Capitolo
IX
LA PROPRIETÀ E LA COMUNANZA
La proprietà?
Eccoci innanzi al vitello d'oro, all'idolo de' politici, al Dio de' filosofi.
Esporrò prima le antinomie della proprietà, poscia il diritto.
La proprietà
deriva dalla libertà; è assoluta quanto la libertà. Se sono libero, posso
impadronirmi dei valori che mi stanno intorno, della terra che abito, dell'aria
che respiro; la mia signoria si estende quanto la mia forza. Libera come la
morale, la proprietà reclama il diritto di usare, di abusare della cosa
appropriata. Se non posso abusare, non sono libero; la spontaneità della mia
azione è violata, la scelta tra il bene ed il male non è scelta; se sono servo
di una volontà esterna, di una ragione che non è la mia, sono ridotto a condizione
di macchina. La libertà della stampa può coesistere colla censura? la libertà
di coscienza può conciliarsi con una religione dominante? No; la libertà
limitata non è più libertà, la proprietà limitata non è proprietà: il diritto
di abuso è inseparabile da ogni diritto, perchè la morale sola decide dell'uso
e dell'abuso. Potrò adunque inondare il mio campo, insterilire la mia terra,
abbattere la mia casa, lasciar marcire le mie messi. Nessuno avrà diritto di
protestare contro di me; se avrò danneggiato altrui, sarà danno, non ingiuria;
potrò concludere col filosofo della corruzione, Vittorio Cousin: «Quell'uomo
che soffre, e forse muore, non ha il menomo diritto sulla mia fortuna, fosse
pure immensa; e se ricorresse alla violenza per togliermi un obolo, commetterebbe
un delitto.» Il proprietario ha il diritto di affamare il genere umano.
Tale è la
tesi della proprietà, ed è precisamente la tesi che la distrugge. Se io sono
libero, tutti gli uomini sono egualmente liberi; se io ho diritto a tutto, il
mio simile ha un egual diritto a tutto; se la mia morale non può attuarsi senza
por mano alle cose, anche la morale de' miei simili non può attuarsi senza
toccarle. La ricchezza dispone della libertà, della felicità,
dell'intelligenza, dell'industria; è árbitra della vita degli uomini; senza il
dato di un capitale, io cado schiavo del mio salario, schiavo dello Stato,
schiavo dell'esercito. Posso io conservarmi, perfezionarmi quando mi vengono
negati tutti i mezzi di lottare colla natura? quando la mia libertà si riduce
ad una possibilità illusoria, ad un'entelechia che deve rimanersi nel vuoto?
Dunque il povero ha tutti i diritti del ricco; il popolo tutti i diritti del
privilegio; l'umanità ha tutti i diritti del patriziato. Dunque se la proprietà
è illimitata nell'individuo, lo è in tutti gli individui; dunque la proprietà
conduce alla comunanza universale. Quanto più si vanta il diritto del
proprietario, tanto più lo si nega, perchè con egual forza si ripete in tutti.
La metafisica
ha preso questa contraddizione critica per una contraddizione positiva, ed ha
cercato un termine medio, un titolo, per conciliare l'opposizione tra la
proprietà e la comunanza. Il primo concetto che le si offerse fu di subordinare
il dilemma al principio dell'interesse. Qui la superiorità della comunanza
sulla proprietà fu sì evidente, che la metafisica sciolse il dilemma, negando
la proprietà a nome dell'interesse pubblico. La repubblica di Platone si fonda
sulla comunanza. Non importa forse al bene pubblico, che la repubblica sia una,
come se tutti i cittadini avessero gli stessi occhi e intendessero colle stesse
orecchie? Platone nega adunque la proprietà: primo l'accusa di sviluppare
l'egoismo: il proprietario non vede che sè, non pensa che a sè, vuol dilatare
il suo dominio, vuole eternarlo, nè d'altro gli cale. La proprietà si trae
dietro il fasto, l'ozio, l'insolenza, genera la miseria, la guerra del ricco e
del povero, il governo della repubblica vien conteso, carpito come premio della
ricchezza o della violenza; quindi la repubblica impotente, la verità senza
forza, la giustizia senza valore: quindi l'insufficienza de' politici, de'
legislatori, degli oratori, dei tiranni, delle assemblee popolari: perché? il
vizio originale della società sussiste, ela ragione vuole che stiano con sé
tutte le sue conseguenze, le liti, i furti, l'ozio, la crapula, la guerra del
ricco e del povero, la guerra di tutti, la giustizia venale, le leggi dettate a
caso; insomma l'assenza d'ogni vera legge, di ogni volontà veramente pubblica,
in altri termini, d'ogni comunanza. Qual'è adunque il titolo nel quale Platone
fonda la comunanza? È il ben pubblico; è appunto quel bene che scaturisce dalla
morale; la sua repubblica è retta da uomini che disprezzano la ricchezza; le
sue leggi sono leggi morali, i suoi magistrati sono sacerdoti, la sua città è
una chiesa. Ne addiviene che egli combatte la proprietà a nome del principio
che la fonda, a nome di quella stessa virtù morale che la invoca per proteggere
il suo libero sviluppo.
