Capitolo
XI
LA POESIA
Nella poesia
il ritmo della vita si manifesta puro e scevro d'ogni altro elemento: il poeta
sdegna la realtà, non si sottomette ai fatti, finge, mente; vuol essere
assolutamente libero, e giunge a rivelare il ritmo della vita e il sistema
mistico che lo anima, perchè non tiene in conto alcuno la verità meccanica
delle sue parole.
Tutte le teorie a me
note intorno la poesia sono figlie del pregiudizio metafisico, che parte da una
data apparenza per dedurne logicamente le altre. Quindi si cercò l'equazione
della poesia, quindi invece di spiegarla, fu resa impossibile e fu distrutta.
Stando ad
alcuni filosofi, la poesia è la stessa verità, emerge dalla scienza e dalla
sapienza, e mille volte fu ripetuto che il bello è l'irradiazione del
vero. Qui l'arte vien disconosciuta: la poesia non è dotta, nè veridica,
non vuole esser serva di alcuna dottrina; essa prodiga i suoi tesori alla
verità quanto all'errore, scorre libera in mezzo alle finzioni, il suo campo
naturale è quello della favola. La verità, invece di spiegare la poesia,
l'accusa di menzogna e di follìa; l'accusa di ingannare, di traviare, senza che
mai possa render ragione delle sue aberrazioni. Qualche volta la poesia è
savia, divien didattica, e allora è fredda compassata, riducesi ad un ornamento
inutile e frivolo della verità; l'insegnamento si migliora sciogliendosi
dall'impaccio del verso e dall'equivoco della metafora. La verità proscrive
adunque la poesia. Platone condanna i poeti, li sprezza quai ciurmadori, li
esilia dalla sua Repubblica. Posto il principio del vero, anche
l'eloquenza deve subire la sorte della poesia: gli stoici la condannano:
secondo essi, al sapiente un sol motto deve bastare. Se parla quando ha già
esposto il vero, divien frivolo; se parla quando la dimostrazione vien meno,
allora si fa giuoco di noi, la frivolezza cede il posto alla perversità. La
poesia, l'eloquenza e in generale tutte le arti, sono altrettante forme
dell'errore dal momento che si giudicano sotto l'aspetto della verità.
Costretta a
separare la poesia dal vero, la metafisica ha tentato di dominarla, considerandola
come una imitazione della natura: si crede che senza essere didattica, senza
proporsi lo scopo d'istruirci, si proponga quello di darci l'immagine delle
cose. Ma qui ancora l'essenza della poesia ci sfugge. Il poeta non è semplice
imitatore, è creatore; anche quando imita, sceglie l'oggetto della sua
imitazione, lo appura coll'ispirazione del bello, lo scioglie dagli accidenti
che lo deturpano; il pittore non è tale se non alla condizione di dare
l'impronta della bellezza al ritratto più fedele. La poesia oltrepassa dunque
la imitazione, si sviluppa disprezzandola, falsifica la storia sostituendole la
leggenda; l'epopea, invece di imitare la natura, la crea una seconda volta,
dando mille volte l'esistenza all'impossibile. Se l'imitazione spiegasse la
poesia, il più misero ritratto sarebbe superiore alla più splendida tela, il
più misero grappolo d'uva dovrebbe preferirsi all'uva di Zeusi. D'altronde,
perchè imitare ciò che esiste? Meglio sarebbe, dice Hegel, fabbricare il chiodo
e il martello, che perdere il tempo a dare un'utile e vuota ripetizione dei
fatti. Da ultimo, come tradurre nel principio dell'imitazione l'architettura,
l'eloquenza, la musica, tutte le arti?
Una terza
teoria spiega la poesia, supponendo in lei lo scopo di render migliori i costumi,
di appurare le passioni, di perfezionare l'uomo. La nuova equazione dell'arte
colla morale non regge; la poesia non è un insegnamento morale, come non è un
insegnamento positivo. La moralità è cosa precisa, collegata col vero; l'arte,
al contrario, vuole uno spazio assolutamente libero. Non havvi cosa più
insipida che la poesia quando si propone di dettarci in noi un insegnamento
morale, di renderci buoni sposi, ottimi cittadini e uomini onestissimi. Allora
tutto il vizio della finzione poetica si palesa; la poesia cessa di animare la
favola, si raccoglie negli ornamenti, negli episodi, sparisce dal poema. Se la
morale ha una parte nella poesia, il poeta deve ignorarlo. Da ultimo,
l'ispirazione e la decenza, la poesia e la morale che si confondono nelle
altissime regioni dell'arte, si separano troppo spesso nelle regioni inferiori,
e ne scaturiscono mille romanzi, mille novelle di una ammirabile indecenza e di
una scandalosa bellezza.
