Capitolo V
LA MORALE E UN'OPERA DI POESIA
E DI SCIENZA
Il diritto si
fonda sulla coscienza e si misura coll'utile; esso è dunque un'opera di
ispirazione e di calcolo.
L'ispirazione
giuridica non può essere descritta direttamente; si sente come le altre
ispirazioni; la parola non può indicarla se non per mezzo di metafore e di
figure. Dunque, il poeta è il testimonio privilegiato, l'interprete naturale
dell'ispirazione giuridica; solo egli afferra la poesia della vita, e pertanto
solo può afferrarne l'antitesi giuridica: signoreggia le armonie della
felicità, quindi svela necessariamente le armonie del sacrifizio. Sciolto da
ogni vincolo reale, libero di creare gli eroi, d'inventare un mondo fantastico,
dipinge la vita meglio dello storico, e pertanto sviluppa la rivelazione morale
più veracemente dello stesso legislatore. In lui questa rivelazione si svela
fatalmente e involontariamente a tal punto, ch'egli, testimonio del diritto,
può ignorare la legge che descrive. Gli è così che il Ramayana, l'Iliade e la
Divina Commedia sono i più grandi monumenti dell'ispirazione giuridica. Siano
direttamente interrogati, non vi si troverà alcuna legge, alcun dettato
giuridico; i minuti particolari dell'antica legalità vi saranno assolutamente
soppressi, se vi si incontrano sarà a caso, e non c'istruiranno. Il frammento
di una legge antica sarà più esatto che la più sublime delle epopee. Ma la
poesia ci mostra la coscienza dei popoli, l'entusiasmo della giustizia, la
forza dei principj, e quel furore di sacrifizio che precipita i popoli alla
guerra, alla morte per difendere il diritto.
Grozio cita
di continuo i poeti, adorna le sue dimostrazioni colle massime degli antichi;
si sforza di mostrare che i poeti confermano il suo dire, che il genere umano
ha sempre approvato le sue dottrine. Il concetto era profondo; il metodo falso.
Interrogata materialmente la poesia, dà responsi contraddittorj o
insignificanti; invece di mostrare l'umanità del genere umano nelle idee del
giusto, mostra la guerra universale dei dogmi ed i diversi diritti che ne
scaturiscono. Grozio entrava senza guida in un labirinto senza uscita; le sue
citazioni poetiche, lungi dall'illustrare la sua dottrina, l'avrebbero oppressa
se non fossero state scelte a disegno, vale a dire con mala fede letteraria,
giustificata da un errore scientifico. Il libro di Grozio, spinto alle ultime
conseguenze nelle autorità e nella teoria, nelle note e nel testo, metterebbe
in contraddizione la poesia e la giustizia, l'autorità del genere umano e le
dimostrazioni della ragione. Da un lato ci mostrerebbe la poesia variabile,
inconsistente, senza fermezza, senza coerenza; dall'altro lato, ci mostrerebbe
l'astratta giustizia, ignorata, rinnegata dai legislatori e dai poeti
dell'antichità e de' tempi di mezzo; i quali certamente non avevano i concetti,
nè la ragione, nè la dottrina del primo fondatore del diritto delle genti. I
poeti che Grozio invoca distruggono la sua teoria. La poesia, lo ripetiamo,
deve essere interrogata solo dal sentimento, dalla poesia stessa che ci anima
ed istruisce solo colla bellezza, fatta astrazione dall'intento, dalla scienza
e dalle stesse massime del poeta. Allora il diritto si rivela uno, coerente,
ammirando; allora Walmiki, Omero e Dante ci presentano le tre grandi armonie
morali dell'India, della Grecia e del medio-evo. L'Iliade ci fa intendere l'ira
di Achille e il diritto eroico, nè può spiegare l'una senza svelare l'altro.
Questo diritto è barbaro, contrario alla nostra giustizia; eppure la bellezza
lo consacra; Omero c'insegna la rivelazione morale dei tempi. antichi. I testi
delle leggi vetuste avrebbero potuto porgere notizie più copiose, più fide,
avrebbero potuto atteggiar meglio gl'interessi eroici, il sistema dei premj e
delle ricompense, l'ordine esterno e meccanico della vita greca. Ma la vita
stessa ci sarebbe sfuggita.
