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Giuseppe Ferrari
Filosofia della rivoluzione

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  • PARTE SECONDA   DELLA RIVELAZIONE NATURALE
    • SEZIONE TERZA   LA RIVELAZIONE MORALE
      • Capitolo IX   LA PROPRIETÀ E LA COMUNANZA
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Capitolo IX

 

LA PROPRIETÀ E LA COMUNANZA

 

La proprietà? Eccoci innanzi al vitello d'oro, all'idolo de' politici, al Dio de' filosofi. Esporrò prima le antinomie della proprietà, poscia il diritto.

La proprietà deriva dalla libertà; è assoluta quanto la libertà. Se sono libero, posso impadronirmi dei valori che mi stanno intorno, della terra che abito, dell'aria che respiro; la mia signoria si estende quanto la mia forza. Libera come la morale, la proprietà reclama il diritto di usare, di abusare della cosa appropriata. Se non posso abusare, non sono libero; la spontaneità della mia azione è violata, la scelta tra il bene ed il male non è scelta; se sono servo di una volontà esterna, di una ragione che non è la mia, sono ridotto a condizione di macchina. La libertà della stampa può coesistere colla censura? la libertà di coscienza può conciliarsi con una religione dominante? No; la libertà limitata non è più libertà, la proprietà limitata non è proprietà: il diritto di abuso è inseparabile da ogni diritto, perchè la morale sola decide dell'uso e dell'abuso. Potrò adunque inondare il mio campo, insterilire la mia terra, abbattere la mia casa, lasciar marcire le mie messi. Nessuno avrà diritto di protestare contro di me; se avrò danneggiato altrui, sarà danno, non ingiuria; potrò concludere col filosofo della corruzione, Vittorio Cousin: «Quell'uomo che soffre, e forse muore, non ha il menomo diritto sulla mia fortuna, fosse pure immensa; e se ricorresse alla violenza per togliermi un obolo, commetterebbe un delitto.» Il proprietario ha il diritto di affamare il genere umano.

Tale è la tesi della proprietà, ed è precisamente la tesi che la distrugge. Se io sono libero, tutti gli uomini sono egualmente liberi; se io ho diritto a tutto, il mio simile ha un egual diritto a tutto; se la mia morale non può attuarsi senza por mano alle cose, anche la morale de' miei simili non può attuarsi senza toccarle. La ricchezza dispone della libertà, della felicità, dell'intelligenza, dell'industria; è árbitra della vita degli uomini; senza il dato di un capitale, io cado schiavo del mio salario, schiavo dello Stato, schiavo dell'esercito. Posso io conservarmi, perfezionarmi quando mi vengono negati tutti i mezzi di lottare colla natura? quando la mia libertà si riduce ad una possibilità illusoria, ad un'entelechia che deve rimanersi nel vuoto? Dunque il povero ha tutti i diritti del ricco; il popolo tutti i diritti del privilegio; l'umanità ha tutti i diritti del patriziato. Dunque se la proprietà è illimitata nell'individuo, lo è in tutti gli individui; dunque la proprietà conduce alla comunanza universale. Quanto più si vanta il diritto del proprietario, tanto più lo si nega, perchè con egual forza si ripete in tutti.