Si tentò
render conto della poesia coll'idea della finalità, perchè gradisce il vedere
subordinati i mezzi ad un fine: là dove trovasi una combinazione di congegni
per raggiungere uno scopo trovasi il bello, e Kant pensa che la finalità sia il
secreto della poesia. Ma l'attrazione misteriosa dell'ordine è comune alle arti,
quanto alle scienze; ispira egualmente il poeta e lo scienziato, non fa verun
conto della linea che divide il cantare dal sapere. Havvi una bellezza vaga e
indeterminata, la bellezza dei campi, dei colori, di certi effetti di luce: qui
dove è la finalità? L'ispezione anatomica dei corpi organizzati svela una
finalità mille volte superiore a quella indicata dalle forme esteriori dei
corpi stessi; eppure l'arte si ferma alle forme esteriori, e aborre dall'intero
congegno dei muscoli, dei nervi, delle vene. Il museo d'anatomia non fu mai
considerato qual museo di belle arti. Se la poesia si serve dei fini e dei
mezzi, se svolgesi coll'ordine, se ravvicina, allontana e complica a disegno le
cause e gli effetti, si è perchè deve essere intelligente, imitare le opere
della natura, e in una parola fingere la realtà. Nel mondo hannovi cause ed
effetti, e nel mondo imaginario della poesia devonsi trovare le cause e gli
effetti. Ma la finalità non ispiega la poesia, non la costituisce; e perchè
l'arte si riveli, bisogna che la finalità sia bella, poetica, cioè che presenti
un carattere diverso dalla finalità stessa. - Poi dov'è la finalità nel
sublime? Esso si svela ne' dirupi, nell'oceano in tempesta,
nell'incommensurabile vastità del firmamento, nelle cose che non hanno fine; il
sublime non ha scopo, basta a sè stesso. Dov'è la finalità nella tragedia? Ivi
manca, ed è precisamente nella catastrofe, nella finalità violata che la poesia
tragica splende in tutta la sua grandezza. Dunque la poesia esprime quasi
sempre un'azione, e sotto quest'aspetto subisce la legge dell'azione; accetta
la necessità dell'ordine, subordina i mezzi allo scopo; ma tutti gli ordini non
sono belli, tutte le azioni, anche più meditate, non sono poetiche; la poesia
trovasi solo in alcune azioni, in alcune finalità; e se cercasi l'equazione tra
la finalità e la poesia, questa trovasi ridotta alla favola, all'abbozzo, allo
scheletro su cui si fonda; l'arte è distrutta.
Lo scopo
dell'arte sarebbe forse di commuovere, di eccitare la sensibilità? La
metafisica, ridotta a prendere questa formola per render ragione dell'arte,
confessa implicitamente la sua impotenza, e non tocca nemmeno all'essenza della
poesia. La commozione è un fenomeno latissimo; siam commossi dalle sventure,
dalla felicità dei nostri simili, dai medesimi nostri interessi. Se l'arte
avesse il solo scopo di commuovere, il bello e il deforme servirebbero
ugualmente alla poesia; l'arte non potrebbe distinguersi dall'ebbrezza,
dall'amore, dal delirio, dalla follìa: il poeta avrebbe il diritto di errare
tra stolte paure, di porre il suo scopo in un errore volgare, di distruggere
l'arte cercando l'equazione dell'affetto.