Finchè
trattasi di verificare la forza morale, il poeta è il solo testimonio
dell'ispirazione giuridica. Dobbiamo determinare le nostre azioni? Allora
convien misurare gli interessi, che non si estimano se non col calcolo
meccanico; conviene comandare alcune azioni, vietarne altre, convien disporre
della forza pubblica, minacciar pene, prometter premj. Qui l'ispirazione non
basta, è vaga, è incerta. Il legislatore deve farsi politico, economista, deve
fondarsi sul mondo visibile se vuol governarlo. Quindi il legislatore obbliga
coll'ispirazione, comanda col calcolo; coll'ispirazione vincola la coscienza,
colla scienza domina l'intelletto. Quindi nel momento in cui propone la sua
legge, è sempre poeta e scienziato. Egli è poeta perchè parla alla coscienza di
giustizia, di gloria e di onore, cerca di commuovere; in pari tempo è
scienziato, perchè deve dimostrare in un modo positivo e meccanico la necessità
della sua legge.
La scienza
del legislatore non sarà mai se non la scienza dell'utile. I principj del vero
e dell'ordine su cui si fondarono tanti moralisti, intervengono nella morale
subordinati all'utile. Perchè la morale invoca il vero? Perchè il vero è utile,
e c'interessa. L'interesse non è il piacere d'un istante; è il complesso de'
nostri piaceri; deve abbracciare la vita, comprenderne il disegno; quindi deve
fondarsi sul vero; quindi il vero non misura la giustizia se non per mezzo
dell'interesse. I teologi dicono che la morale dipende dal dogma: perché?
Perchè il nostro interesse dipende dal dogma. Se io credo ad un Dio
vendicatore, che minaccia eterne pene, questo Dio, queste pene, queste due
realtà costituiscono il mio interesse supremo, e mi dettano tutti i miei
doveri: io son servo della religione, non posso più trascurare la più frivola
delle sue pratiche. Che se il buon senso si desta in me, e m'apprende che il
Dio vendicatore e le pene infinite dell'inferno son sogni di secoli barbari, il
nuovo dogma costituisce un'altra morale, che sarà quella dei naturali
interessi.
Quanto si dice del
vero può applicarsi al principio dell'ordine. L'ordine è il calcolo
dell'interesse, l'interesse pone lo scopo, la ragione determina a mezzi per
raggiungerlo: questo è l'ordine. Per sè, l'ordine non è la morale; è un
calcolo; havvi l'ordine nel bene, come nel male; nella libertà, come nella
tirannia. Ma l'interesse naturale pone lo scopo, sceglie il suo bene, l'ordine
suo; e questo fissa e determina i doveri. In questo senso si può dire che,
tolto l'ordine, la moralità scompare. In questo senso dobbiamo ripetere con
Socrate: «Esser più morale lo scellerato che scientemente viola la legge, che
non l'innocente il quale obbedisce ignorandola».
Opera di
scienza e di poesia, la morale resta sempre sempre interessata ed ascetica: in
ogni rivoluzione la morale ci si affaccia sotto due aspetti, la sua legge è
sempre interpretata da due rivelatori: l'uno valuta l'interesse, l'altro spiega
il dovere. L'uomo dell'interesse è preciso, categorico, ama la vita, l'esprime
liberamente; è ironico, imperativo, positivo, poi facile alle transazioni
poichè vuol vivere. L'uomo del dovere lo segue dappresso; questi è triste come
un mártire, iracondo, è poetico; disprezza la scienza, disdegna la precisione;
ma è più sicuro, più preciso della stessa scienza, perchè il cuore non gli
manca nell'azione. L'uomo dell'interesse ragiona; l'uomo del dovere inveisce.
Tale è il rivelarsi d'ogni nuova morale: nell'antichità troviamo prima la
dualità di Aristotele e Platone, poi di Epicuro e Zenone; nel medio-evo
scorgiamo Abelardo e san Bernardo; all'epoca del risorgimento la morale ispira
contrariamente Machiavelli e Campanella, poi nel secolo decimottavo scorgiamo
l'antitesi di Voltaire e Rousseau. Ma la riunione dei due tipi è necessaria per
formare l'insieme, in guisa che ci convien sempre ripetere il motto: scientia
sine charitate inflat, charitas sine scientia aberrat.
