossibile negare la necessità che impone
all'individuo di essere nel genere, al contenuto di essere nel contenente. Io
sono uomo perchè sono nell'uomo, io sono nello spazio perchè sono esteso, io
sono nel tempo perchè la mia esistenza persiste e cambiando, dura. Io sono
necessariamente nel tempo e nello spazio perchè è dato che io vivo, corpo tra'
corpi, mobile in mezzo a innumerevoli moti, è dato che il corpo, che la
successione sono i primi elementi che costituiscono il mio essere, e quello
degli oggetti che mi circondano; non posso nè concepire me stesso, nè concepire
le cose fuori dei due generi della estensione e del moto. Lo stesso
ragionamento si applica all'universalità del tempo e dello spazio, che sono
universali, ogni cosa essendo estesa e duratura; fuori di questi due generi
nessuna cosa essendo.
Se vi fosse
un oggetto senza estensione o senza successione, quest'oggetto, creatore e
creato, non patirebbe punto le condizioni del tempo e dello spazio; il tempo e
lo spazio cesserebbero d'essere universali, nè più sarebbero necessari. Qui,
come dovunque, l'apparenza si stabilisce sola, regna sola, e l'interregno dell'apparenza
sovverte tutte le nozioni. Così il tempo e lo spazio sono le condizioni
universali della natura, sono indistruttibili, si stabiliscono superiori alla
natura e eterne. Ma dinanzi a un'altra natura potrebbero non essere universali,
non essere necessari; la loro eternità non è dunque se non quella dell'ipotesi,
che collega il genere coll'individuo. Finchè l'individuo esiste, il genere gli
è immanente, necessario, universale, infinito, eterno; se l'individuo scompare,
l'ombra del genere svanisce. Il tempo e lo spazio sono come l'ombra ideale,
inseparabile dalla nostra esistenza; se vogliam sopprimerli, noi diventiamo
positivamente inconcepibili a noi stessi.
Si dirà: «Il
tempo e lo spazio erano prima di voi, saranno dopo di voi; sono adunque
universali, necessari per sè stessi, astrazione fatta dalla natura e
indipendentemente dal nostro modo di concepire. Io rispondo: che sono
necessari, universali, eterni, infiniti, relativamente al nostro modo di
concepire, relativamente alla apparizione ed alla disparizione della natura
dinanzi a noi. Finchè restiamo su questo teatro, il tempo e lo spazio sono le
condizioni della nostra scena; sia il teatro pieno o vuoto, il tempo e lo
spazio restano. Se al teatro succedesse un nuovo teatro, una nuova creazione, la
quale si opponesse alla creazione attuale e la smentisse colla forza di una
contraddizione positiva, se all'universo succedesse un nuovo universo nè
esteso, nè successivo nel suo sviluppo particolare, il tempo e lo spazio
potrebbero svanire alla loro volta, come il genere antidiluviano del mastodonte
è scomparso dinanzi al genere umano. La possibilità di concepire una creazione
superiore al tempo e allo spazio è implicata nell'esistenza di un genere che si
pone superiore al tempo e allo spazio. Parlo dell'essere: il tempo è, lo spazio
è; l'essere è dunque comune al tempo ed allo spazio, dunque li
abbraccia, li oltrepassa e li domina.
L'essere è il genere
supremo, la condizione ultima o prima di tutto ciò che può concepirsi o
imaginarsi; ci è dato col pensiero; basta pensare perchè appaia, basta che
appaia possibile perchè sia.
Le antinomie
dell'essere si riducono alle antinomie del genere. Si contrappone agli esseri,
come l'uomo agli uomini: dunque è infinito, inesauribile dal numero degli
esseri, unico, indivisibile come gli altri generi; l'essere è necessario, come
il contenente lo è al contenuto: è universale, non potendosi dare alcun
fenomeno che, esistendo, non cada sotto l'impero di questo genere supremo.
La metafisica
dell'essere ha seguito passo passo la metafisica del genere. Gli eleatici
furono i primi a considerare le antinomie dell'essere quali contraddizioni del
nostro intelletto; le scioglievano coll'equazione del non-essere, col nulla.
