Capitolo XV
L'ALIENAZIONE MENTALE
Hannovi
alcuni uomini profondamente ridicoli, benchè infelici: sono i dementi. Come il
ridicolo, la demenza sta nella discordia tra la rivelazione della vita e la rivelazione
degli esseri. Se il ritmo della vita si falsa, se il sistema degli istinti si
turba, se le cose insignificanti acquistano per noi un valore smisurato, se
trascuriamo le cose che più ci interessano, in breve, se il sistema della vita
si sviluppa fuori della realtà, la follìa si dichiara, la mente è perduta.
Essendo la
follìa la malattia della vita, non può venire giudicata se non dall'intuizione
vitale. Tolta l'intuizione vitale, scorgiamo le circostanze esterne, il fatto
materiale o meccanico della follìa, non la stessa follìa; in quel modo che,
spogliati di ogni istinto poetico, noi vedremo nell'Iliade il numero dei canti,
dei versi, il racconto, il vero, il falso, non mai la poesia di Omero. La
scienza medica tende a fermare l'attenzione sui fatti: quindi ha osservato
l'alienazione mentale nell'organismo infermo, nell'errore della mente alterata,
nel vizio della volontà, che sono le tre uscite esterne e meccaniche della
follìa. Di là tre teorie, l'uno fisica, l'altra intellettuale, la terza morale.
Ci convien esaminarle per sottrarre la rivelazione della follìa a tre equazioni
meccaniche che la travisano per poi travolgerla nelle aberrazioni della
metafisica.
La teoria
fisica considera la demenza come un'infermità del corpo, e trovasi vinta
nell'atto stesso in cui vuol stabilirsi. Qual'è il primo suo debito? Deve
caratterizzare la follìa, mostrare in che differisce dallo stato regolare della
vita, e la teoria fisica non regge nell'assunto. Quando la follìa si manifesta,
chi la riconosce? Non il medico, ma la famiglia, gli amici, i conoscenti
dell'infermo. Il medico si limita alle funzioni di testimone, interroga
l'infermo, lo giudica dai discorsi, dallo sguardo, dal gesto; il suo giudizio è
il giudizio di tutti, nè altro deve fare se non verificare il fatto come
officiale di salute. Il fenomeno della malattia sfugge completamente
all'osservazione fisiologica. La salute può essere perfetta, il polso regolare,
l'organizzazione senza vizio, e in pari tempo l'infermo può essere perduto per
sempre. I sintomi patologici che in alcuni individui accompagnano o precedono
la malattia, sono sintomi secondari, che rinvengonsi negli ammalati la cui
intelligenza non trovasi punto alterata. Il senso leso, le visioni, le
allucinazioni, le voci interiori, il gusto e l'odorato falsati, il tatto
affievolito, la disadattaggine quasi universale degli alienati, la forza
spaventosa dei maniaci, l'eccessivo calore che divora i furiosi, sono fenomeni
fisici: spetta solo al fisico, voglio dire solo al medico, il giudicarli; ma possiamo
noi confonderli colla pazzia? No, certo; le voci interne, le allucinazioni non
la costituiscono; le sensazioni possono essere lese, senza che la ragione sia
scossa, il fenomeno della visione si manifesta negli uomini i più fermi;
qualche volta apparve nei momenti più solenni della vita dei profeti. Lungi dal
traviare, fortificava l'intelligenza dei veggenti. Se la mania moltiplica le
forze, la collera, l'ispirazione possono alla loro volta moltiplicarle, nè mai
alcun dato fisico separerà la pazzia dalla mente sana.
Impotente nel
caratterizzare la follìa, la teoria fisica inciampa di nuovo quando deve
indicarne le cause. Che la ragione sia turbata dalle perturbazioni del nostro
organismo è cosa patente; l'intelligenza stessa perisce quando il corpo perisce.
L'eccesso del freddo, un colpo di sole, la crapula, il libertinaggio,
l'epilessia, il disordine dei mestrui, le cadute, le ferite nella testa, le
febbri, l'abuso del sonno, e in generale tutte le cause che ledono il corpo
ledono pure lo spirito. Sono esse le vere cause dell'alienazione mentale? No;
la follìa non è nell'organismo, è altrove, negli istinti, nelle passioni, nella
vita. Tra il fremere dell'aria e il suono, tra la luce e la visione havvi un
abisso; gli organi dell'amore non ispiegano l'amore, nè il parto spiega la
tenerezza della madre per il figlio. Tra lo sconcerto organico e la pazzia che
ne consegue, l'abisso è ancora più profondo. Se un orologio cade, ritarderà,
avanzerà, sarà guasto. Quale ne è la causa? Per il volgo sarà la caduta; per il
meccanico la caduta non è se non l'occasione, di cui non tien conto; per lui la
causa starà nelle ruote torte, nelle molle falsate, nelle incastrature peste.
La teoria fisica della follìa si ferma alle occasioni rozze ed esterne dello
sconcerto intellettuale; non afferra le vere cause che alterano la serie de'
congegni nervosi e meccanici dei pazzi. D'indi la doppia impossibilità di
spiegare fisicamente la pazzia. In primo luogo, il fenomeno si sottrae
all'occhio, si manifesta in un campo non meccanico. In secondo luogo, il
meccanismo che corrisponde alle forze della nostra vita interiore si sottrae di
nuovo alla nostra osservazione. Le molle, i congegni, i fluidi alterati dalle
cause esterne che generano la pazzia, rimangono inaccessibili a tutti gli sforzi
della fisica.