L'unione
della scienza e della carità si attua negli uomini di azione: senza
l'intelletto, senza la vita che li ispira, dove troverebbero la prontezza, la
rapidità del concepire, dell'operare e l'opportunità istantanea che li fa
essere i capi del popolo, i primi de' loro simili? D'altra parte, senza la
carità, senza la fede, apparterrebbero a sè stessi, non agli altri; non
sarebbero uomini d'azione. Quindi la dualità dei rivelatori svanisce
nell'azione; ogni grand'uomo all'opera è sempre doppio, intelletto e fede;
interesse e giustizia. L'unità vedesi nei fondatori delle religioni: Budda
fonda da solo il Buddismo, Cristo non ha eguali, Maometto non ha compagni nel
potere; lo stesso vale di Teseo, di Romolo, di Teuth, di Cecrope, tutti solitari
nella loro grandezza, senza che alcuno divida la loro gloria o dispieghi a
canto ad essi la rivalità di un contrapposto necessario a renderli compiuti.
Ciò che in essi trovasi necessario è l'unità. La politica e la poesia
riconoscono egualmente siffatta necessità. La politica dichiarava già con
Machiavelli esser mestieri all'uomo che fonda uno Stato o una religione di
esser solo all'impresa: il fato stesso del meccanismo lo vuol solo all'opera; e
Machiavelli citava Romolo, che si scioglieva da Remo e da Tazio: regola eterna
a cui il Cristo e Budda si conformano egualmente. È probabile che Teseo,
Romolo, Budda non abbiano mai vissuto: che importa? Sono figli della leggenda,
figli dell'epopea, e la poesia non s'inganna, essa pure vuole l'unità nell'uomo
d'azione. Essa non lo segue nella necessità meccanica che lo fa esser uno
all'opera; nè quando uccide Tazio o Remo, non lo segue nel lavoro materiale e
minuto, per cui stabilisce il suo io solo al cospetto del popolo, la poesia fa
di più; contemplando la civiltà nel suo procedimento, la vede una, la scopre
una, vede la fede e la vita, l'ascetismo e l'interesse, la carità e la scienza
congiunte nella civiltà; e il traslato che la fa essere opera di un artefice,
trasporta necessariamente all'artefice l'unità. - V'ha nella storia della
filosofia un momento solenne, come l'apparire di. una religione; è il momento
di Socrate: qui un uomo deve raccogliere le rivelazioni di tutte le scuole, e
sfidare sulla piazza di Atene gli Dei di tutta la Grecia. Ebbene, Socrate è
solo, nessuno lo compie; non incontra neppure un avversario che sia la sua
antitesi, è un uomo di azione, cioè intelligente e credente, vitale e disposto
al sacrifizio della vita. - Scorgesi quindi che il martirio non emana dalla
sola fede; è doppio come ogni atto solenne, deve essere un'azione intelligente,
giungere a tempo, nè prima nè dopo l'ora prestabilita nel corso de' secoli;
deve disegnare un nuovo sistema, e tracciarne il disegno con tal forza, che
resti nella mente di tutti, deve forse fuggire come Cristo inseguito dal popolo
perchè nulla manchi al previo lavoro, nè sia possibile allo sciagurato
trionfatore di allegare la scusa dell'ignoranza; Quando il pensiero è concetto,
disegnato, esposto, quando il profeta vivendo della sua vita naturale e
imperterrita, soggiace fatalmente alla scure senza che la vanità del morire lo
tragga al supplizio, allora il martirio si svela nella sua grandezza. Senza la
fede il mártire è un fallito; senza l'intelligenza è un infelice: e ognuno deve
esser giudice colla sua intelligenza, colla sua fede. Anche i carnefici? Si;
anch'essi devono sapere che toccano una persona sacra, assolutamente assorta
nel suo pensiero, assolutamente pura, sì che dinanzi al mártire che spira,
altro non rimanga al nemico se non di dire come gli Ebrei dinanzi a Cristo
spirante sulla croce: questo infelice voleva salvare il genere umano, e non
seppe salvare sè stesso.