Perchè col non-essere era negato ogni intervallo tra le diverse cose, negata la
distinzione delle cose, negata la natura. Quindi l'essere non fu più
l'apparenza prima, fu più che l'essere apparente, più che tutti gli esseri.
Tanto valeva domandare se il non-uomo esiste; e poichè non esiste, negare ogni
cosa.
L'essere,
divenuto primo principio, tiranneggia Platone, che si assume di spiegare la
distinzione delle cose. Platone di aperse uno scampo co' generi. Qui l'essere
si allontana ancor più dall'apparenza; i generi di Platone abbellisconsi per
interpretare la bellezza, e l'essere diventa bellissimo: i generi di Platone
sono attivi per penetrare la formazione delle cose; quindi il genere dei generi
diventa attivo, acquista la bontà, si trasfigura; è principio dell'ordine
universale; è Dio.
La metafisica
dell'essere progredisce di nuovo con Aristotele. I generi, dice egli, non
ispiegano gli individui: non sono belli, nè buoni, nè attivi. Dunque il genere
non è un principio. Solo l'individuo è principio primo; quanto più ci
allontaniamo dall'individuo, tanto più ci allontaniamo dalla verità; dunque il
genere esiste meno dell'individuo, e l'essere, che è l'ultimo di tutti i
generi, esiste meno d'ogni genere. Non basta; l'essere deve conciliarsi col
non-essere; e Aristotele spiega ad un tempo l'apparenza dell'essere e la contraddizione
del non-essere, mettendosi al di fuori dell'apparenza, creando una cosa nuova,
un oggetto nuovo, la materia, che è l'essere in potenza e il non-essere in
atto. Per uno strano rivolgimento toglieva così l'essere alla materia, mentre
le dava la potenza. I neoplatonici si allontanano sempre più dall'apparenza.
Accordano ad Aristotele che l'essere non è bello, nè buono, nè attivo, che
riducesi al genere dei generi, al genere di tutti gli esseri. Accordano a
Platone che la bellezza, la bontà, la forza, svolgendosi nella serie de' tipi,
si riassumono in un tipo perfettissimo. Il tipo e l'essere sono distinti; l'uno
è Dio, l'altro l'esistenza di Dio: ma uno è Dio, una l'esistenza di Dio; dunque
l'uno e l'altra sono nell'unità, ne sono le ipostasi; ed ecco trasformato
l'essere in un'ipostasi dell'Uno. La metafisica dell'essere vagava tra l'estasi
e l'ineffabile; più tardi, presso i santi Padri, presso gli scolastici, si
confondeva colla formola della trinità cristiana.
Alla caduta
della scolastica la metafisica riprende il volo, oltrepassa il realismo ed il
nominalismo; cammina sola, fatta astrazione dalla religione. Descartes entrò il
primo nella nuova via. Io concepisco la perfezione, diceva egli, posso
oltrepassarla all'infinito; vi aggiungo la nuova perfezione dell'essere, io
concepisco un essere perfetto come possibile, dunque esiste. Questa
dimostrazione dell'esistenza di Dio mescola la verità colla follìa: la verità
sta nell'equazione dell'essere e del parere meravigliosamente afferrata nel
genere di tutti i generi; la follìa sta nell'artificio, che moltiplica le
perfezioni per fare dell'essere un Dio. Descartes non errava riducendo l'essere
ad un'apparenza, ma errava dando all'essere la divinità. L'apparenza era
nell'essere; Dio non era nell'apparenza, non era nella verità; era la soluzione
imaginaria di tutte le contraddizioni della natura e del pensiero.