La metafisica ha preso questa contraddizione critica per una contraddizione positiva, ed ha cercato un termine medio, un titolo, per conciliare l'opposizione tra la proprietà e la comunanza. Il primo concetto che le si offerse fu di subordinare il dilemma al principio dell'interesse. Qui la superiorità della comunanza sulla proprietà fu sì evidente, che la metafisica sciolse il dilemma, negando la proprietà a nome dell'interesse pubblico. La repubblica di Platone si fonda sulla comunanza. Non importa forse al bene pubblico, che la repubblica sia una, come se tutti i cittadini avessero gli stessi occhi e intendessero colle stesse orecchie? Platone nega adunque la proprietà: primo l'accusa di sviluppare l'egoismo: il proprietario non vede che , non pensa che a , vuol dilatare il suo dominio, vuole eternarlo, d'altro gli cale. La proprietà si trae dietro il fasto, l'ozio, l'insolenza, genera la miseria, la guerra del ricco e del povero, il governo della repubblica vien conteso, carpito come premio della ricchezza o della violenza; quindi la repubblica impotente, la verità senza forza, la giustizia senza valore: quindi l'insufficienza de' politici, de' legislatori, degli oratori, dei tiranni, delle assemblee popolari: perché? il vizio originale della società sussiste, ela ragione vuole che stiano con sé tutte le sue conseguenze, le liti, i furti, l'ozio, la crapula, la guerra del ricco e del povero, la guerra di tutti, la giustizia venale, le leggi dettate a caso; insomma l'assenza d'ogni vera legge, di ogni volontà veramente pubblica, in altri termini, d'ogni comunanza. Qual'è adunque il titolo nel quale Platone fonda la comunanza? È il ben pubblico; è appunto quel bene che scaturisce dalla morale; la sua repubblica è retta da uomini che disprezzano la ricchezza; le sue leggi sono leggi morali, i suoi magistrati sono sacerdoti, la sua città è una chiesa. Ne addiviene che egli combatte la proprietà a nome del principio che la fonda, a nome di quella stessa virtù morale che la invoca per proteggere il suo libero sviluppo.

La contraddizione non isfugge ad Aristotele, che primo a difendere la causa della proprietà, ritorce contro Platone il titolo stesso della comunanza. L'interesse pubblico, dice Aristotele, deve attivarsi dall'interesse privato; convien provocare l'operosità di ogni cittadino, stimolarla, interessarla coll'incentivo della proprietà. La comunanza non interessa alcuno; essa toglie ogni motivo d'operare, non provoca la cupidigia dell'uomo; sopprime lo stimolo della proprietà, lascia intorpidire la società nell'inerzia di tutti. Se si decretasse la comunanza, i cittadini, non potendo resistere all'impulso della natura, ristabilirebbero la proprietà, i più industri diventerebbero i più ricchi, e i più ricchi troverebbero il modo di proteggere i loro averi, e di sottrarli alla comunanza generale. Secondo Aristotele, l'interesse pubblico è adunque il titolo della proprietà; ma qual'è la forza di questo titolo? Io non sono proprietario sen non perchè sono il miglior amministratore del mio avere. Lo Stato me lo confida; la mia proprietà sorge dalla comunanza. Ciò posto, chi assicura che non mi venga mai a simil titolo ritolta? Chi mi garantisce contro la confisca, contro l'imposta, contro la soppressione dell'eredità, contro una legge che sostituisca l'usufrutto alla proprietà? Aristotele non risponde; la sua proprietà ci lascia sul pendio della comunanza; è un atto di migliore amministrazione, senza essere un diritto; è una decisione precaria della società; decisione che può variare e modificarsi indefinitamente, fino a ricondurci quasi alla comunanza. Nel fatto, tutte le teorie del socialismo sorgono dal principio dell'utilità pubblica; e perchè non rispettare i più grandi abusi della proprietà, se non si vuole l'interesse di tutti? Così il bene pubblico legittima egualmente la proprietà e la comunanza. Il dilemma sfugge alla metafisica del pubblico interesse.

Gli altri titolo non sono più validi: fu considerata l'occupazione come base della proprietà. «Io sono libero,» si disse; «dunque prendo quanto desidero; occupo il campo che mi piace, la terra che abito, quella che vorrei abitare. La mia libertà consacra l'occupazione, quindi mi il diritto di spingere il Dio Termine quanto voglio; dunque l'occupazione sottrae la proprietà all'antitesi della comunanza.» Lo concedo; ma tutti gli uomini sono liberi, tutti eguali, tutti hanno lo stesso diritto d'occupazione, e questo diritto conduce alla comunanza universale. La vostra occupazione è un fatto transitorio, momentaneo: come volete che v'infeudi per sempre una terra escludendo da essa tutti i vostri simili? La vostra occupazione non è nemmeno un fatto, è una metafora; voi occupate appena lo spazio di cinque piedi; in qual modo volete che la metafora vi arroghi la proprietà di vasti campi? Essere libero, occupare una terra, escluderne per sempre tutti gli uomini, sono tre fatti distinti. La libertà è in noi, l'occupazione è limitata; l'atto di restar padrone della terra ad esclusione d'ogni uomo, costituisce solo la proprietà: qual'è il principio che lo consacra? La libertà? Essa fonda in pari tempo la comunanza e la proprietà. L'occupazione? Essa fonda in pari tempo la proprietà e la comunanza. Il dilemma non è distrutto.