Hegel rinnovò
la metafisica dell'arte, dichiarando che l'arte è la conciliazione della natura
e della ragione, che sta fra il mondo sensibile ed il pensiero, esprime
sensibilmente ciò che non è sensibile, cioè la ragione. Così la bellezza
dell'animale mostra sensibilmente l'idea invisibile che organizza l'animale,
così l'epopea svela sensibilmente la ragione dell'epoca a cui appartiene. Il
fatto nudo non è bello, il pensiero non può esser visto, la poesia tocca al
fatto ed al pensiero, ed emerge dalla contraddizione che rende visibile
l'invisibile. L'estetica di Hegel ci offre un merito altissimo e un capitale
difetto. Il merito si è di mostrarci d'un tratto tutte le contraddizioni della
poesia, ragionevole senza essere la ragione, imita la natura senza imitarla,
ammaestra senza voler ammaestrare, ci perfeziona senza volerci perfezionare; è
folle senza follìa, è savia senza essere savia, è ordinata senza essere
veramente ordinata, è capricciosa senza capricci: insomma trovasi in
contraddizione con tutte le cose che tocca. Il difetto capitale dell'estetica
hegeliana consiste nel prendere la stessa contraddizione, proponendo il fatto
quasi fosse una soluzione generata dal contrasto del senso coll'intelligenza.
Non contestiamo la contraddizione, contestiamo la sintesi, la generazione che
viene artificiosamente assenta. Hannovi mille sentimenti prosaici e scipiti che
risultano dal senso e dalla ragione; il tedio che conduce al suicidio emerge da
una sazietà sensibile e da un raziocinio invisibile; dicesi dello spleen quanto
dicesi della poesia; è sensibile, e non lo è; dipende dalla ragione, e non è
ragionevole; lo spleen emerge dalle proprie antinomie? o piuttosto sorge
contraddicendo alle circostanze che lo circondano, e quasi a dispetto di quanto
sembra condizione dei suo apparire? Non si può rispondere. Così l'essenza della
poesia di Hegel, che la ripone in cose comuni allo spleen, all'inquietudine,
alla noia, e fors'anco alla pazzia. In ultima analisi, egli sostituisce
all'ultimo carattere della poesia, il contraddirsi dell'ispirazione poetica.
È patente
l'impossibilità di ottenere l'equazione della poesia; nè si può chiederla se
non alla realtà; e stando alla realtà, la poesia è una menzogna, o una
imitazione senza scopo, o un insegnamento morale senza ispirazione, o una
finalità senza significato, o un mezzo per commuovere, poco importa il come, o
una contraddizione enigmatica. Convien cercare la poesia là dove trovasi,
osservarla dove appare: essa è l'espressione pura della rivelazione interiore,
dell'incanto della vita. L'arte deve rivelarci a noi stessi, farci sentire il
ritmo dei nostri sentimenti umani, e il sistema del nostro misticismo. Per sè
il sentimento, il mistero interiore sfugge ad ogni descrizione diretta, la
parola lo indica senza seguirlo; la vita è ineffabile, è assente dal
dizionario, o, se vuolsi afferrarla nella descrizione, si riduce ad una forza
meccanica. L'arte descrive il sentimento facendolo nascere in noi stessi, e lo
fa nascere sviluppando dinanzi a noi i fenomeni che lo destano. S'impadronisce
delle nubi, degli astri, de' fiumi, della storia, delle catastrofi, di quanto
appare fuori di noi, per risvegliare in noi la musica, il sistema de' nostri
istinti. Lasciata a sè stessa, la realtà fluttua a caso in balìa di mille
accidenti del mondo fisico; ci opprime colle particolarità volgari, schifose o
prosaiche; il ritmo della vita non è pago se non tratto tratto in una festa,
sul campo di battaglia, nell'aula d'un senato: anche ne' momenti più solenni,
la vita vincolata alla realtà, trovasi oppressa dall'attrito di tutte le forze
che violano il nostro ritmo. La poesia lascia le circostanze insignificanti, le
cose volgari, lascia il caso della materia per riunire solo i fenomeni che
risvegliano i fenomeni magici del sentimento e colla descrizione fantastica
elude la doppia impossibilità di descrivere direttamente il sentimento, e di
destarlo colla descrizione fedele degli oggetti che lo sforzano a manifestarsi.
Col fantastico la poesia rifà dunque la natura secondo il ritmo della vita;
finge, sposta, falsa gli avvenimenti, li ravvicina, li separa, nulla può
opporsi al suo capriccio; ed è così che essa rivela la vita alla vita. Nella
scienza, nella pratica prendiamo la vita come un fatto, i suoi istinti come
altrettanti dati; non pensiamo che a soddisfarli considerandoli nel mondo come
altrettante forze. Ivi l'insegnamento è preciso, deve essere vero, accetta gli impulsi
primitivi della vita; sarà l'interesse mosso dall'onore o dalla gloria o
dall'amore; nella pratica il nostro pensare e il nostro agire non guardano se
non alle leggi, all'urto, all'equilibrio delle forze esteriori. All'opposto,
nell'arte il mondo non è un fatto, è un'ipotesi fantastica, i fenomeni
esteriori sono dati mobili, variabili, di cui possiamo disporre a piacere,
dimentichiamo la verità meccanica, e abbiamo solo lo scopo di destare in noi le
melodie del mondo interno. Quando l'uomo opera, domina il mondo colle sue
passioni; quando è poeta, regna sulle passioni creando un mondo fantastico.
