Capitolo
VII
LA RIVELAZIONE DELLA VITA DETERMINA
E DOMINA LA SOCIETÀ
Non siamo governati
dall'ispirazione, non dalla logica; non havvi un'arte astratta di vivere; non
havvi una scienza della natura la quale ci dimostri che l'universo corrisponde
alla nostra aspettativa. Il nostro destino sorge dagli istinti della vita. In
qual modo dovrà esso attuarsi? I nostri istinti si sviluppano in due sensi
opposti, l'uno angelico, l'altro satanico: chi sceglierà nell'alternativa?
Ancora il ritmo della vita che determina e domina la società.
Nell'individuo
le funzioni istintive si armonizzano senza ch'egli se ne accorga per vegliare
alla sua conservazione; mangia per soddisfare alla fame, e le sue forze si
rinnovano; ama per amare, e la sua specie si propaga; la collera è
involontaria, ma ci difende: l'amicizia è disinteressata, ma ci procaccia
difensori. Ad ogni momento il problema della nostra esistenza viene sciolto
dalla vita, che dirige l'intelletto verso uno scopo da esso ignorato. Lo stesso
fenomeno si ripete nella società; la natura l'abbozza nella famiglia, l'estende
colla propagazione della specie, e dispensa le diverse funzioni sociali colla
varietà delle inclinazioni; si va alla caccia per cacciare, si inventa per la
passione d'inventare; ogni lavoro si attua in forza di un vezzo istintivo: il
poeta non pensa che alla poesia, il dotto non pensa che alla scienza, e la società
trovasi così improvvisata, conservata dall'impulso delle vocazioni. Non ispetta
alla intelligenza il fondare la società, nè il formare le diverse funzioni
dell'industria, nè il distribuire le vocazioni, nè il creare i caratteri;
l'intelligenza si limita ad accettare la rivelazione dell'istinto. Le passioni,
i sentimenti traduconsi ad ogni istante in forze meccaniche; le quali variano
indefinitamente nella direzione, nell'intensità; bisogna evitare gli urti,
bisogna coordinare fisicamente tutte le azioni, bisogna dirigere il moto,
assegnargli una formola meccanica, e l'intelletto si limita a cercarla. E
qual'è? Deve fondarsi sulla realtà; e pertanto si riduce al sistema sociale che
abbraccia tutta la realtà alla quale i nostri istinti diedero un valore.
La stessa
ricerca della formola sociale o religiosa, benchè sia meccanica, viene
suggerita dalla rivelazione interiore. Mentre tutti gli artisti obbediscono ad
impulsi speciali, hannovi uomini la cui ispirazione si applica, non alle cose,
ma agli uomini stessi. Signori naturali de' loro simili, sentonsi predestinati
al comando; non sono poeti, nè dotti, nè inventori; ma sentono il bisogno di
dare a ciascun istinto la sua funzione, a ciascun uomo la sua missione.
Vogliono attuare l'ordine occulto che trovasi in potenza nel fondo delle
moltitudini; lo divinano per una specie di seconda vista; lo presentono per un
privilegio del loro organismo; affascinati dal suono di una musica intima che
la folla non intende, dimenticano sè stessi perchè la città si fondi, e perchè
ogni pietra vivente prenda il suo posto nell'edifizio della civiltà.
Non havvi
adunanza sì piccola, sì due che non trovi il suo Orfeo. Ogni festa, ogni ballo
campestre scopre l'uomo che si consacra ad essere il legislatore del momento;
da ogni moltitudine in tumulto esce sempre una voce positiva, imperiosa, la
quale determina l'azione. Nelle insurrezioni il capo vedesi riconosciuto colla
rapidità del lampo; dimanda il suo posto, e l'ottiene immantinente: Masaniello
sorgeva a Napoli in pochi istanti. L'apparizione del genio politico è il
fenomeno più costante d'ogni popolo che si agita; quanto più la scossa è
profonda, tanto più l'ispirazione politica, violentemente interrogata, erompe
in prodigi. Wallenstein è generato dalla guerra dei trent'anni: Castruccio
Castracane, Braccio Montone, Sforza Attendolo lo sono dall'anarchia italiana;
l'Italia del medio-evo non si stanca di produrre uomini sempre nuovi nel mezzo
delle sue rivoluzioni. Dalle rivoluzioni inglesi esce Cromwell; Napoleone sorge
dai battaglioni della Francia rivoluzionaria con un corteggio d'eroi.
Il politico
opera come il poeta; i suoi atti cadono nella sfera del ragionamento; vengon
discussi, sono meccanici; ma quanto sfugge al ragionamento, al meccanicismo si
è il politico stesso; la rapidità del suo imaginare, la prima vista, il
giudizio, la fermezza del carattere: intendesi la sua parola, e non s'intende
dove egli prenda la forza che lo ispira; accettasi l'ordine da lui imposto, e
non si può scoprire la prima fonte onde sgorga. Istessamente il sacerdote, il
profeta, sono i politici dell'universo; cercano l'ordine nell'immensa
repubblica degli esseri visibili ed invisibili; sono ispirati dalla
rivelazione, ma s'impongono in forza della realtà.