La
contraddizione non isfugge ad Aristotele, che primo a difendere la causa della
proprietà, ritorce contro Platone il titolo stesso della comunanza. L'interesse
pubblico, dice Aristotele, deve attivarsi dall'interesse privato; convien
provocare l'operosità di ogni cittadino, stimolarla, interessarla
coll'incentivo della proprietà. La comunanza non interessa alcuno; essa toglie
ogni motivo d'operare, non provoca la cupidigia dell'uomo; sopprime lo stimolo
della proprietà, lascia intorpidire la società nell'inerzia di tutti. Se si
decretasse la comunanza, i cittadini, non potendo resistere all'impulso della
natura, ristabilirebbero la proprietà, i più industri diventerebbero i più
ricchi, e i più ricchi troverebbero il modo di proteggere i loro averi, e di sottrarli
alla comunanza generale. Secondo Aristotele, l'interesse pubblico è adunque il
titolo della proprietà; ma qual'è la forza di questo titolo? Io non sono
proprietario sen non perchè sono il miglior amministratore del mio avere. Lo
Stato me lo confida; la mia proprietà sorge dalla comunanza. Ciò posto, chi
assicura che non mi venga mai a simil titolo ritolta? Chi mi garantisce contro
la confisca, contro l'imposta, contro la soppressione dell'eredità, contro una
legge che sostituisca l'usufrutto alla proprietà? Aristotele non risponde; la
sua proprietà ci lascia sul pendio della comunanza; è un atto di migliore
amministrazione, senza essere un diritto; è una decisione precaria della
società; decisione che può variare e modificarsi indefinitamente, fino a
ricondurci quasi alla comunanza. Nel fatto, tutte le teorie del socialismo
sorgono dal principio dell'utilità pubblica; e perchè non rispettare i più
grandi abusi della proprietà, se non si vuole l'interesse di tutti? Così il
bene pubblico legittima egualmente la proprietà e la comunanza. Il dilemma
sfugge alla metafisica del pubblico interesse.
Gli altri titolo non
sono più validi: fu considerata l'occupazione come base della proprietà. «Io
sono libero,» si disse; «dunque prendo quanto desidero; occupo il campo che mi
piace, la terra che abito, quella che vorrei abitare. La mia libertà consacra
l'occupazione, quindi mi dà il diritto di spingere il Dio Termine quanto
voglio; dunque l'occupazione sottrae la proprietà all'antitesi della
comunanza.» Lo concedo; ma tutti gli uomini sono liberi, tutti eguali, tutti
hanno lo stesso diritto d'occupazione, e questo diritto conduce alla comunanza
universale. La vostra occupazione è un fatto transitorio, momentaneo: come
volete che v'infeudi per sempre una terra escludendo da essa tutti i vostri
simili? La vostra occupazione non è nemmeno un fatto, è una metafora; voi
occupate appena lo spazio di cinque piedi; in qual modo volete che la metafora
vi arroghi la proprietà di vasti campi? Essere libero, occupare una terra,
escluderne per sempre tutti gli uomini, sono tre fatti distinti. La libertà è
in noi, l'occupazione è limitata; l'atto di restar padrone della terra ad
esclusione d'ogni uomo, costituisce solo la proprietà: qual'è il principio che
lo consacra? La libertà? Essa fonda in pari tempo la comunanza e la proprietà.
L'occupazione? Essa fonda in pari tempo la proprietà e la comunanza. Il dilemma
non è distrutto.