Nella scienza siamo liberi di conoscere o d'ignorare, ma il mondo è fatale,
inesorabile quanto la verità; nell'arte è il mondo che trovasi libero, che si può
modificare a piacere, la fatalità è in noi, nel ritmo della vita che ci anima.
Ritorniamo
alle diverse spiegazioni della poesia: il loro difetto sta nel dimenticare il
ritmo della vita; ristabilito il ritmo della vita, sarà facile rettificarle e
trarne profitto. - Fu detto essere l'arte un'imitazione della natura: il detto
sarà vero, se l'imitazione dell'arte si propone, non di copiare le cose, ma di
risvegliare il ritmo ad esse corrispondente. Dovunque l'imitazione serve alla
cosa imitata, qui l'imitazione serve ad una legge di cui le manifestazioni non
hanno nulla di comune colle cose. Ne nasce che l'imitazione artistica travisa
le cose, trasforma gli alberi in colonne, le foglie in volute fantastiche, il
passo nella danza, il suono nella musica, il racconto nell'epopea; dovunque
l'arte diventa infedele al fatto per rimaner fedelissima alla vita che vibra in
noi. - Kant rendeva ragione dell'arte mediante il principio della finalità; la
faceva consistere nell'ordine. Egli è vero che imitando la natura, essa deve
subirne le leggi; parlando alla vita, essa deve richiamarne l'ordine organico,
ordinare i mezzi allo scopo, l'effetto all'ultima causa. Ma la finalità poetica
è compiutamente arbitraria, limitasi a fingere il meccanismo esterno. Nel
meccanismo si obbedisce alla finalità per ricavarne effetti esterni; nella
poesia le si obbedisce per ottenere effetti interni sul ritmo misterioso del
sentimento. - Fu detto che l'arte ha per fine di commovere la sensibilità; ma
questa definizione indeterminata non si compie, non distingue la poesia
dall'orgia, da ogni altra commozione, se non col dare all'eccitazione lo scopo
di sentire il ritmo della vita. - Secondo alcuni l'arte è un'irradiazione del
vero; e ammettiamo che lo sia, alla condizione di riporre il suo vero nella
musica degli istinti, non nella verità materiale del racconto, non nella verità
di un dogma. - Fu detto che istruisce; sì, l'arte insegna la verità, non la
verità esterna, ma quella del ritmo; e qui la verità del poeta è più vera di
quella del fisico, dello storico e del cronichista. La storia si ferma agli
effetti meccanici delle grandi idee; la poesia ci svela le forze vitali che
hanno disposto degli eventi esterni. In questo senso Omero, Dante e Shakespeare
sono i più grandi storici dell'umanità. - Da ultimo, si potrà considerare
l'arte sotto l'aspetto di un insegnamento morale, darle lo scopo di appurare le
passioni, di perfezionare l'uomo; ma non è di proposito deliberato, non è per
una intenzione diretta che il poeta divien moralista. Interprete dell'armonia
sociale e pittore del ritmo che anima l'umanità, divien fatalmente l'interprete
dell'opera de' profeti e de' legislatori, e non potrà raggiungere il sublime
senza seguire la plastica misteriosa dell'ordine che spegne progressivamente
coi beni il male, coordinando gli interessi della società.
Tutti i
misteri dell'arte si spiegano quando si considera l'arte come una rivelazione
della vita alla vita stessa.
Il primo de'
suoi misteri è la bellezza: non possiamo definirla, ma possiamo indicar come appare.