L'autopsia de' pazzi
conferma l'impotenza della teoria fisica. Ecco i risultati dell'anatomia quali
trovansi formulati da Esquirol: «1° I vizi della conformazione del cranio
rinvengonsi solo negli imbecilli; 2° le lesioni organiche dell'encefalo e de'
suoi viluppi non si osservano se non negli alienati, la cui follìa complicavasi
colla paralisìa, colle convulsioni e coll'epilessia; 3° tutte le lesioni
organiche osservate negli alienati rinvengonsi in altri individui, che non
hanno mai delirato; 4° molti alienati non offrono alterazione alcuna; 5° la
patologia ci mostra ogni parte dell'organo encefalico alterata, suppurata,
distrutta, senza lesione dell'intelletto.» Ecco adunque le lesioni senza
pazzia, e la pazzia senza lesioni. Supponiamo che la pazzia corrompa realmente
le diverse parti del cervello; supponiamo che la malattia si dichiari nelle
parti corrotte; ammettiamo che tutti i nostri istinti, tutte le nostre facoltà
si possano localizzare nei diversi compartimenti del cervello. Le cause della
pazzia sarebbero scoperte coll'autopsia? No; vedendo la lesione organica
potremmo scorgere la sede della malattia, le cause meccaniche corrispondenti
alla vita falsata; ma il falso stesso della vitalità alienata ci sfuggirebbe
ancora. - Del resto, la pazzia si palesa il più delle volte come l'effetto di
cause morali: in qual modo la fisica potrebbe oltrepassare l'ispezione dei
muscoli e dei nervi per afferrare l'influenza d'un fatto su di una passione? La
malattia viene destata dalla collera, dall'amore, dall'imitazione, dal piacere,
dal dolore; ed anche dopo avere esplorate tutte le cause fisiche, il fisico
dovrebbe rinunciare alla spiegazione della metà dei fenomeni della alienazione
mentale, in cui la malattia si trasmette dalla vita alla vita.
Se la teoria
fisica non può determinare nè i caratteri, nè le cause della follìa, non è
guari più felice nella cura dell'infermo. Qui l'impotenza dei farmaci è
confessata dai medici più illustri: ne' manicomj si curano le malattie
accessorie, o si conserva la salute dell'alienato co' mezzi suggeriti
dall'igiene; ma non si diminuisce con alcuna medicina il disordine della mente.
Dunque la realtà fisica non può nè determinare la linea di separazione che
divide la pazzia dallo stato regolare della vita, nè scoprire le cause del
male, nè rendere la ragione all'infermo. Ciecamente empirica ne suoi tentativi,
la teoria fisica rimane sempre esterna al problema della follìa.
La teoria
intellettuale aspira a discoprire nell'intelligenza il secreto dell'alienazione
mentale: la sua pretensione sembra ragionevole; il pazzo ragiona, s'inganna, si
crede principe, re, Dio: chi giudicherà questo disordine intellettuale, se non
l'intelligenza? Ma l'intelligenza è muta sulle rivelazioni della vita; non
conosce che il sì, il no, il vero, il falso, l'essere, il non-essere; non sa
determinare l'istante in cui la ragione cessa di essere ragionevole, e quando
la teoria intellettuale vuol determinare i caratteri della follìa, trovasi
inferiore alla stessa teoria fisica. Almeno la teoria fisica può mostrare
alcuni sintomi; il furore, l'allucinazione, uno sconcerto organico; la teoria
intellettuale non trova alcun dato nell'intelligenza, eccetto il vero e il
falso, ed è ridotta a confondere la follìa coll'errore. Ma se l'errore è una
follìa, chi non è pazzo? Limiteremo noi la pazzia a quegli errori che oppongono
una cieca resistenza ad ogni dimostrazione? Non havvi religione che non resista
ciecamente colla sola forza del sistema mistico; la follìa non è la fede, nè la
fermezza, nè l'ostinazione. Sta forse negli errori condannati dal senso comune?
In questo caso non havvi follìa che non sia stata adorata sugli altari; la metà
della filosofia si sviluppa con teorie in opposizione alle credenze universali
del genere umano. Porremo noi tra le malattie della mente gli errori funesti
all'individuo o alla società? In tal caso sottometteremo alle nostre idee le
opinioni sulla felicità e sull'infelicità, sulla moralità e sull'immoralità; i
nostri dogmi giudicheranno gli errori funesti, imprigioneremo come pazzi i
màrtiri, i profeti delle religioni che noi non professiamo; confonderemo i
viziosi coi dementi, gli scellerati coi pazzi. Nè si può opporci l'enormità
degli errori del pazzo. Nel manicomio l'uno si chiama imperatore, l'altro si
crede Dio; un altro è trasportato dal furore dell'omicidio; ma pur
l'intelligenza considera queste aberrazioni, benchè mostruose, come meri
errori, meri inganni, e non altro. Ora, la follìa è più che un errore, più che
un'illusione. Volete caratterizzarla? Dimostrate l'istante in cui l'errore
divien malattia, in cui l'illusione diviene l'alienazione mentale; dimostratelo
colla sola intelligenza, e l'intelligenza avrà sciolto il problema. Se questa
dimostrazione manca, la teoria è annullata.