I
giureconsulti hanno inteso che l'occupazione per sè non sottraeva la proprietà
alla comunanza: hanno quindi imaginato un nuovo titolo per legittimare la
stessa occupazione; hanno supposto che l'occupazione degli attuali proprietari
è valida perchè sancita dal consenso generale di tutti gli uomini. Il consenso
universale fu veramente chiesto? fu concesso? era possibile? La vana ipotesi
non regge; e pertanto Puffendorf v'aggiunse la nuova ipotesi, che siasi
accettata, la divisione nata dalle primitive occupazioni, per evitare il
disordine di una nuova divisione. Puffendorf riconosce adunque il diritto alla comunanza
universale; questo è il suo vero principio; secondo lui la proprietà
individuale sorge da questa comunanza, si fonda in un contratto tacito,
implicito, ragionato: il contratto è il titolo per il quale si evita
l'antinomia della libertà e dell'eguaglianza. Ma codesto contratto implicito fu
riconosciuto? l'occupazione dei proprietari fu sancita? Sono questioni di
fatto. Ora, se consulto la storia, non trovo altro nell'origine della società
che guerre, prede, conquiste; la servitù del debole, la cinica superbia del più
forte. I nostri antenati furono spogliati o spogliatori. Se qualche volta la
storia sembra obbedire alla ragione, io trovo riparti eguali, leggi agrarie,
pubblici banchetti, un sistema d'eguaglianza in contraddizione colla proprietà.
Invece di confermare l'ipotesi di Puffendorf, la storia la nega; essa stimola
il povero a chiedere al ricco i titoli della sua ricchezza. E poi, che importa
il passato? Giusto o ingiusto, è passato; ogni soluzione, ogni teoria deve
essere attuale: ogni generazione ha il diritto di disporre di sè, di stabilire
il suo contratto sociale, di non vivere nella infelicità prestabilita più
secoli prima da uomini forse barbari, e certo infelicissimi. Ogni rivoluzione
mette in dubbio la proprietà: come sciogliere il dubbio? Se il diritto del
proprietario fu tollerato, questo diritto cessa colla tolleranza; se i
proprietari hanno dettate le leggi per difendersi, il popolo vuole difendersi
alla volta sua; esso protesta. Il consenso sussiste finchè nessuno reclama: ma
finchè nessuno reclama, la giustizia è inutile, consentienti non fit
injuria; la giurisprudenza può tacere, non havvi lite. La causa nasce colla
contestazione, colla lotta; e Pufendorf, che ammette la comunanza, non può
trarne la proprietà.
Il lavoro è
il titolo più moderno della metafisica per transire dalla comunanza alla
proprietà e vien considerato come l'atto che toglie le cose alla comunanza per
darle all'artefice. Nel fatto, esso crea un valore; emana dalla libertà; la
libertà attuata col lavoro sembra consacrare la proprietà; la proprietà sembra
logicamente distinta dalla comunanza. Ma il titolo del lavoro
subisce previamente l'antinomia della libertà e della comunanza. Per lavorare
bisogna impadronirsi di una materia, appropriarsela ad esclusione di tutti gli
uomini, e diventarne proprietario prima di darle una forma, un valore. Con qual
diritto appropriarsi una materia che è il retaggio comune dell'umanità? Ogni
uomo ha diritto, non solo alla materia, ma eziandio al lavoro: perchè sottrarre
una data materia al lavoro del genere umano? Perchè vi arrogate il privilegio
del lavoro? Perchè vi appropriate la materia unita al vostro lavoro, alla forma
da voi data, la quale sola è opera vostra? Poi il lavoro è un peso, una pena;
la proprietà è un godimento, un bene: il lavoro crea valori; il proprietario ha
diritto di lasciare la terra incolta, di respingere l'agricoltore, di
distruggere il capitale. Tra il lavoro e la proprietà l'opposizione è perfetta:
in qual modo adunque il lavoro potrebbe dare il diritto di non lavorare? in
qual modo la creazione dei valori potrebbe dare il diritto di distruggerli? Il
lavoro è transitorio come l'occupazione; quando cessa, svanisce ogni rapporto
tra l'artefice e l'opera, le cose ricadono nella comunanza universale d'onde
non dovevano esser tolte. In somma, ammesso il lavoro come titolo alla
proprietà è titolo simile all'occupazione, appartiene ad ogni uomo dotato di
braccia, di mente, di forze; e se il lavoro fonda la proprietà, fonda nel tempo
stesso la comunanza.