Si manifesta all'istante in cui diventiamo spettatori disinteressati delle
cose. Il serpente che ci avvelena, il cavallo che ci scavalca non sono nè
belli, nè deformi, sono forze, colle quali lottiamo; non pensiamo che al dolore
o al piacere, all'essere o al non-essere. Il pericolo svanisce? non isperiamo
alcun vantaggio diretto? Allora il serpente, il cavallo, tutti gli esseri
appaiono belli o deformi: nessun oggetto si sottrae a questa qualificazione
data dalla vita. La rupe, l'onda, il rivo, tutto ci commove: per gli oggetti
minimi, l'emozione è minima, impercettibile; e quando si ingrandiscono, si
ingrandisce il sentimento che loro corrisponde. Che cosa è dunque la bellezza?
È una apparizione corrispondente ai valori: finchè i valori ci attraggono, la
vita opera, viviamo; non si pensa al bello, non si contempla: quando cessiamo
di agire, e che la vita è in certo modo sospesa, il ritmo ci mostra la vita
sotto la forma del bello. Hannovi due sorta di valori per l'uomo in azione; gli
uni generali, gli altri speciali. I primi sono quelli determinati a priori
dall'istinto e comuni a tutti gli uomini; gli altri presuppongono un sistema
sociale, una sintesi di tendenze, di beni, un intreccio d'istinti.
Istessamente, perla vita che osserva la vita, hannovi due specie di bellezze,
le une generali, umane: gli occhi bastano a discernerle; le altre sono
speciali; sono le bellezze istoriche, quelle che si rivelano alla vita, che
osserva la vita delle nazioni, dei popoli, delle religioni. Le une sono
preliminari, le altre successive.
Spetta alla
vita il contemplare esteticamente la vita: quindi non è possibile insegnare
l'arte del bello. Il bello è una specie di tesi senza prova; possiamo
indicarlo, dove si mostra più appariscente; questa è la funzione della critica,
dell'analisi letteraria, dell'estetica. Si stralcia un poema, si additano le
principali sue bellezze; ma la dimostrazione si riduce a un semplice
annotamento. Nessuno dirà mai perchè un sonetto di Petrarca è una meraviglia sì
perfetta, che il cambiargli una parola sia un profanarlo. Nessuno dirà neppure
perchè una composizione è mediocre, difettosa sotto l'aspetto dell'arte; viene
disprezzata, ed è giudicata dalla sola espressione del disprezzo.
Non vi hanno
regole per l'arte. I precetti dell'arte poetica riduconsi ad alcune generalità
estratte da un certo numero di capolavori. Si decompongono i drammi, i poemi;
si traducono nei loro elementi più esterni, si cercano le traccie materiali del
ritmo che li ha creati; si contano le sillabe del verso, si osserva l'ordine
dei canti, l'atteggiamento della finzione, dell'azione, della finalità, e si
dettano le regole. Sono regole tutte esterne e fisiche, cadono sulla realtà:
esse pretendono d'imporre al poeta le tre unità del dramma, al dramma il sogno
e la catastrofe della tragedia antica, alla tragedia un dato numero di
personaggi, un dato numero di atti. Il vero poeta segue le regole senza
saperle, le crea ignorandole, le viola sorpassandole: dall'altro lato, il
cattivo poeta può comporre pessimi poemi, applicando scrupolosamente tutti i
precetti dell'arte. La poesia è dunque opera d'imaginazione, non può essere
governata, non può essere insegnata, non può essere trasmessa come la scienza.
Da ultimo, i
poeti debbono chiedere alle religioni il soggetto de' loro poemi. Nel fatto,
devono rimanere in un sistema mistico, devono parlare a un sistema, voglio
dire, a una patria, a un popolo cui appartengono: una poesia fantastica che
volesse mostrare il solo ritmo, ridurrebbesi ad un'insipida pastorale, ad una
effeminata elegia; un poeta senza religione, senza dati storici, sarebbe un
poeta senza popolo, non apparterrebbe ad alcun'epoca, ad alcuna gente.
Canterebbe il verde de' prati, l'onda de' fiumi, sarebbe in estasi dinanzi ai
pesci, alle selve, ai fiori; sarebbe un selvaggio. Questa considerazione
scioglie il problema del bello assoluto. Che cosa è il bello assoluto? Quello
d'un sistema? Non è assoluto, è relativo ad una fase istorica, appartiene alla
Grecia, a Roma, all'Europa. Il bello assoluto deve appartenere all'umanità,
sarà dunque o il bello istorico del sistema avvenire dell'umanità, o il bello
rude e selvaggio che splende sui valori del ritmo, quando sono contemplati e
non desiderati.
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