È superfluo
il dire che, lungi dallo sciogliere antinomia alcuna, presso Descartes,
l'essere supremo è in contraddizione con tutti gli esseri; solo può esistere,
solo è sostanziale, solo necessario; da lui agli esseri non v'ha identità, non
equazione, non deduzione. Descartes, che pretendeva di procedere per equazioni,
fece emergere meglio degli altri metafisici che dall'essere non può dedursi veruna
sostanza, verun atto, veruna creazione. Come mai un essere necessariamente uno,
indivisibile, impassibile, necessario, universale, potrebbe trarre da sè la
divisione, l'azione, la contingenza, l'individualità e la distinzione di tutti
gli esseri e di tutte le sostanze? Oramai l'antinomia ingrandiva: l'ente di
Elea riappariva nell'unità del Dio cartesiano, il cartesianismo rovinava:
Spinosa, che se ne accorse, volle evitare la contraddizione sviluppando
Descartes.
Vi hanno due
momenti nel sistema di Spinosa; il primo ammirando: egli rettifica la
metafisica cartesiana, il secondo fallace: egli2 lotta contro l'antinomie.
Nel primo
momento, Spinosa afferra la verità, che si trova in fondo alla dimostrazione di
Dio data da Descartes, l'eguaglianza dell'essere e del parere, l'identità dei
due termini, la necessità d'ammettere l'esistenza dell'essere, che Spinosa
concepisce sotto la forma di una sostanza, una, indivisibile ed eterna. Spinosa
mostra dunque la verità là dove appare realmente, nella sostanza universale; in
mano sua la dimostrazione dell'esistenza di Dio non dà se non ciò che realmente
contiene: la sostanza necessaria ed infinita. L'immensità di Dio diventa
l'immensità della sostanza, le perfezioni divine diventano le perfezioni
apparenti del mondo, la fatalità si sostituisce alla provvidenza, un ente
astratto soppianta il Cristo e comprendiamo la meraviglia il terrore dei
teologi che videro sorgere dal seno delle loro dimostrazioni il più geometrico
ateismo.
Ma nel
rettificare la metafisica cartesiana Spinosa volle sciogliere le contraddizioni
sollevate dalla geometria dell'essere; e qui incomincia il suo fallire: qui
deve spiegare le contraddizioni della sostanza, stabilirla come principio,
unica realtà essa deve trarne l'esistenza del mondo. Dacchè essa sola è la
sostanza, il tempo, lo spazio cessano di essere ciò che sono, cioè apparenze
primitive quanto la sostanza, e divengono attributi del primo principio. Noi
cessiamo d'esser sostanze, e più non siamo se non modi; la natura perde
l'essere suo, e vedesi tradotta in una serie di modi dell'essere. Spetta alla
sostanza a trasmetterci il mondo come sua propria equazione; dunque il mondo si
scinde in due parti; vi ha una natura naturante, la sostanza, ed una natura
naturata, la creazione.
La sostanza è
necessaria, dunque la natura apparente, la natura naturata, dev'essere
necessaria, adeguata al principio d'onde esce, benchè appaia contingente. Nella
sostanza, la necessità abbraccia tutta la realtà, si estende all'infinito,
vasta quanto il possibile; dunque nel mondo la necessità abbraccia tutta la
realtà, è vasta quanto il possibile; la possibilità è un'illusione come la
contingenza. In questa guisa, la deduzione di Spinosa abbraccia il mondo, nuovo
Leviathan lo divora, falsandone le apparenze, creando un mondo che non è quello
della natura, un uomo che non è del nostro genere, un pensiero che non è della
nostra intelligenza. Fatica inutile, perocchè l'antinomia della sostanza non è
se non quella dell'essere, quella del genere, e annienta egualmente i modi e le
sostanze, gli esseri e gli individui. Arroge che il lavoro si svolge
arbitrariamente; se la vostra sostanza rende il mondo impossibile: esatto è il
dilemma; avete scelto il termine della sostanza; perchè non scegliere le
sostanze, le cose della natura? Apparenti quanto la natura, esse hanno diritto
all'onore di signoreggiare la sostanza.