I giureconsulti hanno inteso che l'occupazione per non sottraeva la proprietà alla comunanza: hanno quindi imaginato un nuovo titolo per legittimare la stessa occupazione; hanno supposto che l'occupazione degli attuali proprietari è valida perchè sancita dal consenso generale di tutti gli uomini. Il consenso universale fu veramente chiesto? fu concesso? era possibile? La vana ipotesi non regge; e pertanto Puffendorf v'aggiunse la nuova ipotesi, che siasi accettata, la divisione nata dalle primitive occupazioni, per evitare il disordine di una nuova divisione. Puffendorf riconosce adunque il diritto alla comunanza universale; questo è il suo vero principio; secondo lui la proprietà individuale sorge da questa comunanza, si fonda in un contratto tacito, implicito, ragionato: il contratto è il titolo per il quale si evita l'antinomia della libertà e dell'eguaglianza. Ma codesto contratto implicito fu riconosciuto? l'occupazione dei proprietari fu sancita? Sono questioni di fatto. Ora, se consulto la storia, non trovo altro nell'origine della società che guerre, prede, conquiste; la servitù del debole, la cinica superbia del più forte. I nostri antenati furono spogliati o spogliatori. Se qualche volta la storia sembra obbedire alla ragione, io trovo riparti eguali, leggi agrarie, pubblici banchetti, un sistema d'eguaglianza in contraddizione colla proprietà. Invece di confermare l'ipotesi di Puffendorf, la storia la nega; essa stimola il povero a chiedere al ricco i titoli della sua ricchezza. E poi, che importa il passato? Giusto o ingiusto, è passato; ogni soluzione, ogni teoria deve essere attuale: ogni generazione ha il diritto di disporre di , di stabilire il suo contratto sociale, di non vivere nella infelicità prestabilita più secoli prima da uomini forse barbari, e certo infelicissimi. Ogni rivoluzione mette in dubbio la proprietà: come sciogliere il dubbio? Se il diritto del proprietario fu tollerato, questo diritto cessa colla tolleranza; se i proprietari hanno dettate le leggi per difendersi, il popolo vuole difendersi alla volta sua; esso protesta. Il consenso sussiste finchè nessuno reclama: ma finchè nessuno reclama, la giustizia è inutile, consentienti non fit injuria; la giurisprudenza può tacere, non havvi lite. La causa nasce colla contestazione, colla lotta; e Pufendorf, che ammette la comunanza, non può trarne la proprietà.

Il lavoro è il titolo più moderno della metafisica per transire dalla comunanza alla proprietà e vien considerato come l'atto che toglie le cose alla comunanza per darle all'artefice. Nel fatto, esso crea un valore; emana dalla libertà; la libertà attuata col lavoro sembra consacrare la proprietà; la proprietà sembra logicamente distinta dalla comunanza. Ma il titolo del lavoro subisce previamente l'antinomia della libertà e della comunanza. Per lavorare bisogna impadronirsi di una materia, appropriarsela ad esclusione di tutti gli uomini, e diventarne proprietario prima di darle una forma, un valore. Con qual diritto appropriarsi una materia che è il retaggio comune dell'umanità? Ogni uomo ha diritto, non solo alla materia, ma eziandio al lavoro: perchè sottrarre una data materia al lavoro del genere umano? Perchè vi arrogate il privilegio del lavoro? Perchè vi appropriate la materia unita al vostro lavoro, alla forma da voi data, la quale sola è opera vostra? Poi il lavoro è un peso, una pena; la proprietà è un godimento, un bene: il lavoro crea valori; il proprietario ha diritto di lasciare la terra incolta, di respingere l'agricoltore, di distruggere il capitale. Tra il lavoro e la proprietà l'opposizione è perfetta: in qual modo adunque il lavoro potrebbe dare il diritto di non lavorare? in qual modo la creazione dei valori potrebbe dare il diritto di distruggerli? Il lavoro è transitorio come l'occupazione; quando cessa, svanisce ogni rapporto tra l'artefice e l'opera, le cose ricadono nella comunanza universale d'onde non dovevano esser tolte. In somma, ammesso il lavoro come titolo alla proprietà è titolo simile all'occupazione, appartiene ad ogni uomo dotato di braccia, di mente, di forze; e se il lavoro fonda la proprietà, fonda nel tempo stesso la comunanza.