Mancando ogni
espediente, la metafisica invocava Dio, per transire dalla comunanza alla
proprietà. «Col prender possesso,» dice Burlamacchi, «si accetta la
destinazione che Dio ha fatto dei beni della terra a tutti gli uomini.» Questa
destinazione è universale? Non si può dubitarne; e pertanto costituisce la
comunanza universale, la consacra, aggiunge nuova forza alla tesi che nega il
diritto di proprietà. Il creatore di tutti gli uomini non poteva creare dei
privilegiati; nè la giustizia eterna imporre l'ineguaglianza mostruosa che
risulta dalla proprietà; la proprietà diventa un sacrilegio. Supponiamo pure
che Dio voglia fondata, la proprietà ma chi interpreta la sua volontà? L'uomo.
E con qual mezzo può egli conoscerla? Altro mezzo non v'ha che intelligenza, e
l'intelligenza non può scandagliare l'intenzione di Dio se non coi titoli
dell'occupazione, del lavoro, del consenso universale, della necessità
politica; e dovunque la libertà e l'eguaglianza si collegano e s'escludono;
dovunque consacrano nel tempo stesso la comunanza e la proprietà.
Esposi
l'antinomia della proprietà e della comunanza. Proudhon se ne impadronì, la
gettò in piazza a spavento dei ricchi. V'hanno molte differenze tra la sua
antinomia e la nostra. La sua antinomia non conosce il metodo che la genera;
spesso vien confusa col mero contrasto tra il fatto ed il diritto; spesso viene
afferrata nelle astrattezze che la travisano; del rimanente, egli la prende
sempre per una contraddizione positiva, di cui promette la soluzione. Io non so
se debbasi ammirare più la lena di Proudhon o la collera de' suoi avversari.
Tutti i fanatici del diritto di proprietà, sonosi trovati nell'impossibilità di
rispondere una parola alla sua polemica. Eppure la risposta era facile. Qual'è
il ragionamento di Proudhon? Egli dimostra che non si può dedurre logicamente
la proprietà da veruno dei titoli di proprietà. La libertà, egli dice, non è la
proprietà, dunque non la fonda; - l'occupazione non è la proprietà, dunque non
può costituirla; - il lavoro non è la proprietà, dunque non può legittimarla,
ecc. - Proudhon mostra che fra la proprietà ed i titoli per cui si difende, non
havvi identità, nè equazione, nè deduzione; e la Sorbona e l'Istituto non sono
ancora rinvenuti dalla sorpresa! Non si sono accorti che l'identità, l'equazione
e la deduzione distruggono del pari la comunanza e la proprietà, la eguaglianza
e la libertà; non si sono accorti che il movimento logico che distrugge la
proprietà è l'identico movimento che annienta l'alterazione, il rapporto tra le
cose, il soggetto, l'oggetto di ogni pensiero. Coll'identico ragionamento si
può dire: - l'io non è il non-io, dunque non lo conosce; - il fanciullo non è
uomo, dunque non lo diventerà mai; - Socrate è vivo, chi vive non muore; dunque
Socrate non morrà. Questo ragionamento disgiunge le une dalle altre tutte le
nozioni, e spinge alla contraddizione chi vuol ricongiungerle. La
contraddizione è senza uscita, universale, inconcludente; e ogni soluzione
promessa sarebbe nuovamente contraddittoria.
Per combinare
la proprietà colla comunanza, bisogna volger le spalle alla loro
contraddizione, e attenersi ai fatti giuridici quali appaiono. Consideriamo
prima il diritto di proprietà: se la proprietà è un diritto, deve essere in
pari tempo un interesse ed un'ispirazione. Possiamo noi dirla un interesse?
