Capitolo IV
L'UTILE DETERMINA IL DOVERE
La rivelazione
morale si manifesta egualmente nella giustizia, e nell'ingiustizia trovasi
egualmente nella società e sulle galere: il cinismo si sacrifica quanto il
pudore; l'uomo che si vendica, s'immola alla sua opera; il vizio può essere
libero, meritorio quanto la virtù. Cesare Borgia ha il suo punto d'onore quanto
Washington, Erostrato è più disinteressato di Napoleone, don Giovanni, che non
paventa l'inferno, è più eroico di sant'Agostino, che conta sul paradiso. Fin
qui l'obbligazione e le tre condizioni della libertà, del merito e della
sanzione, riduconsi a una maniera d'orgoglio o di dignità che ci impongono di
conservare la nostra volontà, di persistere nel nostro interesse, a dispetto
della morte. Dopo verificata la rivelazione morale ci rimane di determinare il
dovere: qual'è adunque il principio che vincola l'animo nostro alle formole
della giustizia? Il vincolo dell'utile.
Nessuno ci
contesterà che, soppresso l'utile, svanisce ogni dovere. Il delitto scompare
quando non nuoce ad alcuno, anche la virtù scompare quando non serve a nulla.
Quali sono le più grandi scelleraggini? Le più nocive, quelle che recano
maggior danno alla società,! Quali sono le più grandi virtù? Le più utili, le
più profittevoli all'umanità. Esageriamo il sacrifizio, prodighiamolo negli
atti più indifferenti, cadremo nel fanatismo de' devoti, negli scrupoli de'
dementi, nella pazzia. Se fossimo tutti fisicamente insensibili e moralmente
invulnerabili, saremmo sciolti da ogni dovere, e non avremmo alcun diritto.
Così la legge del sacrificio è provocata dall'interesse, si sviluppa
coll'interesse, e cessa quando cessa l'interesse: come dunque misurare la
giustizia, se non coll'utile? L'utile è l'antitesi della giustizia, e in pari
tempo è il solo termine che possa misurare la tesi naturale del giusto; nella
stessa guisa, che le tenebre misurano la luce, la malattia misura la salute,
gli oggetti immobili misurano il moto.
Si dirà:
«L'interesse è capriccioso, non può imporre alcun precetto; libero nella scelta
del piacere e del dolore, in qual modo potrebbe vincolarsi ad un dovere? Ora
l'interesse perdona, ora si vendica: ora ama, ora odia: determina i doveri?
potrà determinare due doveri contradditorii, due morali che si escludono a
vicenda?» No; l'interesse non è capriccioso; ma fatalmente prestabilito della
natura. Noi non siamo i signori del mondo, non siamo gli inventori della nostra
organizzazione: la natura ci forma, ci domina; dispensa il piacere ed il
dolore, la letizia e la tristezza: è la natura che spinge l'uomo alla famiglia,
la famiglia alla società; che crea l'industria, il commercio, i mille bisogni
de' popoli inciviliti. Dunque l'interesse è fatale, più forte della ragione,
più potente della volontà: e il fato dell'interesse determina la serie dei
doveri, e trasforma la dignità vaga e generale dell'orgoglio nella dignità
della giustizia e nell'orgoglio della virtù. I pretesi capricci dell'interesse
riduconsi ad un'ipotesi dialettica. Sotto l'aspetto delle astratte possibilità
tutte le passioni possono intervertirsi; si può ondeggiare tra l'odio e
l'amore; possiamo chiederci se conviene consolidare o sciogliere la società,
soccorrere o perdere i nostri simili; dinanzi al possibile il male diventa
bene, e il bene male. Dinanzi alla realtà le astratte possibilità scompaiono,
le inversioni conducono alla pazzia, e la rivelazione morale segue lo sviluppo
diretto degli istinti. Spetta dunque all'interesse naturale, e quindi generale,
il misurare la giustizia.
Una nuova
obbiezione si presenta. «Se la rivelazione morale segue passo passo il nostro
interesse, essa varierà secondo gli interessi stessi: i principj della
giustizia saranno mutabili come le circostanze, il clima, l'incivilimento; la
virtù potrà diventare il vizio, e il delitto potrà essere rispettato come la
virtù». È quanto succede; ma l'accusa non cade sopra di noi, cade sulla natura.