Queste
considerazioni spinsero i filosofi del decimottavo secolo alla nuova impresa di
spiegare l'essere e la sostanza quali concezioni dello spirito. Non si pensò
più a dedurre il mondo dalla sostanza, a trarre il genere dall'individuo; si
volle al contrario, il genere dedotto dall'individuo; la sostanza dalle
sostanze, l'essere dagli esseri: al problema dell'individuazione fu sostituito
quello della generalizzazione. Capovolgevasi l'errore con nuova metafisica. Se
voi generalizzate, si è perchè i generi esistono; se classificate gli oggetti,
si è perchè le classi esistono; senza i generi vedreste solo individui, senza la
sostanza l'apparenza della sostanza non si offrirebbe all'intelletto, l'essere
non si manifesterebbe in mezzo agli esseri. I filosofi del secolo decimottavo
si credevano uomini molto positivi, osservatori della natura; avrebbero
riputato vergogna il credere ai tipi, alle ecceità, agli angeli: combattevano
fieramente la metafisica. Ma ignoravano la critica, consideravano le
contraddizioni eterne quali errori dell'uomo, le volevano sciolte; erano
logici, e la metafisica era una necessità del loro metodo e della loro
ignoranza. Osservatori, non osservavano i generi; uomini positivi, non
s'accorgevano essere il genere positivo quanto l'individuo. La preoccupazione
di rendere ragione di tutto, conducevali a cercare un'apparenza che fosse
prima; al suo cospetto le altre apparenze cessavano di essere quelle che erano,
e si menomavano. Collo stabilire un principio, i filosofi del decimottavo
secolo prendevano l'assunto, come Descartes, come Spinosa, di scoprire la
grand'equazione dell'universo; l'assurdo cartesiano ripetevasi capovolto quando
essi passavano dall'individuo o piuttosto dalla sensazione al genere e
all'idea. Essi non possono potevano limitarsi a dichiarare che il genere è una
nostra maniera di vedere; devono penetrare il processo con cui si forma nel nostro
intelletto. Locke dice che formasi per astrazione: così una facoltà dell'anima
si sostituisce alle somiglianze delle cose, o almeno le supplisce. Esistono
esse realmente? o sono nostre illusioni? Se non esistono, l'astrazione non può
afferrarle; se esistono, i generi sono, non si formano. Adamo Smith risponde
che non esistono, che noi generalizziamo colla forza sola della parola, che la
parola sola è generica, che il genere non è. Sia; in qual modo la parola sola
sarebbe generica? in qual modo produrrebbe essa l'illusione del genere? È
convenuto che il genere non è; è inteso che l'illusione del genere esiste; ma
se essa sorge dalla parola, bisogna mostrarci in qual modo la parola
oltrepassando le cose percette, le fa parere come non sono, nei generi. Hume
risponde, che la parola corrobora l'associazione delle idee, cioè l'abitudine;
e l'illusione del genere esce dall'abitudine, la quale riunisce gli individui
distinti e li afferra nell'ordine del loro apparire, sì che ogni uomo ci
richiama gli uomini. La risposta non vale: gli uomini non sono l'uomo; la
moltitudine non è il genere; la unione non è la generalizzazione. L'abitudine
restringesi a riunire i fenomeni: li generalizza? li rende essa somiglianti?
può essa trasportare il simile nel diverso? l'identità nella differenza?
L'unione di due cose opposte è forse una generalizzazione? In qual modo
l'abitudine diventerà il tempo, lo spazio, l'essere, la sostanza, la causa,
generi primitivi universali, superiori ad ogni abitudine, e contenenti
necessariamente le abitudini, giacchè ogni essere, ogni associazione appare
contenuta dal tempo, dallo spazio, dalla sostanza, dalla causa? Se Spinosa,
costretto a individuare la sostanza, dichiarava essere noi modi dell'eterno,
Davide Hume, impegnato a generalizzare la sensazione, dichiara essere la
sostanza un modo dell'io: se Spinosa crea la natura traendola dal vuoto della
sostanza, David Hume la crea traendola dal vuoto dell'abitudine. Dai due lati
il processo è lo stesso, l'impossibilità torna la stessa, e i nuovi filosofi
non possono distruggere la metafisica che aborrono e che s'insinua, a loro
dispetto, ne' loro sistemi; riluttando all'apparenza, rimangono avvolti nel
vortice della critica.