Mancando ogni espediente, la metafisica invocava Dio, per transire dalla comunanza alla proprietà. «Col prender possesso,» dice Burlamacchi, «si accetta la destinazione che Dio ha fatto dei beni della terra a tutti gli uomini.» Questa destinazione è universale? Non si può dubitarne; e pertanto costituisce la comunanza universale, la consacra, aggiunge nuova forza alla tesi che nega il diritto di proprietà. Il creatore di tutti gli uomini non poteva creare dei privilegiati; la giustizia eterna imporre l'ineguaglianza mostruosa che risulta dalla proprietà; la proprietà diventa un sacrilegio. Supponiamo pure che Dio voglia fondata, la proprietà ma chi interpreta la sua volontà? L'uomo. E con qual mezzo può egli conoscerla? Altro mezzo non v'ha che intelligenza, e l'intelligenza non può scandagliare l'intenzione di Dio se non coi titoli dell'occupazione, del lavoro, del consenso universale, della necessità politica; e dovunque la libertà e l'eguaglianza si collegano e s'escludono; dovunque consacrano nel tempo stesso la comunanza e la proprietà.

Esposi l'antinomia della proprietà e della comunanza. Proudhon se ne impadronì, la gettò in piazza a spavento dei ricchi. V'hanno molte differenze tra la sua antinomia e la nostra. La sua antinomia non conosce il metodo che la genera; spesso vien confusa col mero contrasto tra il fatto ed il diritto; spesso viene afferrata nelle astrattezze che la travisano; del rimanente, egli la prende sempre per una contraddizione positiva, di cui promette la soluzione. Io non so se debbasi ammirare più la lena di Proudhon o la collera de' suoi avversari. Tutti i fanatici del diritto di proprietà, sonosi trovati nell'impossibilità di rispondere una parola alla sua polemica. Eppure la risposta era facile. Qual'è il ragionamento di Proudhon? Egli dimostra che non si può dedurre logicamente la proprietà da veruno dei titoli di proprietà. La libertà, egli dice, non è la proprietà, dunque non la fonda; - l'occupazione non è la proprietà, dunque non può costituirla; - il lavoro non è la proprietà, dunque non può legittimarla, ecc. - Proudhon mostra che fra la proprietà ed i titoli per cui si difende, non havvi identità, equazione, deduzione; e la Sorbona e l'Istituto non sono ancora rinvenuti dalla sorpresa! Non si sono accorti che l'identità, l'equazione e la deduzione distruggono del pari la comunanza e la proprietà, la eguaglianza e la libertà; non si sono accorti che il movimento logico che distrugge la proprietà è l'identico movimento che annienta l'alterazione, il rapporto tra le cose, il soggetto, l'oggetto di ogni pensiero. Coll'identico ragionamento si può dire: - l'io non è il non-io, dunque non lo conosce; - il fanciullo non è uomo, dunque non lo diventerà mai; - Socrate è vivo, chi vive non muore; dunque Socrate non morrà. Questo ragionamento disgiunge le une dalle altre tutte le nozioni, e spinge alla contraddizione chi vuol ricongiungerle. La contraddizione è senza uscita, universale, inconcludente; e ogni soluzione promessa sarebbe nuovamente contraddittoria.