L'unione
della carità e della scienza sarà sempre una contraddizione; la carità è una
follía per la scienza, la scienza un egoismo per la carità. I due termini si
accusano a vicenda: ma conviene accettare tanto il loro contraddirsi, quanto il
loro apparire. Volendo lottare contro l'antinomia che li strazia, si cade
necessariamente nella metafisica col lungo e interminabile dibattimento tra la
fede e la ragione. Il cristianesimo aveva inteso la realtà della fede e della
ragione, ed esigeva la fede e credevaosi vero. Quando si volle che il
cristianesimo divenisse logico e coerente in ogni suo punto, si volle la fede
conciliatacolla ragione: si considerò quindi la fede nelle cose credute, la
ragione nelle cose ragionate: la fede fu identificata colla leggenda cristiana,
la ragione colla scienza propriamente detta. Ma la leggenda e la storia, il
Cristo e la natura si contraddicevano, la contraddizione era positiva;
abbisognava una soluzione, e la soluzione era evidente; consisteva nel
respingere l'errore per seguire la verità, nel negare la leggenda per accettare
la storia. Per mala ventura la soluzione doveva esser data dalla metafisica,
ch'era la scienza del tempo; ma essa confuse la contraddizione positiva dela
leggenda e della storia colla contraddizione eterna della fede e della ragione.
Invece di negare gli errori del cristianesimo, cercò ad un tempo l'equazione
tra la leggenda e la storia, tra il Cristo e la natura, tra la fede e la
ragione. Talora spiegò la natura, la ragione colla fede, talora spiegò la fede,
il cristianesimo colla ragione. Questo lavoro stravagante creava la scolastica.
Si seguano
tutti i dottori da Abelardo fino ad Occam; si troverà che tutta la scolastica è
lo sforzo supremo dello spirito umano per trovare un passaggio dalla fede
considerata nelle cose credute, alla ragione considerata nelle cose ragionate.
Che fa Abelardo? Scrive il sic et non, espone le tesi e le antitesi del
cristianesimo. Che fa Pietro Lombardo? scrive il libro delle sentenze, in
altri termini, il libro dei problemi. Qual'è il grande problema della
scolastica? Lo abbiam detto, è il problema dell'individuo e del genere,
collegato coi problemi dell'eucaristia, del verbo, della trinità, e in generale
colle contraddizioni positive del cristianesimo. Qual'è la forma stessa della
scolastica? È la disputa: incomincia coll'obbiezione, interroga sempre,
l'interrogazione è sempre ostile al dogma; e se riassumonsi tutte le obbiezioni
opposte dalla scolastica al cristianesimo, si vede che Bayle e Voltaire vi si
trovano previsti, e ch'essi aggiungevano poco al tesoro delle obbiezioni
scolastiche, sì che la Chiesa non affatto a torto afferma di non aver appreso
nulla dai nostri sull'inconsistenza delle proprie leggende. I teologi erano
acerbi nell'oppugnare il Cristo, essendo fermi nella speranza che la soluzione
metafisica discenderebbe dal cielo coll'equazione della fede e della ragione.
Dopo il
risorgimento, la leggenda si separa dalla scienza; il teologo e il filosofo non
sono più una medesima persona, si dividono; e la fede resta al primo, la
ragione al secondo. Qui la teoria della fede subisce una nuova fase, ma sempre
metafisica. È inteso che la filosofia è la ragione, è inteso che il teologo è
l'uomo della fede, è dunque inteso che la fede è fuori della ragione, vale a
dire cosa ecclesiastica e antifilosofica. Questa convinzione si trova in tutte
le scuole; le une disprezzano la fede come un errore di uomini assurdi per
mestiere, le altre la lasciano alla Chiesa come un mistero nel quale
dichiaransi incompetenti; altre ancora adorano umilmente la fede dichiarando
che sta assolutamente al di fuori della scienza, e suppone un metodo, una
logica, un procedere non scientifico: tutti sono unanimi nel mettere la fede al
bando della filosofia e della ragione. Era questo un progresso? Sì, qualora noi
consideriamo il solo emanciparsi della mente, il discredito dell'errore,
l'attrazione del vero che sottrae all'impero della leggenda cristiana i
filosofi tutti, siano essi atei come Pomponaccio o credenti come Malebranche.
Ma la teoria della fede entrava nella più infelice delle sue fasi; alle
equazioni errate degli scolastici succedeva la negazione stessa della fede e la
filosofia, collo sbandire la fede condannava sè stessa, rimaneva impotente,
rimaneva senza fede, in un mondo di astrattezze; la metafisica si stabiliva
come vera metafisica incapace di toccare la terra e di governare gli uomini.