Il genere fu
ristaurato da Kant; ma poco giova se l'eclettismo, fondandosi sui generi,
pretende di avere sconfitta la critica. Gli eclettici si rallegrano di avere
conquistate le nozioni eterne dello mspazio, del tempo, della sostanza e della
causa: le adorano, ne parlano giubilanti come di principj assolutamente certi,
i quali, giusta Platone, danno alle cose la potenza di essere conosciute,
all'anima quella di conoscerle. Codesti nuovi scolastici si pascono di
parole, e vendono un inganno. Lo spazio, il tempo, la sostanza, la causa non
ispiegano nulla, non attestano, non istabiliscono che sè stessi; sono vuote
generalità, da cui nessun oggetto può essere determinato o vincolato in modo
alcuno. I corpi sfuggono alla generalità dello spazio, i moti a quella del
tempo, le sostanze alla sostanza, gli effetti alla causa: certissimi dei
quattro principj, a cui devesi almeno aggiungere il quinto dell'essere,
restiamo incertissimi sui corpi, sui moti, sulle cose, sulle generazioni, su
tutti i fenomeni della natura, i quali potrebbero attuarsi al rovescio,
intervertirsi in tutti i sensi, senza che lo vietino i principj che chiamansi
conquistati sullo scetticismo. A che dunque si riduce la celebrata vittoria
sulla critica? a una millanteria. Poi, la critica non si sviluppa negando
l'evidenza dei generi sommi o inferiori; al contrario, si sviluppa
accettandoli, e opponendovi un'evidenza contraria, opponendo allo spazio il
corpo, al tempo il moto, alla sostanza le sostanze, alla causa gli effetti: ivi
trovasi la contraddizione: chi vanta festivo la conquista dei generi supremi,
provoca illuso i supremi dilemmi dell'universo, quelli appunto che a priori rendono
il mondo impossibile. E come l'eclettismo resiste alla contraddizione?
Affermando che la sostanza è attiva, che il nostro percepirla la suppone
operante su di noi, quindi energica, generatrice di effetti; quindi generatrice
della natura, e causa di tutte le sostanze: la causa diventa così il termine
medio con cui si transisce dalla sostanza alle sostanze. La sostanza è dessa
veramente attiva? Appare sostanza e non altro, sta in sè, fatta astrazione dal
nostro percepirla; sebbene percetta, si dice indipendente, non ha bisogno delle
sostanze, come lo spazio che non ha bisogno dei corpi, benchè percetto
all'occasione dei corpi. Dunque la sostanza eclettica non è la sostanza che
appare, è un genere attivo, un'invenzione metafisica, dunque dalla sostanza non
si procede necessariamente alla causa. Dato il passaggio alla causa, giungiamo
noi logicamente alle sostanze? L'affermarlo vale quanto affermare la
contraddizione con parole che la travisano ignorandola. La causa si áltera,
riassume le stesse contraddizioni dell'alterazione, e noi coll'affidarle
l'origine del mondo facciamo dipendere tutta la natura dal principio stesso
della contraddizione. L'eclettismo ricade ciecamente nella metafisica; ma col
cuore palpitante d'ipocrisia, ci mostra Dio nella sostanza, affinchè lo spettro
della religione riappaiaseno della filosofia. Questa èla sua vittoria. Spinosa
impugnava la religione colla metafisica, l'eclettismo raccozza i cenci di
Spinosa perchè profittino alla Chiesa. Stiamo all'erta, che la filosofia non
c'inganni. La causa non è se non il genere delle cause, il genere delle
sostanze considerate nell'operare, un genere non di esseri, ma di relazioni,
non di equazioni, ma di contraddizioni. Causa significa lotta, combattimento,
alterazione, gravitazione, affinità, generazione; significa vivere, morire,
nascere, perire, ipparire, scomparire. Vacua per sè, ci lascia nell'ignoranza
delle cause, nulla insegna alle scienze, non afferra la verità, non è reale,
non positiva, non determinata: non è il Dio padre che guidava i nostri padri,
nè la ragione che guiderà i nostri figli.
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