Capitolo
XIV
IL RIDICOLO
All'espressione
naturale del ritmo opponsi l'antitesi di un'espressione artificiale, fittizia:
la prima chiamasi seria, nella seconda appare il ridicolo.
Il ridicolo
non si definisce: è un apparenza primitiva, è ineffabile come tutti i fenomeni
vitali; si possono determinare le circostanze che lo accompagnano, ci sfugge
sempre nella sua essenza anti-meccanica. Stando ad Hobbes esso suppone in una
súbita indecenza che non ci sia personale: quæ risum movent, dice egli, tria
sunt conjuncta: indecorum, alienum et subitum.
Le tre condizioni possono però verificarsi senza che il ridicolo si
manifesti. Se col rendere indecente un eroe si rende ridicolo, si può deriderlo
senza che l'indecenza si riveli; la satira dei vizi non è la satira
dell'indecenza. Giusta Descartes, il ridicolo dipende da un sentimento di
superiorità; chi ride domina il deriso: la è cosa certissima: la fatuità è
beffarda, il celiatore di spirito non ride mai, i più arguti epigrammi
suppongono una mente tranquilla e imperturbabile. Però sarà sempre vero che il
sentimento della nostra superiorità e il sentimento comico non possono
confondersi, nè tradursi l'uno nell'altro, nè ammettere una medesima
definizione. In sentenza di Kant il ridicolo sarebbe un'aspettativa fallita.
Dopo aver posto il bello nella finalità Kant deve definire il ridicolo come un
difetto subitamente scorto nei mezzi incapaci di raggiungere uno scopo. Qui
ancora l'aspettativa può essere ingannata, senza che il ridicolo si manifesti:
v'hanno di goffe indecenze che muovono a riso e stanno. nell'ordine, non
ingannano alcuna aspettativa, ed anzi raggiungono uno scopo naturale.
Torna vano
ogni tentativo per cercare l'equazione del ridicolo: ogni fatto esterno tende a
confonderlo o coll'indecenza o col vizio o coll'errore; e una volta
identificato coll'indecenza, col vizio o coll'errore, vien negato quando appare
sotto la vera sua forma.
Esaminato nel
suo mistico apparire, il ridicolo nasce nell'istante in cui la rivelazione
vitale e la rivelazione esterna cessano di essere correlative, cioè
nell'istante in cui un sentimento vien accoppiato con un'azione che non gli
corrisponde. Qual'è il modo più facile e più spedito di far ridere? Si è il
travestirsi: il mascherarsi eccita l'allegria, e trae la sua forza comica dal
disaccordo tra la maschera e la persona. Che cosa è il deridere, il celiare?
Consiste nel mistificare, nel destare timori, spaventi, contenti a controsenso,
assolutamente fuori del vero. Il pesce d'aprile, le freddure, i giuochi di
parole, gli indovinelli, il rebus si fan giuoco di noi, equivocando su
di una doppia realtà; lo stesso dell'epigramma, della satira che maneggiano
l'equivoco con maggiore superiorità ed arguzia. Don Chisciotte non è ridicolo
se non perchè trasporta il sentimento della poesia cavalleresca nel mondo
moderno: il suo elmo è un piatto, il suo paggio un paesano, la sua Dulcinea
coltiva la terra, i giganti che combatte sono molini, le vittime che libera
sono i galeotti; lo equivoco è continuo, il ridicolo perpetuo. Trasportiamo il
sentimento della vita moderna nel mondo cavalleresco, non sarà meno piacevole;
ne sia prova le bourgeois gentilhomme.
La parodia è fonte
facilissima di ridicolo: ma dove attinge la sua forza comica? Nel contrasto tra
il sublime e il volgare, tra i tempi eroici e i nostri tempi; essa conserva
l'antico meccanismo urtandolo ad ogni verso: il ridicolo è agevole, il
parodiare equivale al mascherare. Il perchè ogni poema eroico ebbe la sua
parodia, l'Iliade come l'Eneide, le Notti di Young come il Werther: la
Gerusalemme liberata fu tradotta in quasi tutti i dialetti d'Italia: al solo
intendere la lingua di Arlecchino e di Pulcinella nelle bocche di Goffredo e di
Tancredi l'equivoco d'un doppio vero provoca al sorriso.
La separazione
tra il sistema mistico e il sistema meccanico nelle crisi religiose divien
forte, ed è precisamente nella lotta delle religioni che il ridicolo sorge
fortissimo. Qui il credente paventa esseri che non esistono, si prostra dinanzi
a statue indifferentissime alla sua adorazione, è mistificato dalla propria
fede, e il sistema de' suoi sentimenti lo rende essenzialmente comico agli
occhi degli increduli. Quindi Luciano e Voltaire: quante declamazioni contro il
volterianismo: dotti, pedanti, gesuiti, voi vi siete collegati contro la
satira: conato inutile. Si ride, siete vinti.
Il
mefistofele di Goethe non è volteriano, deride l'uomo, non il credente; la sua
ironia sorge amara, quasi dal più cupo fondo della mente. E qui ancora sta
nell'equivoco tra i sentimenti dello uomo e le cose della natura, tra la nostra
aspettativa e la realtà che ci attende; l'equivoco ci fa parere l'uomo
mascherato, ce lo mostra sulla sua corsa a traverso i secoli sempre vinto dalla
plumbea fatalità e sempre inteso a celebrare vittorie mani che si smarriscono
nel nulla.
L'uomo è un
animale che ride perchè s'inganna d'assai, perchè varia di sentimenti; tolto
l'errore, il ridicolo non starebbe. Però il ridicolo non si oppone al vero, non
fa equazione coll'errore; non si oppone al bello, non fa equazione col deforme;
non si oppone se non al serio, bello o deforme, vero o falso; non si oppone se
non al serio, preso qual sinonimo di naturale, di spontaneo. Il ridicolo può
essere bello, brutto, vero, falso, perchè queste qualificazioni abbracciano
ogni manifestarsi della vita e degli esseri. Come adunque il ridicolo diventerà
sorgente di bellezze, materia dell'arte? Come ogni altra cosa, purchè siavi la
bellezza, e si riveli al poeta. Per sè il ridicolo risiede nella violazione del
rapporto tra l'io e le cose, tra la vita e gli oggetti: non risiede altrove,
non fuori di noi; non nelle cose, le quali veramente o per traslato (qui poco
ci cale) si dicono belle e deformi. Il ridicolo divien poetico quando la mente
seria e disdegnosa lo colpisce dall'alto di una regione inviolata e sicura; nè
mai il serio fu più profondo che presso Voltaire e Goethe, che deridevano l'uno
il cattolicismo, l'altro l'umanità. In questo senso Descartes aveva il diritto
di affermare che il ridicolo suppone la superiorità di chi ride.
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