L'intelligenza
sembra distinguere la fillìa dall'alienazione mentale; quando l'alienato opera
senza ragione, senza motivo, quando sragiona di continuo trasportato dal moto
della sua propria parola: allora parla, ride, i suoi periodi non possono
compiersi, la sua attenzione non può fermarsi, i suoi scritti non hanno senso;
il fato ha vinto l'intelligenza. Qui, dov'è la follìa? nell'intelligenza? No;
l'alienato è caduto in una specie d'idiotismo animato, ciarliero, è un morto
che parla, l'intelligenza è interamente svanita. D'altronde, se havvi la mania
del disordine, havvi altresì la mania che chiamasi raziocinante. I medici non
si stancano di lodarne gli sforzi, l'imaginazione, la destrezza, l'astuzia.
Pinel parla di un infermo che costruiva ingegnosissime macchine cercando il moto
perpetuo. Vi sono alienati in cui la mente si leva ad un'altezza che reca
meraviglia. «L'uno di essi» dice Pinel, «ne' suoi accessi parlava dei fatti
della rivoluzione colla forza, la dignità e la purezza della parola che appena
potevasi attendere dall'uomo più profondamente istrutto, e dal più sano
giudizio. Ne' suoi lucidi intervalli era un uomo ordinario.» Un altro alienato,
rendendo conto della malattia da cui era guarito, dichiara che negli accessi la
sua mente otteneva il dono di una felicità straordinaria. «Tutto m'era facile»,
dice egli; «nei momenti d'accesso nessun ostacolo mi fermava, nè in teoria, nè
in pratica. La mia memoria acquistava d'un tratto una singolar percezione, ma
richiamava lunghe pagine d'autori latini: d'ordinano trovo a fatica le rime;
allora scriveva il verso rapido come la prosa.» Nella monomania l'ammalato gode
della sua intelligenza, può essere dotato di un raro ingegno; la pazzia cade su
di un concetto unico. Qui ancora spiega un mirabile intendimento. Il monomane
credesi perseguitato da nemici imaginari, teme che i suoi alimenti siano
avvelenati; se si tenta di confutarlo, le sue risposte ci rendono attoniti. Da
ultimo in molti individui la malattia è visibilmente nella volontà, la ragione
è perfetta, sanno giudicare sè stessi; conoscono le conseguenze delle loro
azioni, eppure non possono dominarsi. Gli uni non sanno togliersi ad
un'invincibile pigrizia, rifiutano di vestirsi, di passeggiare; gli altri non
possono contenere gli accessi di frenesia che, con loro terrore, sentono
imminenti. Una madre spinta dalla mania ad uccidere i figli, ebbe appena il
tempo di gettare dalla finestra la chiave della loro stanza; molti, nel momento
dell'accesso, sollecitano i loro amici alla fuga, li pregano di sottrarsi agli
indomabili loro impeti. Vedesi adunque che ora l'intelligenza è straniera alla
follìa, ora la serve; e se essa serve egualmente la salute e la malattia, come
mai potrebbe caratterizzare l'alienazione mentale?
Non si può
nemmeno rinvenire nell'intelligenza alcuna causa della follìa. Gli istinti
falsano le idee, la follìa può viziare tutti i pensieri, travisarli,
intervertirli, associarli in mille modi: ma la causa dell'alienazione mentale
non è mai nell'intelligenza: se non havvi concetto che possa gettarci nel
delirio; a più forte ragione non havvi verità che possa spegnere
l'intelligenza. Deploriamo i medici che accusano la democrazia di moltiplicare
il numero dei dementi. Facciano il numero dei pazzi del cattolicismo;
sorpassano le mille volte quelli della rivoluzione, che almeno non dà corpo
alle ombre, e non celebra qual miracolo il morbo dell'allucinazione. In
sostanza, le idee sono la materia della follìa, la follìa è altrove, nella
paura, nello spavento, nell'ambizione, nella collera. Una volta eccitata la
follìa aderisce indifferentemente a tutti i principj, alla religione e alla
filosofia, all'assolutismo e alla democrazia; può combinarsi colle più volgari
idee, colle più sublimi verità.