Per combinare la proprietà colla comunanza, bisogna volger le spalle alla loro contraddizione, e attenersi ai fatti giuridici quali appaiono. Consideriamo prima il diritto di proprietà: se la proprietà è un diritto, deve essere in pari tempo un interesse ed un'ispirazione. Possiamo noi dirla un interesse? Nessuno ne dubita: il povero, il ricco; ognuno la desidera, avventura la vita per acquistarla, avventura tutto per difenderla. La proprietà è in potenza in tutti gli atti della volontà; la vita è tratta da una forza invincibile verso i valori, vuol farli suoi,; ogni uomo tende ad appropriarsi gli oggetti che gli stanno intorno. L'io è essenzialmente solitario, esclusivo, egoista si perfeziona divenendo l'artefice del suo perfezionamento; entra nella società a patto di scoprirvi il proprio meglio; ogni suo atto esprime una padronanza che lasciata a senza ostacoli, vorrebbe il dominio dell'universo; e si estende alle stesse cose in cui il dominio è impossibile: l'odio, l'amore, cercano di regnare sugli oggetti amati e odiati. L'ambizione, la vendetta, il perdono, tutti gli istinti non possono attuarsi, se non alla condizione di toccare alle persone e alle cose, come se noi fossimo signori, qualunque sia il grado della nostra signoria. Dunque la proprietà è un bene, è un interesse, uno degli istinti della vita, un vero valore. Questo bene può diventare un diritto? Lo diventa, perchè sentiamo in noi la proprietà, non solamente come un bene, ma come un diritto. Essa incute rispetto quanto la libertà; se viene assalita, l'indignazione giuridica la difende, come se fosse una parte del nostro essere. L'orrore del furto, il ribrezzo che c'ispira il possesso di cosa rubata, la naturale dignità che ci allontana dalla casa, dalla tavola che non son nostre, il disprezzo del parassita, ospite procace del bene altrui, sono forme varie della ispirazione giuridica della proprietà. Lo stesso principio solleva ogni popolo contro l'invasore straniero; ogni nazione conquistatrice profana un diritto inviolabile, l'infamia del furto l'involge, e la strage è il più santo dei diritti quando libera la patria. Havvi adunque una rivelazione morale che attesta il diritto di proprietà; essa lo consacra; per essa l'occupazione, il lavoro, questi fatti puramente materiali, divengono autorevoli quanto la nostra libertà, e c'identificano colle cose, che diventano così le accessioni della nostra persona. Il dimandare qual'è il passaggio logico tra l'ispirazione giuridica della proprietà e gli atti materiali dell'occupazione o del lavoro, è proporre un problema insolubile, è un dimandare qual'è il rapporto tra il nervo ottico e la visione, tra una ferita e il diritto di difesa. Qui non havvi alcuna equazione, havvi solo una correlazione in pari tempo rivelata ed assurda, incontestabile e contraddittoria: ma appare, dunque è.

Il vero problema sociale non cade sul principio di proprietà, ma sui limiti della proprietà. Come determinarli? Come si determinano tutti i diritti: colla misura dell'utile sancita dal sentimento. Il proprietario isolato, il proprietario i cui beni non sono contestati, incontra solo i limiti della propria libertà, non incontra limite alcuno. Può divenir re, può dichiararsi proprietario del regno, se il popolo cede, consentienti non fit injuria. La proprietà si limita solo quando vien contestata dalla libertà dei nostri simili; la libertà dei nostri simili limita la proprietà; nella stessa guisa che l'eguaglianza limita la libertà. Non si tratta adunque di una eguaglianza astratta, di una comunanza universale che abolisca immediatamente ogni proprietà; l'eguaglianza astratta non è sostenuta da alcun sentimento giuridico, la comunanza universale si riduce ad un'ipotesi dialettica. Trattasi dell'eguaglianza sentita, di quella libertà che i nostri simili recano in atto, e che la loro moralità reclama. La vostra proprietà mi nuoce? mi condanna alla schiavitù? m'impone la fame? è dessa micidiale per la famiglia del povero? oppressiva per l'intelligenza del popolo? pone il famelico nell'alternativa del furto o della morte? Il furto è assolto; il rispetto morale ispirato dalla proprietà svanisce; gli succede l'indignazione giuridica della moralità conculcata, della libertà infranta; e la comunanza protesta a nome dell'eguaglianza.