Nessuno ne dubita: nè il povero, nè il ricco; ognuno la desidera, avventura la
vita per acquistarla, avventura tutto per difenderla. La proprietà è in potenza
in tutti gli atti della volontà; la vita è tratta da una forza invincibile verso
i valori, vuol farli suoi,; ogni uomo tende ad appropriarsi gli oggetti che gli
stanno intorno. L'io è essenzialmente solitario, esclusivo, egoista si
perfeziona divenendo l'artefice del suo perfezionamento; entra nella società a
patto di scoprirvi il proprio meglio; ogni suo atto esprime una padronanza che
lasciata a sè senza ostacoli, vorrebbe il dominio dell'universo; e si estende
alle stesse cose in cui il dominio è impossibile: l'odio, l'amore, cercano di
regnare sugli oggetti amati e odiati. L'ambizione, la vendetta, il perdono,
tutti gli istinti non possono attuarsi, se non alla condizione di toccare alle
persone e alle cose, come se noi fossimo signori, qualunque sia il grado della
nostra signoria. Dunque la proprietà è un bene, è un interesse, uno degli
istinti della vita, un vero valore. Questo bene può diventare un diritto? Lo
diventa, perchè sentiamo in noi la proprietà, non solamente come un bene, ma
come un diritto. Essa incute rispetto quanto la libertà; se viene assalita,
l'indignazione giuridica la difende, come se fosse una parte del nostro essere.
L'orrore del furto, il ribrezzo che c'ispira il possesso di cosa rubata, la
naturale dignità che ci allontana dalla casa, dalla tavola che non son nostre,
il disprezzo del parassita, ospite procace del bene altrui, sono forme varie
della ispirazione giuridica della proprietà. Lo stesso principio solleva ogni
popolo contro l'invasore straniero; ogni nazione conquistatrice profana un
diritto inviolabile, l'infamia del furto l'involge, e la strage è il più santo
dei diritti quando libera la patria. Havvi adunque una rivelazione morale che
attesta il diritto di proprietà; essa lo consacra; per essa l'occupazione, il
lavoro, questi fatti puramente materiali, divengono autorevoli quanto la nostra
libertà, e c'identificano colle cose, che diventano così le accessioni della
nostra persona. Il dimandare qual'è il passaggio logico tra l'ispirazione
giuridica della proprietà e gli atti materiali dell'occupazione o del lavoro, è
proporre un problema insolubile, è un dimandare qual'è il rapporto tra il nervo
ottico e la visione, tra una ferita e il diritto di difesa. Qui non havvi
alcuna equazione, havvi solo una correlazione in pari tempo rivelata ed
assurda, incontestabile e contraddittoria: ma appare, dunque è.
Il vero
problema sociale non cade sul principio di proprietà, ma sui limiti della
proprietà. Come determinarli? Come si determinano tutti i diritti: colla misura
dell'utile sancita dal sentimento. Il proprietario isolato, il proprietario i
cui beni non sono contestati, incontra solo i limiti della propria libertà, non
incontra limite alcuno. Può divenir re, può dichiararsi proprietario del regno,
se il popolo cede, consentienti non fit injuria. La proprietà si limita
solo quando vien contestata dalla libertà dei nostri simili; la libertà dei
nostri simili limita la proprietà; nella stessa guisa che l'eguaglianza limita
la libertà. Non si tratta adunque di una eguaglianza astratta, di una comunanza
universale che abolisca immediatamente ogni proprietà; l'eguaglianza astratta
non è sostenuta da alcun sentimento giuridico, la comunanza universale si
riduce ad un'ipotesi dialettica. Trattasi dell'eguaglianza sentita, di quella
libertà che i nostri simili recano in atto, e che la loro moralità reclama. La vostra
proprietà mi nuoce? mi condanna alla schiavitù? m'impone la fame? è dessa
micidiale per la famiglia del povero? oppressiva per l'intelligenza del popolo?
pone il famelico nell'alternativa del furto o della morte? Il furto è assolto;
il rispetto morale ispirato dalla proprietà svanisce; gli succede
l'indignazione giuridica della moralità conculcata, della libertà infranta; e
la comunanza protesta a nome dell'eguaglianza.