La cura della
pazzia mostra il vuoto della teoria intellettuale. Possiamo noi confutare i
pazzi? possiamo convincerli colla forza del sillogismo? No; la cura
intellettuale spesso applicata ai dementi consiste nel servirsi de' loro errori
per fingere una catastrofe in cui l'alienato trova la salute nella propria
mistificazione. Un alienato credevasi morto, rifiutava di nutrirsi; gli fu
provato che i morti mangiano, e allora si decise a mangiare. Un monomane
credeva di aver due corna sulla fronte, il medico finse di amputargliele; il
pazzo guarì immediatamente. Qualche volta si fecero comparire le ombre, si fece
parlar Dio, la Vergine, i santi, e colle rappresentazioni teatrali si è
ottenuta qualche guarigione. È questa una cura intellettuale? è una prova forse
che l'alienazione sia nell'intelligenza? No; le rappresentazioni teatrali possono
rendere la libertà allo infermo, ma il sistema delle sue idee rimane sempre
leso, relativamente al suo proprio passato; le sue azioni sono ragionate, la
sua monomania è momentaneamente staccata dalla vita pratica, ma sussiste intera
nella sua mente. Al minimo accidente si riproduce di nuovo nell'azione e la
ricaduta diventa incurabile. Spesso le rappresentazioni teatrali dello spedale
non fanno che spostare la pazzia. Ciò perchè l'errore non è se non la materia
della follìa; la leggerezza, la foga, il fato della follìa, si aprono un'uscita
afferrando un'idea; e se ci limitiamo a vincere l'errore, la pazzia non
mancherà di cercare un'altra uscita in una nuova serie di concetti. Qualche
volta le rappresentazioni teatrali raggiungono lo scopo; allora il medico è il
caso; la cura è un colpo di fortuna: il pazzo non è persuaso, è scosso; non è
confutato, è commosso, e trova il suo equilibrio nella scossa. Un incendio
nell'ospizio, una caduta felice avrebbero prodotto lo stesso effetto. Così la
teoria intellettuale non tocca all'essenza, non alla causa della follìa, e se
agisce sul male, lo deve alla fortuna.
Ci rimane
d'esaminare la teoria morale. Ivi la follìa deve essere un vizio, un delitto e
il carattere dell'alienazione deve esser determinato o dalla forza dei nostri
istinti, o dal sistema delle nostre idee. Analizziamo i due casi. Se il
carattere della pazzia viene determinato dalle forze de' nostri istinti,
devonsi enumerare gli istinti, considerando ogni demenza come l'eccesso o il
difetto di una forza istintiva. Allora la pazzia sarà la melanconia che resiste
a tutte le distrazioni, l'orgoglio che sfida il mondo, la superstizione che
uccide l'infermo, la collera che gli rende impossibile di vivere co' suoi
simili; isolata in un istinto, la follìa riducesi ad una forza anormale. In
qual modo determinare il difetto e l'eccesso dell'istinto? Nessuno può dirlo;
il grado della passione esteriormente misurato ammette una latitudine
indefinitamente più grande di quella lasciata dal ritmo interno: essa varia colla
situazione, colle idee, colla civiltà: molti pazzi per ambizione sono meno
ambiziosi di Cesare; molti dementi per amore amano meno di Eloisa. L'ostia
consacrata è un tesoro per il cattolico, per l'istinto isolato non ha alcun
valore. Isolarsi nell'istinto e misurarlo sono due cose egualmente impossibili:
quando noi affermiamo colla maggior sicurezza, che un infermo è pazzo di amore,
di collera, di vanità, di superstizione, non è l'istinto isolato che noi
consideriamo, non è la forza dell'azione che noi misuriamo; giudichiamo il
demente col ritmo de' nostri sentimenti, e lo troviamo sì traviato, talmente
fuori della natura, che gli è impossibile di vivere, che convien vegliare sopra
di lui, che dobbiamo togliergli la libertà, che, in una parola, lo sentiamo pazzo,
non per l'eccesso o per il difetto, ma per il disordine della sua ispirazione.
Non potendo caratterizzare la follìa dell'istinto isolato, la teoria morale non
può dunque giudicarlo se non prendendo l'istinto quale si sviluppa colle idee,
voglio dire colla realtà, col sistema delle nostre credenze, e allora ricadiamo
necessariamente nella teoria intellettuale. Qui giudichiamo la follìa colle
nostre idee: la follìa si confonde coll'errore e col delitto; noi confondiamo
il delinquente col mártire, l'alienato di mente col profeta, la pazzia
coll'ispirazione, l'entusiasmo coll'alienazione mentale; e i caratteri che
separano la follìa dallo stato regolare della vita ci sfuggono di nuovo.
La
indecisione della teoria morale si riproduce quando vuol determinare le cause
della follìa. Classificare gli alienati secondo le passioni, imputare alla
collera o all'amore il disordine della mente, penetrare nel labirinto degli
istinti, nel caos della vita, che varia d'epoca in epoca, che presenta un
numero indefinito di fasi correlative alla varietà delle cose, che risvegliano
la rivelazione interiore, è un fermarsi ad indicazioni empiriche, assolutamente
spoglie d'ogni valore scientifico. In quella guisa che l'arida nomenclatura
degli istinti non spiega alcun eroe nella storia, alcun uomo nella società, non
ispiega neppure il disordine indefinitamente variato che si manifesta nelle
malattie della vita. Possiamo forse dominare Luigi XIV colla teoria frenologica
delle passioni? No; convien vederlo sul trono di Francia nel decimosettimo
secolo, conviene interrogarne le idee allora s'intende l'uomo. Per una
conseguenza naturale gli istinti non rendono ragione della follìa, conviene
interrogare le idee del demente, e allora si ricade nella teoria intellettuale.