Senza dubbio ogni ordine politico impone un ordine morale, ogni situazione
determina i suoi doveri; havvi la guerra tra le religioni, tra le civiltà; la
morale di Platone non è quella dell'evangelio, la legge di Cristo non è quella
di Platone. Che dedurne? Che nessun uomo è tenuto ad essere superiore alla
propria rivelazione. Gli uomini e i popoli devono obbedire alla legge che
trovano nell'intimo della loro coscienza: sarebbe puerile il giudicare Achille
coi dettami dell'evangelica umiltà; tentatelo; cadrete nel ridicolo inevitabile
della parodia.
Spetta al
secolo decimottavo il vanto di avere indicata la vera misura della giustizia;
la teoria dell'utile, annunziata da Locke e perfezionata da Bentham, aveva solo
il difetto di dimenticare il principio stesso che supponeva. Supponeva
l'ascetismo, lo invocava: non istabiliva forse per principio l'interesse
naturale e generale? l'interesse generale non suppone forse l'abnegazione
nell'individuo che ne partecipa? questo sacrifizio non giunge forse fino alla
santa contraddizione del sacrificio intero dell'interesse? Supposta la legge
del sacrifizio, la teoria dell'utile misurava i doveri, riformava le antiche
leggi, mutava l'aspetto della società, precisa ed esatta quanto la meccanica,
essa fu applicata da uomini che rinnovavano l'entusiasmo degli antichi apostoli
di Cristo. I teologi e i metafisici l'hanno confutata fieramente, le hanno
rimproverato con amarezza la soppressione del principio obbligatorio volevano
sottinteso che incoraggiasse le passioni, la sovversione della società.
L'inganno è patente, si assalivano i meriti più che i difetti della teoria
dell'utile, troppo odiosa perchè consacrata dalla rivoluzione. Il vero difetto
della teoria non poteva essere scorto nè dai teologi, nè dai metafisici,
consisteva nel trascorrere verso la metafisica, nel cedere al falso impulso
delle equazioni di Locke, di David Hume e di Condillac. Stabiliva l'utile come principio
primo, come apparenza prima, col diritto di spiegare tutte le apparenze. Ne
nasceva che dovevasi trarre dall'utile l'antitesi stessa del sacrifizio; quindi
ogni apparenza nella quale si manifesta il consacrarsi dell'io ad un interesse
universale, doveva sorgere dall'amor proprio, essere un interesse mascherato,
un sentimento egoista, divenuto antie-goista per illusione, per errore, per non
so quali metamorfosi che la dialettica utilitaria svolgeva parallele a tutte le
metamorfosi della sensazione diventata memoria, giudizio, sentimento, ragione,
natura, e anche Dio, se occorreva. Calunniavasi la natura umana supponendola
teoricamente peggiore più che non è; ma la calunnia perdevasi nella metafisica,
e toccando terra, la teoria reclamava poi che l'uomo fosse assai migliore che
non era. E convenne cederle, e convenne accordarle che il nobile è un uomo; che
il prete è un uomo; che una stessa legge deve governare tutti i cittadini; che
il re è una finzione; che la legge deve badare solo all'utile della società;
che gli utili trasmondani sono vaneggiamenti, falsi valori a sbandirsi dalla
legge; che il protrarre l'espiazione al di là della misura dell'utile è
infamia; che il sottomettere ogni delitto terrestre all'espiazione voluta dal
Dio cristiano è perversità sciagurata e stolta. Questi sono i meriti della
teoria dell'utile, che sopprimeva le mani morte, i fidecommessi, i maggioraschi
e gli altri baluardi del clero e della nobiltà; combattendo sempre a nome
dell'interesse pubblico, e poi immedesimandosi con tutte le scoperte
dell'economia politica, perchè ogni utile concetto fosse attuato nel seno
dell'Europa, troppo lungamente illusa dalle chimere di un bene, nel cui
nome si desolava la terra. Se l'eclettismo francese, se tanti professori, in
mezzo alla dottrina loro egoisti e servili, avessero detto tutto il vero sulla
teoria dell'utile, noi applaudiremmo senza amarezza; ma dicono il male, taciono
il bene, sottilizzano, tolgono un errore metafisico affinchè s'inciampi in
un'altra metafisica, la quale spinge diritto all'inciampo massimo della
religione e quei che predicano il principio della giustizia sono quelli che
guidano all'ingiustizia.
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