Così, quando Leibniz e Locke con due sistemi opposti parlano della fede, si
direbbero insensati. Leibnitz prende la fede nella sua attuazione cristiana.
«Si può paragonare la fede,» dice egli, «all'esperienza, poichè la fede, quanto
ai motivi che la verificano, dipende dall'esperienza di coloro che hanno visto
i miracoli, su cui la rivelazione è fondata.» Sempre Leibnitz confonde la fede
col sapere: l'equazione tra la fede e la ragione, è compiuta, sostituisce
dovunque la ragione alla fede. Leibnitz crede o affetta di credere ai miracoli,
ai misteri, come si crede (il paragone è suo) all'esistenza della China
attestata dai viaggiatori. Mai non intende l'essenza della fede, che segue il
vero senza confondersi con esso: tosto che il vero ripugna alla fede, Leibnitz
nega la fede. Che dice dell'entusiasmo? «È il nome che si dà», dice egli, «al
difetto di coloro che credono ad una rivelazione soprannaturale (immediata).»
Dunque l'entusiasmo è un difetto, la fede e un imperfezione: dunque tutto deve
ridursi al sapere meccanico e miscredente tosto che il dubbio ci assale
nell'azione. Locke si spinge più oltre. «L'assentimento», sono le sue parole,
«che accordiamo alla rivelazione soprannaturale si chiama fede. Essa determina
«la nostra mente, esclude il dubbio quanto può farlo la nostra cognizione,
perchè possiamo dubitare della nostra esistenza quanto possiamo dubitare che
una rivelazione procedente da Dio sia vera. Così la fede è un principio di
assentimento e di certezza sicuro e stabilito su basi irrepugnabili, e che non
lascia alcun luogo al dubbio ed all'esitazione. La sola cosa di cui dobbiamo
assicurarci si è di sapere se questa o quella cosa è una rivelazione divina, e
se noi ne intendiamo il vero senso: senza di che saremmo esposti a tutte le
stravaganze del fanatismo e a tutti gli errori che possono essere generati da
falsi principj, quando si presti fede a quanto non è divinamente rivelato.»
Vedesi apertamente che per Locke la fede non è se non la credenza a una verità
religiosa rivelata, credenza la cui natura è identica colla credenza alle
matematiche ed alle scienze fisiche. La fede di Locke e di Leibniz è tutta
contemplativa: è la scienza, non è la fede. Quindi Locke esagera il disprezzo
di Leibnitz per l'entusiasmo; consiglia l'indifferenza, perchè l'ignoranza
e l'indifferenza, disse egli, sono più vicine al vero, che non
l'errore. In sentenza di Locke la fede non è se non un fermo
assentimento; egli la vuole avvalorata dalle prove, la
riserva alla rivelazione, e la nega all'entusiasmo, ove la trovi sola.
L'errore dei
metafisici era profondo e corrispondevagli nella teologia l'errore, non meno
profondo, che nega la ragione. Concludiamo: hannovi le antinomie della fede,
havvi l'apparire della fede. Sono note le prime, e non hanno soluzione: che
cosa è dunque la fede? Quello che appare ad onta delle sue contraddizioni: non
è una data religione, non è il cristianesimo, non è la credenza
all'incredibile; non è la credenza al fatto provato della scienza. Credete voi
alla vostra esistenza, all'esistenza del mondo, alla matematica? Questa non è
fede. La fede appare solo nell'azione morale quando il dovere lotta
coll'interesse. Allora se chiamato al sacrifizio, voi decidete che la verità
non sia vera, se esitate nella speranza di sottrarvi al sacrifizio per mezzo
d'un accidente, se sperate che il combattimento possa essere differito,
lasciato ad altri, soppresso, mancate di fede. La fede si distingue dalla
cognizione, come l'azione dalla contemplazione. La fede è adunque un fatto sui
generis; la ragione lo trova ridicolo, assurdo, insensato; ma essa appare
nel soldato, nel mártire, nel filosofo, ne' fondatori delle religioni e negli
uomini della rivoluzione. Dunque essa è: come ardireste negarla voi, che
l'ammirate?
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