La cura della
follìa nella teoria morale è naturalmente dettata dal principio astratto
dell'ordine morale. Che sono, per questa teoria, gli istinti? Sono forze di cui
essa misura gli effetti meccanici; essa si preoccupa di coordinarle, di evitar
l'urto, di sopprimere il male; essa è morale, e pertanto considera la follìa
come un vizio, che devesi reprimere con mezzi meccanici. Gli antichi manicomj
erano vere prigioni, ove incatenavansi gli ammalati, battevansi, punivansi
della follìa, quasi fosse un peccato. L'idea di reprimere la follìa è forse
scomparsa? Regna ancora. Qualunque siano le intenzioni del medico, l'umanità
dei costumi, le teorie sull'alienazione mentale, il sentimento è più forte del
pensiero; e l'uomo che governa i pazzi è trascinato dalla forza stessa del linguaggio
ad ammonirli come orfani. Nei guardiani l'istinto è più forte del dovere; essi
malmenano gli alienati, oppongono risolutamente l'ordine al disordine, il bene
al male; e il direttore del manicomio può appena mitigare l'inevivitabile
brutalità della repressione. Insomma, l'alienato è prigioniero. Questa cura è
benefica? È inevitabile, ben diretta, è utile, ma per ragioni affatto estranee
alla teoria morale della pazzia. Perchè reprimere il demente? per qual ragione
la repressione può ricondurlo alla misura del senso comune? La teoria morale lo
ignora.
Abbiamo
mostrato l'impossibilità di spiegare la follìa colla fisica, coll'intelligenza
e colla morale. Se cercasi l'origine negli organi, non si trova: se cercasi
nella mente, la pazzia è un mero errore; se cercasi astrattamente nell'istinto,
è il difetto o l'eccesso di una forza che non può essere misurata. Le tre
teorie sono egualmente impotenti nel determinare i caratteri, la causa e la
cura della follìa; la loro impotenza è tale, che non ci venne fatto di
scoprirle nella purezza loro filosofica, in alcun scritto di medicina: i medici
sono troppo preoccupati della pratica per lasciarsi traviare dai tre principj
astratti, quindi avanzano a caso, confondendo i tre principj; costanti solo nel
non veder mai la malattia della vita là dove si trova. Ma se i medici non sono
esatti, i filodofi lo sono; e se i filosofi rifuggono quasi tutti
dall'affrontare il problema della follìa, la logica lo vuole sciolto dai loro
sistemi meccanici colle tre soluzioni indicate, che noi crediamo istoricamente
più vere che non la storia stessa della scienza. Ebbene, poichè abbiamo dato
alle tre teorie un'espressione rigorosa, spingiamole alla loro ultima
conseguenza; esse condurranno a tre metafisiche distinte.
La teoria
fisica, se vuol essere completa, dovrà transire dal disordine organico al
disordine mistico; se essa vuole la pazzia nel corpo, dovrà mostrarla nel
corpo, dovrà dare la mano alla metafisica materialista, che rende eguale il
pensiero ad una secrezione cerebrale, al contrarsi dei nervi, ad altri fatti
stabiliti come apparenze prime, e quindi dominatrici. A che s'impegna una
simile teoria? S'impegna a trovare la ragione per cui il fisico divien morale,
per cui il cervello divien pazzia, per cui una sostanza diviene una data
qualità. In altri termini, la teoria fisica si trova impegnata a sciogliere la
contraddizione eterna del fisico e del morale, che può tradursi nell'altra
contraddizione della qualità e della sostanza, e che si traduce nell'ultima contraddizione,
nella quale noi troviamo la follìa in pari tempo fisica e non fisica.
Lo stesso si
dica della teoria intellettuale; se ne trovano traccie in Malebranche, in Locke
e in altri: benchè i congegni e gli espedienti siano variati, tutti fan capo al
problema seguente. In qual modo l'errore prende l'apparenza della follìa? In
qual modo si transisce dal falso al morboso? Qui l'errore è l'apparenza prima;
deve dominare le altre apparenze, deve darci la transizione alla follìa. Ne
nasce che la follìa diventa per gli uni un'associazione invincibile di idee,
per gli altri una sventurata associazione; poi come l'ultimo che, il
quale separa l'errore dalla demenza, non è mai nell'errore, siamo condotti
finalmente dinanzi all'eterna contraddizione, per la quale la follìa è un
errore senza essere un errore, contraddizione che erasi presa per un problema.
Dobbiamo
ripetere lo stesso della teoria morale. Per la teoria morale una volontà è
inferma, convien quindi transire dalla volontà alla sua infermità: per esempio,
dalla malinconia allo invincibile spleen dell'alienato: la volontà
diviene dunque apparenza prima, deve dominare tutte le altre apparenze,
generare logicamente quanto oltrepassa la volontà stessa, quanto la fa essere
morbosa, traviata, ammalata. Ora, la transizione non è guari possibile. La
volontà resta la volontà; ogni istinto resta quello che è; nè può alterarsi per
opporre a sè stesso la propria degenerazione. Che ne nasce? la teoria morale
s'identifica con un dogma, autorizza il fanatismo; e vediam medici sagaci nella
pratica, avventati nella teoria, chiedersi sul serio se i loro avversari in
politica e in religione meritano di essere rinchiusi nell'ospedale de' pazzi:
se gli errori che combattono non sono l'effetto di una volontà pervertita e morbosa.
Poi ci troviamo dinanzi a questa contraddizione eterna, che la follìa è nella
volontà senza essere nella volontà; e così troviamo la teoria morale
trasformata in uno sforzo per aprire un'uscita alla terza antinomia
dell'alienazione mentale.