Di là il
diritto di necessità. Tutti i giureconsulti l'ammettono in un col diritto di
proprietà. Grozio, che fonda la proprietà sul contratto di divisione stabilito
nel principio della società, fonda il diritto di necessità su di una
restrizione tacita fatta al momento della divisione; in sua sentenza vi si
sottintendeva l'eccezione della necessità. No: non havvi restrizione, perchè
non havvi contratto: è la natura che costituisce la proprietà a nostro
profitto, ed è ancora la natura che protegge la nostra miseria coll'ispirazione
giuridica dell'eguaglianza. Il bisogno di chi reclama, misura la necessità; la
sua indignazione la trasforma in diritto. «Se un'anima gretta e spietata,» dice
Pufendorf, «non è accessibile alla generosità, se «l'inumanità del ricco non si
lascia toccare da veruna preghiera, bisognerà dunque che il povero muoia di
fame? Al contrario, dacchè il ricco non ha voluto esercitare volontariamente i
doveri dell'umanità, è giusto che perda in pari tempo il diritto di possedere e
quello di pretendere alcuna gratitudine.» Non credo che si possa domandare la
carità colle armi alla mano, la moralità non s'impone colla forza; ma è certo,
che la libertà lesa può combattere una libertà che diventa ingiuriosa e
micidiale.
I popoli
hanno proclamato, come i filosofi, il diritto di limitare la proprietà colla
comunanza nella misura della necessità. L'abolizione dei debiti nelle società
antiche era l'insurrezione della comunanza contro la proprietà era il ritorno
momentaneo dell'eguaglianza per salvare la vita dai proletari. Il giubileo
degli ebrei, che reintegrava i proprietari nelle loro terre ad ogni mezzo
secolo, era anch'esso un intervento periodico della comunanza nella proprietà.
Più rigida, la legge di Licurgo aveva anticipatamente stabilita la proporzione
della proprietà e dalla comunanza: le divisioni erano eguali, e per mantenerle
eguali abolivasi il commercio, l'industria, la ricchezza, lo stesso numerario.
Anche il dominio eminente è il dominio della comunanza che sovrasta a
tutte le proprietà, dispone di tutti i beni nella misura predeterminata dalla
legge; ed il capo dello Stato, giudice di tutte le necessità politiche, limita
la libertà del proprietario a profitto della grande comunanza dello Stato. Che
era la confisca? In sostanza, era il diritto della necessità: quando il feudo
diventava sedizioso e ribelle, quando il figlio del condannato supponevasi
tratto dall'onore a vendicare il sangue sparso, lo Stato si riservava il
diritto di spogliarlo a profitto della comunanza minacciata. La legge marittima
ci presenta il diritto di necessità sotto forma ancor più evidente. la proprietà
deve cedere; gettansi in mare le merci, la comunanza le sacrifica alla salvezza
dei naviganti. Sotto altra forma lo stesso diritto limita la proprietà in una
città assediata e si abbattono le case dei sobborghi, si fa campagna rasa,
perchè la città ha diritto di difendersi; e la comunanza regna nella misura
della necessità, come a bordo della nave pericolante. La legge di Licurgo, il
giubileo degli Ebrei, l'abolizione dei debiti, il dominio eminente, il diritto
della città assediata, quello della nave in pericolo, sono le diverse forme di
un diritto eterno. Anche l'imposta, e in generale tutte le rendite dello Stato,
si traducono, in ultima analisi, nel diritto di necessità, che costringe la
proprietà mobile ed immobile a pagare un tributo alla comunanza generale.
L'eguaglianza,
lo abbiamo detto, combatte istoricamente la libertà; istessamente la comunanza
combatte la proprietà. Nella barbarie de' tempi primitivi la proprietà regnava
quasi sola, costituiva le caste, i patriziati, le feudalità; la comunanza
trovavisi ristretta nella caste, nel senato, nelle corti. Ogni rivoluzione fu
opera della necessità a profitto della comunanza. Quando i Buddisti assalirono
le caste braminiche, opposero una più vasta comunanza alla proprietà
intollerabile delle caste: quando i plebei impugnarono i patrizi nella società
greco romana, scossero di nuovo l'antica proprietà: quando il diritto romano
cessò di essere il privilegio di Roma, la comunanza avanzava d'un passo,
avvalorata dalle stesse leggi della proprietà. La chiesa spargeva la buona
novella del Vangelo, arrogando a sè i templi pagani, le proprietà del
gentilesimo; e le otteneva diminuendo il dominio stesso del cesare romano
Formavasi quell'immensa comunanza della chiesa, che decimava le proprietà
secolari dell'Occidente, traendo a sè un terzo dei beni dell'Europa
imbarbarita. Ma alla volta sua la comunanza della chiesa non era la proprietà
del pontefice e del clero? non era uno Stato in ogni Stato? Quindi nuova lotta.