Scoperta la
formola dell'ordine, il legislatore ed il profeta non possono attuarla senza
lotta, nè comprimere le ribellioni senza combattere, nè conservar l'ordine
senza antivedere l'insurrezione, senza cercare di renderla materialmente
impossibile. L'ordine, suggerito dall'ispirazione, viene dunque attuato dalla
forza. Strana miscela di spontaneità e di violenza, di poesia e di brutalità,
esce da una ispirazione che vuole liberi tutti gli istinti, felici tutti gli
esseri; e nell'attuarsi diventa un'opera di guerra, si fonda sugli eserciti,
sui tribunali, sulle prigioni, e non si conserva se non coordinando i suoi
mezzi di offesa e di difesa contro i traviamenti individuali. Così la società è
doppia: violenta e spontanea. Esteriormente la società opera coi mezzi
meccanici, muovesi materialmente nello andamento, nello scopo, in ogni cosa;
pure chi dispone degli eserciti, dei tribunali, delle prigioni? La forza
invisibile della vita, che comanda alla logica, quindi distrugge i dilemmi
critici, e che spegne nel nascere l'interversione degli istinti.
Se si
trasanda la rivelazione della vita, è forza chiedere alla ragione l'origine
della società; la ragione deve dedurla da un principio, svolgerla logicamente,
e si arriva non alla scienza sociale, ma alla metafisica della società. Così
Montesquieu crede spiegata la società dicendo che l'uomo vi nasce: ma tutti gli
animali nascono in società; perchè l'uomo rimane associato? Non gli mancano
cause d'ostilità co' suoi simili. Un'altra teoria risponde, che i nostri
bisogni ci chiamano alla società, e vi ci fanno rimanere: non v'ha dubbio; pure
il consorzio è forse l'opera de' nostri bisogni, o i nostri bisogni non son
piuttosto il suo risultato? Il dubbio è permesso; ignoti nulla cupido; il
selvaggio non ha i bisogni di un cittadino. D'altronde, tra i bisogni e i beni,
tra i desiderj e i valori da cui sono soddisfatti, havvi un abisso; il
desiderio di camminare senza stancarsi non inventa la carrozza. Donde
scaturisce l'invenzione? Dalla ragione, risponde un'altra teoria; ed eccoci
dinanzi ad un nuovo ostacolo. La ragione è vuota, e i ragionamenti sono l'opera
della società; la ragione è nulla, o, identificata colle nostre cognizioni,
essa ignora quanto non le venne insegnato; qual'è dunque il maestro della
società? Per ordinare bisogna educare gli uomini, e l'educazione suppone la
società già stabilita: d'indi le conclusioni, che la società era necessaria per
inventare la società; che le lingue erano necessarie per inventare le lingue:
il che torna quanto il dire che Socrate non poteva nascere, che il moto è
impossibile, che non si può nulla apprendere; e il più strano si è che i
teologi s'impadroniscono di questo ragionamento precisamente per provarci che
la società, la lingua, le arti furono insegnate dal loro Dio.
Sembrò
naturale che la società si fondasse sull'unico principio della sociabilità.
L'uomo, dice la scuola scozzese, somiglia agli animali che vivono in gregge;
l'uomo cerca l'uomo, come il cavallo cerca il cavallo. Ma potrebbesi domandare
se la socievolezza, invece, di essere la causa della società, non ne sarebbe
piuttosto l'effetto. Trascuriamo questa obbiezione. La società non è una
greggia, non un semplice adunarsi d'individui; essa è ordinata, i suoi lavori
s'intrecciano, le sue funzioni si suppongono, formano un tutto unico e
indivisibile: potrebbe l'ordine esser generato da un fortuito incontro?
D'altronde, la sociabilità delle gregge è ciecamente benevola: ma l'uomo non è
sempre benevolo per l'uomo; nella società cerca onori, vantaggi: nella più
innocente brigata non ride se non deride; si sollazza alle spalle degli
assenti, non è contento se non domina i suoi eguali. L'uomo è nemico dell'uomo,
viaggia armato, chiude la sua casa con ispranghe di ferro; le città sono
circondate di bastioni; i popoli assicurano la pace addestrandosi alla guerra.
Tra gli animali non hannovi dispute di onori, di precedenze; l'interesse
pubblico e l'interesse privato trovansi d'accordo; il pensiero dell'animale non
è novatore, non sedizioso; ma la lingua dell'uomo è una tromba di guerra. Il
legislatore imagina profonda perversità nei cittadini, si studia prevederne
tutti i delitti, contrappone il terrore alla astuzia; la sua legge può essere
santa, non può essere innocente. Noi tutti, per renderci tollerabili gli uni
agli altri, dobbiamo dissimularci, illuderci a vicenda colle regole della
decenza, della creanza, della prudenza; non è lecito di palesar tutto il
pensiero; guai alla cieca confidenza; maledictus homo qui fidit in homine. E
si vuol spiegare la diffidenza colla confidenza? l'odio colla bontà? la società
colla sociabilità?
Hobbes e
Mandeville, espositori di questa critica, rendevano ragione della società colla
guerra; in loro sentenza si è per combattere che gli uomini si sono riuniti; si
è la dissociazione che ha prodotto l'associazione. Il problema rimane intatto; per
riunire la società guerriera e conquistatrice, per fondare la prima riunione
armata, abbisogna una lingua, un riparto di funzioni, un ritmo; e questo ritmo
non s'inventa, non si deduce d'alcun fatto materiale ed esteriore. Hobbes e
Mandeville hanno afferrata l'origine esteriore e meccanica della società, hanno
avvisata l'azione politica, senza conoscere la politica ispirazione, senza
indicarla, senza sospettarla.
|