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Giuseppe Ferrari
Filosofia della rivoluzione

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  • PARTE SECONDA   DELLA RIVELAZIONE NATURALE
    • SEZIONE SECONDA   LA RIVELAZIONE DELLA VITA
      • Capitolo IX   LA MOBILITÀ PROGRESSIVA DELLA VITA
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Capitolo IX

 

LA MOBILITÀ PROGRESSIVA DELLA VITA

 

Il movimento che conduce da un sistema meccanico ad altro sistema meccanico rimane sempre meccanico e lo abbiamo spiegato colla teoria dell'errore. Ma la transizione da un sistema mistico ad un altro sistema mistico, correlativa alla transizione meccanica, rimane sempre vitale.

Noi non vogliamo cambiare: ma la natura inganna la nostra volontà. Il nostro scopo non è se non di conservare e di estendere i nostri principj, la nostra religione; ma qual'è il risultato del nostro operare? Si è di modificare gli esseri, di cambiare il mezzo nel quale viviamo: coll'opera nostra noi trasformiamo il mondo, lo facciamo una seconda volta. Quindi se le cose risvegliano in noi l'ispirazione, se l'ispirazione è sempre correlativa alle cose, col mutarsi dele cose l'ispirazione della vita deve mutarsi, i nuovi fenomeni devono destare in noi nuovi sentimenti, una vita nuova. L'uomo incendia le foreste, dissoda la terra, non pensa che a nudrirsi, e la terra coltivata gli nuovi bisogni: essa lo toglie alla vita nomade. La specie si moltiplica, vengono costruite le città, e dal seno delle città sorgono nuove passioni. Noi ci diamo al commercio, alla navigazione, all'industria, cercando un benefizio immediato previamente estimato col sistema dei valori determinati: ma dal seno dell'industria e delle arti nuovi sentimenti si destano e ci spingono a nuove imprese. Così i valori si alterano, le idee invecchiano; prima di esser sospettate di falso, pérdono ogni vezzo; la vita le abbandona, la fede vien meno, la nuova vita comincia, e il nuovo sistema meccanico è conseguenza della nuova ispirazione. L'ispirazione precede sempre l'invenzione.

L'avvenire non vien mai previsto dagli uomini retrogradi, e nemmeno da quelli del progresso. I primi non vedono la rivoluzione se non quando trionfa; prima giocano col fuoco, qualche volta sono essi stessi rivoluzionari, s'ingannano ed è giustizia. Se non fossero ingannati avrebbero forse perdonata la vita ad Aristotele, a Platone, a Voltaire, a Rousseau? La rivoluzione sarebbe stata spenta al suo nascere; nessuna considerazione di pietà, di pudore raffrena l'egoismo dell'uomo che si difende. Mirate i signori della società, guardate non le loro azioni, non le leggi che impongono, non le stragi che decretano quando combattono, guardate il loro cuore quando, inconsci dell'avvenire, si credono mecenati e protettori degli uomini nuovi. Essi amano la nuova vita quasi un trastullo frivolo e infecondo che potranno a piacimento interrompere come una commedia, ve ne ha che sostengono una parte nella commedia stessa: scrivono libri di filosofia; il travestimento è ameno, ma non áltera i valori: il re rimane re, il suddito resta plebe; e ben s'intende che la verità rimanga impotente, non pesi sulla bilancia del destino. Poi, sorpresi dalle rivoluzioni, gettano la maschera; maledicono la verità che avevano predicata e non avevano intesa.

Gli stessi novatori, gli uomini del progresso non indovinano la società che sorge dal loro impulso. Si scorrano Aristotele, Platone, Machiavelli, Montesquieu, non un di loro che indovini l'avvenire; i più temerari nell'utopia non sospettano i più splendidi tra i fatti imminenti. I filosofi dell'antichità non prevedono la disparizione della schiavitù, l'istituzione della chiesa: i primi cristiani attendevano la distruzione del mondo e la risurrezione dei corpi. I filosofi del decimottavo secolo non aspettano la rivoluzione, scrivono come se la monarchia fosse inconcussa, come se la servitù delle colonie americane dovesse durate in eterno. Una sola frase di Voltaire annuncia che la nuova generazione sarà spettatrice d'un beau tapage; una sola frase di Rousseau annuncia che le monarchie non potranno durare. Il dono della profezia ci fu negato; la Sibilla non deve intendere i propri oracoli; Mosè non deve toccare la terra promessa; gli Ebrei sono condannati a non riconoscere il Messia. Tale è il fatto.

D'onde la nostra imprevidenza? Dall'impossibilità di prevedere le conseguenze meccaniche d'un'ispirazione che noi non abbiamo, d'un sistema mistico ancora nel suo nascere. Se il progresso fosse interamente meccanico, coi dati del momento attuale si potrebbe tracciare il disegno dell'avvenire; c'inganneremmo sui particolari, sui casi, sugli accidenti, sulle catastrofi fortuite; e intanto la scienza potrebbe precorrere al complesso degli eventi futuri. Ma l'avvenire sorge da una vita sconosciuta, da un'ispirazione che non si può antivedere e che ignorasi compiutamente. Io voglio vedere l'America, e argomento la mia vita in America da quella che conduco a Parigi, partendo dalla mia volontà attuale; e necessariamente m'inganno, perchè nel mezzo di una nuova società avrò i bisogni, le passioni, i piaceri, la tristezza, in breve un ritmo mistico che ora mi è interamente sconosciuto. Platone prevede l'avvenire colle idee ispirate da' suoi sentimenti; se gli elementi della vita non avessero cambiato, sarebbe stato profeta; ma gli elementi si trasformavano; egli sapeva come si governavano gli Ateniesi, ignorava la vita del mondo romano, poteva squarciare il denso velo che gli celava il futuro.

Spesso gli uomini nuovi combattono i loro propri discepoli, condannano le conseguenze de' loro principi; per avanzare bisogna rovesciarli; perocchè non sanno staccarsi dalla loro propria vita; in essi l'uomo antico non è spento, e si rifiuta a seguire i principi della vita nuova. Chi sa? Forse Platone avrebbe rinnegato i suoi discepoli; sarebbe agevole dimostrare che il Cristo avrebbe maledetto la chiesa. Non è a caso che il sentimento generale di tutti gli uomini impone di rispettare i sepolcri.

 

 




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