La follìa sfugge
alle sue antinomie e alla metafisica che la travisa, se si domina coll'organo
che la percepisce, voglio dire coll'intuizione della vita. Noi non possiamo
descriverla, non possiamo trovarle una formola meccanica, per la stessa ragione
che non possiamo descrivere nè l'arte, nè il ridicolo. Pure noi sentiamo la
pazzia come si sente il ridicolo; e il momento in cui la pazzia si dichiara, è
quello in cui la rivelazione interiore cessa di corrispondere alla rivelazione esteriore. L'uomo che ride, che piange, che
ama, che odia senza motivo, senza proposito, l'uomo orgoglioso o umile,
temerario o tremante, giulivo o mesto, senza che l'ambiente in cui vive
giustifichi il ritmo delle sue passioni, senza che nessuno in sua vece possa
provare gli stessi sentimenti, si trova fuori del senso comune, è alienato. La
pazzia è una specie di travestimento, una maschera, in cui si mette in
contraddizione la vita colle cose; essa è ridicola come tutti i travestimenti,
in cui trovasi quell'aspettativa fallita, quella subita indecenza, quella
mancanza di misura esterna che desta il sentimento comico. Chi giudicherà
dunque la follìa? Noi stessi, ogni uomo; basta esser uomo per indicare la linea
che separa la vita regolare dalla demenza; basta consultare il nostro intimo
senso per intuire il senso leso, fatta astrazione da ogni dogma, da ogni
religione, dall'immensa varietà de' sistemi che rendono gli uomini non
riconoscibili gli uni agli altri. A prima giunta, quando ci decidiamo ad
imprigionare il demente, sembra che facciamo atto d'intelligenza. Il nostro
discorso, sempre esterno, spiega il nostro ritmo vitale colle cose esterne.
Giudicando il pazzo, ripetiamo le sue parole, le sue azioni, raccontiamo le sue
stravaganze, insistiamo sugli errori suoi, sulle sue visioni; crediamo di
dominarlo colla verità. È un inganno. Gli errori e le stravaganze del demente
possono trovarsi nella vita regolare: si può attendere un Messia, o credersi
Dio senza essere infermo di mente: tutto può essere giustificato; la saggezza
può sembrar pazzia, la pazzia saggezza. Ma la rivelazione interiore scansa
l'astratta possibilità del vero e del falso, del bene e del male, e ci mostra
nel discorso del pazzo il disordine del ritmo vitale. Mille volte prodighiamo
l'epiteto di pazzo; or bene, le manie che ci rendono attoniti, la pazzia delle
passioni, la breve follìa dell'ira (furor brevis), non sono
giudicati se non dal ritmo naturale dei nostri istinti. Così, in tutte le sue
fasi la follìa non si definisce, sentesi come il bello e il brutto, come il
serio e il ridicolo, non si dimostra mai, è tutta nella poesia della vita.
L'errore non è nemmeno necessario a costituire la follìa; basta che l'uomo sia
soggiogato da un'inerzia, da una tristezza invincibili; basta che il furore lo
trasporti suo malgrado, che sia spinto all'assassinio da una frenesia in cui
appare un fato irresistibile, e la malattia si palesa evidente per la mancanza
di correlazione tra la vita e le cose. Che l'inerzia, il furore, l'omicidio
abbiano i loro motivi in relazione colle cose, vedremo il vizio, il delitto; il
furore, la follìa svaniranno.
I diversi
fenomeni che si osservano nella pazzia, ce la mostrano sempre nella rivelazione
della vita. Quasi tutti gli alienati cambiano d'affezioni; il demente aborre le
persone che loro erano più care; per guarirlo bisogna toglierlo alla famiglia:
ecco l'interversione degli istinti. Può ricevere un'altra spiegazione; fu
osservato che gli sforzi della famiglia per contenere l'infermo devono
irritarlo, estinguere le sue affezioni. È vero: la resistenza lo cambia; ma il
suo cambiarsi segue la legge della vita; tolto lo sviluppo diretto della
passione, si ha lo sviluppo inverso, compresso il bene, il bene intervertito
diventa il male. D'indi l'odio, il furore, la mania del male, e tutti i germi
dell'ordine intervertiti nel pazzo.
Tra i
fenomeni della pazzia si osserva la facilità di far meravigliare il pazzo, di
distrarlo, d'impressionarlo: ciò debb'essere: egli vive fuori dalla realtà, in
un mondo imaginario; ogni scossa lo richiama presso di noi, ed è sorpreso di
quanto accade nel mondo reale, nuovo per lui, consueto per noi. E quando divien
difficile guarir la pazzia? Quando il demente trovasi confinato nel suo mondo
imaginario dalle circostanze stesse che accompagnano la pazzia. Così
l'allucinazione è funesta, perchè usurpando il luogo della realtà, mantiene il
falso ritmo; e una falsa realtà tien viva di continuo una falsa vita.
Riesce
difficile il guarire la mania raziocinante, quella che s'ingolfa nelle materie
religiose e filosofiche: ed è che in essa la realtà, l'evidenza del fatto
manca; il pazzo non trova ostacoli per trascorrere negli abissi dell'errore, la
rivelazione degli esseri non può rettificare il falso sviluppo della
rivelazione vitale.