I re protestano in nome della comunanza dello Stato, invocano il diritto di
necessità contro la proprietà, contro i tribunali, contro i privilegi del
pontefice e del clero. In pari tempo i re combattono la proprietà feudale, le
tolgono i castelli, le masnade, i tribunali, i pedaggi, mille odiosi diritti; e
sempre il progresso si attua a nome della comunanza nella misura della
necessità. Finalmente, in che consiste la rivoluzione? Sotto l'aspetto
materiale, non fu, non è, non sarà mai se non una questione di beni, una lotta
della comunanza contro le proprietà. A che atterrare i governi, dar battaglie,
prodigare il sangue, se la volontà dell'individuo diseredato non deve toccare i
prodotti della terra, nè quelli dell'industria? A che la guerra e la sommossa,
se il popolo deve rimanere nella comunanza della miseria, il ricco nella
comunanza de' piaceri; se il popolo deve vivere nella fatica, nella nudità, nel
dolore, mentre gli eredi de' patrizi e de' feudatari devono stare nell'ozio,
nel fasto; nella voluttà?
La proprietà,
non sarà mai abolita, la comunanza non sarà mai attuata; la logica non
combinerà mai la proprietà colla comunanza; una filosofia della contraddizione
che sperasse una sintesi dei due contrari trasporterebbe le nostre speranze
nell'impossibile. Ma la proprietà e la comunanza, combinate dalla rivelazione,
danno l'invincibile ideale di una legge agraria universale, ci costringono a
sperare una costituzione dell'umanità coll'eguaglianza delle proprietà e
trasportano nell'avvenire quel contratto del genere umano imaginato da Grozio e
da Pufendorf, nelle prime origini della società. Se numerosi sono i nemici del
genere umano, se numerosi sono gli ostacoli che incontra il progresso: quando
osserviamo la lega dei potenti che negano al povero la sua parte di terra,
quando vediamo la lega della forza e l'ignoranza nella quale il ricco di
Parigi, l'ateo della Sorbona stanno col pontefice di Roma e colla barbarie
russa, allora sentiamo che l'ispirazione giuridica oltrepassa di troppo
l'ordinamento attuale della proprietà, perchè non lo atterri con una scossa
proporzionata alla perversità che ne profitta e alla crudeltà che lo difende.
L'apologia
che Aristotele scrisse della proprietà è veridica, e oltrepassò la sua stessa
previsione. In sentenza sello Stagirita, la proprietà fonda la famiglia, e
ad essa dobbiamo la costituzione della famiglia cristiana; la proprietà, disse
Aristotele, fissa l'uomo al suolo e di fatto ha sbandito il vivere
nomade e incerto dei barbari: la proprietà, soggiunge egli, confida il suolo
alla cupidigia dell'individuo, e l'uomo ha creata l'agricoltura, ha
trasformato la terra. La proprietà, continua lo stagirita, stimola, esalta
l'operosità umana, e l'industria, il commercio, la navigazione confidati
all'egoismo diedero all'Europa il dominio dei mari e il predominio su tutte le terre.
Secondo Aristotele, la proprietà ordina i governi; e di fatto tutti i
governi furono fondati sulla proprietà, sì che ne' più inciviliti potesse
apparire un'ombra di ragione trasformata in merce, e trafficata nell'interesse
de' ricchi. Finalmente, la proprietà, secondo Aristotele, trovasi presso
tutte le Nazioni; per cui si può affermare che sia voluta dalla natura: e
fu, ed è voluta dalla natura, poichè noi vediamo ancora sulla terra il regno
del più forte. Ma tutta l'apologia della comunanza scritta da Platone regge
tuttora; da duemila anni assiste ad ogni progresso; coloro stessi che
l'ignorano o che la ripudiano, l'adottano involontari se combattono per un
progresso: la comunanza di Platone s'inoltra nel mondo romano,, ordina la
chiesa del medio-evo, istituisce lo Stato moderno, rifulge in tutti gli scritti
della rivoluzione; sciagurato colui che può dimenticare la Repubblica di
Platone vivendo nelle nostre repubbliche. Ora, qual'è l'ultima conseguenza, se
non la legge agraria dell'umanità?
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