Anche la
follìa determinata dalle cause organiche, dai vizi della conformazione del
cranio o da un organismo generatore di accessi intermittenti, è malagevole a
guarire: nel fatto, in qual modo rettificare un ritmo mistico radicalmente
falsato nel suo apparecchio organico?
Qualche volta
la pazzia eccita le facoltà, e presta al demente alcune doti che svaniscono
quando risana. Nulla di più naturale. Il genio non è nell'intelligenza, dipende
dall'ispirazione, dalla poesia, dagli istinti, dall'irradiazione della vita
interiore. L'irritazione del sistema mistico potrà dunque produrre i fenomeni
che simulano i caratteri del genio. D'indi le astuzie dei maniaci, la sagacia
de' monomani, la momentanea elevazione d'alcuni alienati; il ritmo vive,
sopravvive nel pazzo: è falsato, corrisponde ad un mondo che non è il nostro,
ma corrisponde ad una realtà fantastica in cui si riproducono travisati tutti i
fenomeni del mondo reale. L'intelligenza serve dunque alla follìa come serve
alla vita regolare: sempre dominata, senza mai dominare, si sviluppa
invariabile nel suo procedere, attuando l'istinto, sia desso integro o leso.
Del resto, il talento del pazzo è un immagine del vero talento, nè lo spedale
de' pazzi ha dato alcuna invenzione, alcun concetto che potesse guidare
l'umanità. Prima tra le condizioni del genio si è la correlazione del ritmo
mistico colla rivelazione degli esseri, e se questa condizione manca, l'uomo
non pensa per questo mondo.
Se la follìa
è nella vita, nella vita dovremo trovare tutte le cause della follìa. Le cause
fisiche, cioè le disposizioni ereditarie, l'eccesso del caldo o del freddo,
gettano nel delirio, disordinando l'apparecchio fisico del nostro sistema
ritmico. L'apparecchio si sottrae alla vista, pure esiste, lo si vede nelle
funzioni più rozze, nei nervi, nel cervello; e pertanto, disordinata la
macchina delle passioni, il ritmo della vita deve essere falsato.
Le cause
morali conducono alla pazzia, turbando le proporzioni interne e inesplicabili
della vita; un fallimento, una sciagura mutano di repente l'ambiente in cui
viviamo, e il mutamento esterno potrà falsare la vita. Una passione irritata,
l'eccesso dell'amore, dell'ambizione, alterano già i valori delle cose, ci
fanno vivere, non nel mondo, ma in una parte del mondo; e la minima catastrofe
ci mette in disaccordo colla realtà esterna, presa nel senso più alto e ci
spinge fatalmente sul pendio del delirio.
Vi sono
alcune cause da cui la follìa può essere artificialmente generata. Quali sono?
Precisamente quelle che falsano la correlazione tra la vita e le cose. Si imiti
la pazzia, sia simulata per qualche mese; la mimica, che áltera volontariamente
il rapporto della vita colle cose, finirà per traviare la ragione: spesso i
prigionieri, volendo sfuggire alla pena, fingonsi pazzi, poi cadono nella
pazzia. - Si coabiti coi pazzi; l'espressione esterna della follìa prima
offende, poi disordina il ritmo della vita. Il perchè i custodi de' pazzi sono
esposti ad eccessi di pazzia. - L'abitudine dell'ubriachezza produce lo stesso
effetto; l'ebbrezza è il delirio momentaneo spesso ripetuto; falsa il ritmo e
la correlazione della vita colle cose. Lo stesso si dica dell'isolamento de'
prigionieri; qui la realtà esteriore è scemata, lo spettacolo della vita è
soppresso, l'uomo rimane colla sua propria ispirazione, senza correlazione,
senza punto d'appoggio, senza che l'esempio rettifichi le sue abitudini, e la
pazzia invade il prigioniero.
I caratteri
predisposti alla pazzia sono quelli in cui il ritmo trovasi sul pendio del
disordine. L'eccessiva leggerezza, la bizzarria, l'esaltazione puerile, non
possono dominare il sistema meccanico della realtà; inconsistenti, si lasciano
dominare dalle cose; in essi il valore degli oggetti trovasi già falsato, le
attrazioni naturali che fissano gli istinti trovansi già alterate; il ridicolo,
questo fatale indizio della follìa, si palesa; e al minimo urto il sistema
della vita rimane scosso.
Il genio
stesso non si preserva dalla pazzia; è noto il proverbio: nullum magnum
ingenium sine dementia. Il genio non è nell'intelligenza, ma
nell'ispirazione: privilegiata nel genio, originale nel poeta, essa può passare
alla follìa facilmente, come si passa dal sublime al ridicolo. La transizione è
facile quando il genio è inventore, e quando l'invenzione lo trasporta in un
nuovo mondo per farlo vivere nel mezzo della sua utopia. Le sue idee possono
allora fare le veci dell'allucinazione, falsare la correlazione del sentimento
colle cose: una sventura, un'ingiustizia subita, una catastrofe, disordinano la
ragione; ed è allora che il genio conduce alla follìa.
Le migliori
cure della pazzia sono quelle che pervengono a ristabilire il rapporto regolare
tra il ritmo della vita e la rivelazione esterna imponendo rigidamente
all'infermo il fatto della realtà. L'uomo che applica con maggior successo
questa cura, M. Leuret, si fonda su di una falsa teoria; parte da un dato
intellettuale; ripone la salute nel complesso ragionato delle nostre idee,
confonde la pazzia coll'errore. Quando cerca la linea che separa la mente sana
dalla demenza, non la trova; e dimanda se sia demenza l'aspettare il Messia:
ripone Ezechiele, Mosè e santa Teresa fra gli allucinati; ne trova alla
Salpetrière i tipi corrispondenti: e non avremmo che a dedurre le ultime
conseguenze di questa teoria per rilegare alla Salpetrière Hegel, Malebranche e
Platone; che dico? l'umanità tutt'intera che ammirava Ezechiele, Mosè e santa
Teresa, o profeti più allucinati. M. Leuret non afferra la teoria, pure la sua
pratica devesi approvare; la sua cura consiste nell'assalire direttamente la
pazzia, opprimendola sotto il peso del senso comune. Egli sforza l'alienato a
imitare meccanicamente il senso comune; lo scuote ne' suoi capricci, gli
applica le doccie per costringerlo a rinnegare i propri errori; lo ricompensa,
lo incoraggia al primo passo verso la verità. M. Leuret non vuole che
s'impieghino le rappresentazioni teatrali; in esse il medico, dice egli, si
lascia dominare, si lascia sedurre (il se laisse prendre); la
pazzia signoreggia la realtà, la malattia si fortifica. Invece egli applica la
confutazione diretta colla parola, colla derisione, d'animo freddo, e da ultimo
colla doccia. Il suo scopo è di rompere il sonnambulismo dell'ammalato. Appena
l'ammalato comincia ad ondeggiare tra il sogno e la realtà, la guarigione è
facile, il medico ha solo a compiere la conversione, la realtà riprende il suo
ascendente naturale, e l'infermo è liberato nel momento in cui la realtà non ha
più bisogno dei mezzi artificiali dell'ospizio per dominarlo. Che fa, in ultima
analisi, questa cura? Colla repressione rettifica il ritmo della vita, ne assale
esternamente le deviazioni; poi, quando l'ammalato dubita, quando sospetta la
realtà, o piuttosto quando vacilla tra le valutazioni fittizie della follìa e
le valutazioni ordinarie della vita, quando la vita comincia a diventare
accessibile alla vita, allora la derisione, il consiglio, la natura compiono la
guarigione. In qual modo si determina l'istante della guarigione? colla realtà?
No, coll'intuizione del sistema mistico, perchè quando trattasi della poesia
dalla vita non si definisce la salute meglio della malattia.
Ho parlato
del pazzo per parlare dell'uomo sano di mente: la scienza dei contrari è sempre
la stessa; chi conosce la malattia, conosce la salute. Che cosa è dunque l'uomo
non alienato di mente? È l'uomo in cui la vita non è viziata; in altri termini,
l'uomo che gode del senso comune. Dunque si determina il senso comune colla
vita, e non coll'intelligenza. La stessa denominazione di senso comune, di
sentimento universale, ci indica che nella vita devesi cercare la salute
intellettuale, La perfezione del senso comune chiamasi buon senso, cioè
sentimento retto, vita sicura, e naturalmente bene ispirata. Il senso comune ed
il buon senso non sono negli assiomi, dove la scuola di Reid voleva cercarli.
L'intelligenza, gli assiomi, la ragione, sono gli istromenti della vita, del
senso comune, del buon senso, del sistema mistico. Trovansi egualmente dominati
dal pazzo e dal savio: il pazzo ragiona, accetta gli assiomi, è sottile,
ingegnoso, può essere sublime; quanto gli manca si è la rettitudine del senso
interiore, la regolarità della rivelazione vitale. I suoi istinti sono falsati,
egli falsa tutti gli interessi, tutti i valori: la falsificazione lo getta in
un mondo imaginario; non può più intenderci; le comunicazioni tra i due mondi
sono intercette, non dall'errore, non dall'intenzione perversa, ma da un che
d'inevitabile e di fatale nella vita. Istessamente noi abbiamo la nostra
ragione; perchè? Non possiam dirlo. Noi saremo Buddisti, Mussulmani, Cristiani;
crederemo ai dogmi più opposti, ai principj più contraddittorj; pure ci
riconosciamo tutti vicendevolmente il senso comune, ogni qualvolta noi
riconosciamo la realtà del ritmo vitale. Talora la regolarità ci sfugge velata
dalla nostra ignoranza. Se raccogliamo le stravaganze religiose di tutti i
popoli, riprovate dalla nostra maniera di giudicare, negheremo il buon senso al
genere umano. Non conoscendo l'insieme di ogni religione, i suoi motivi, le sue
necessità, i dogmi smembrati ci sembreranno l'opera di menti inferme. Tale fu
considerata nel secolo decimottavo la storia delle religioni. Rendete alla
storia tutti i suoi elementi, non mutilate alcun dogma; la follìa svanisce; e
noi sentiamo la vita universale che ci anima, e che ci fa appartenere ad una
stessa specie, non ostante l'estrema dissonanza dei dogmi.
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