Di il diritto di necessità. Tutti i giureconsulti l'ammettono in un col diritto di proprietà. Grozio, che fonda la proprietà sul contratto di divisione stabilito nel principio della società, fonda il diritto di necessità su di una restrizione tacita fatta al momento della divisione; in sua sentenza vi si sottintendeva l'eccezione della necessità. No: non havvi restrizione, perchè non havvi contratto: è la natura che costituisce la proprietà a nostro profitto, ed è ancora la natura che protegge la nostra miseria coll'ispirazione giuridica dell'eguaglianza. Il bisogno di chi reclama, misura la necessità; la sua indignazione la trasforma in diritto. «Se un'anima gretta e spietata,» dice Pufendorf, «non è accessibile alla generosità, se «l'inumanità del ricco non si lascia toccare da veruna preghiera, bisognerà dunque che il povero muoia di fame? Al contrario, dacchè il ricco non ha voluto esercitare volontariamente i doveri dell'umanità, è giusto che perda in pari tempo il diritto di possedere e quello di pretendere alcuna gratitudine.» Non credo che si possa domandare la carità colle armi alla mano, la moralità non s'impone colla forza; ma è certo, che la libertà lesa può combattere una libertà che diventa ingiuriosa e micidiale.

I popoli hanno proclamato, come i filosofi, il diritto di limitare la proprietà colla comunanza nella misura della necessità. L'abolizione dei debiti nelle società antiche era l'insurrezione della comunanza contro la proprietà era il ritorno momentaneo dell'eguaglianza per salvare la vita dai proletari. Il giubileo degli ebrei, che reintegrava i proprietari nelle loro terre ad ogni mezzo secolo, era anch'esso un intervento periodico della comunanza nella proprietà. Più rigida, la legge di Licurgo aveva anticipatamente stabilita la proporzione della proprietà e dalla comunanza: le divisioni erano eguali, e per mantenerle eguali abolivasi il commercio, l'industria, la ricchezza, lo stesso numerario. Anche il dominio eminente è il dominio della comunanza che sovrasta a tutte le proprietà, dispone di tutti i beni nella misura predeterminata dalla legge; ed il capo dello Stato, giudice di tutte le necessità politiche, limita la libertà del proprietario a profitto della grande comunanza dello Stato. Che era la confisca? In sostanza, era il diritto della necessità: quando il feudo diventava sedizioso e ribelle, quando il figlio del condannato supponevasi tratto dall'onore a vendicare il sangue sparso, lo Stato si riservava il diritto di spogliarlo a profitto della comunanza minacciata. La legge marittima ci presenta il diritto di necessità sotto forma ancor più evidente. la proprietà deve cedere; gettansi in mare le merci, la comunanza le sacrifica alla salvezza dei naviganti. Sotto altra forma lo stesso diritto limita la proprietà in una città assediata e si abbattono le case dei sobborghi, si fa campagna rasa, perchè la città ha diritto di difendersi; e la comunanza regna nella misura della necessità, come a bordo della nave pericolante. La legge di Licurgo, il giubileo degli Ebrei, l'abolizione dei debiti, il dominio eminente, il diritto della città assediata, quello della nave in pericolo, sono le diverse forme di un diritto eterno. Anche l'imposta, e in generale tutte le rendite dello Stato, si traducono, in ultima analisi, nel diritto di necessità, che costringe la proprietà mobile ed immobile a pagare un tributo alla comunanza generale.

L'eguaglianza, lo abbiamo detto, combatte istoricamente la libertà; istessamente la comunanza combatte la proprietà. Nella barbarie de' tempi primitivi la proprietà regnava quasi sola, costituiva le caste, i patriziati, le feudalità; la comunanza trovavisi ristretta nella caste, nel senato, nelle corti. Ogni rivoluzione fu opera della necessità a profitto della comunanza. Quando i Buddisti assalirono le caste braminiche, opposero una più vasta comunanza alla proprietà intollerabile delle caste: quando i plebei impugnarono i patrizi nella società greco romana, scossero di nuovo l'antica proprietà: quando il diritto romano cessò di essere il privilegio di Roma, la comunanza avanzava d'un passo, avvalorata dalle stesse leggi della proprietà. La chiesa spargeva la buona novella del Vangelo, arrogando a i templi pagani, le proprietà del gentilesimo; e le otteneva diminuendo il dominio stesso del cesare romano Formavasi quell'immensa comunanza della chiesa, che decimava le proprietà secolari dell'Occidente, traendo a un terzo dei beni dell'Europa imbarbarita. Ma alla volta sua la comunanza della chiesa non era la proprietà del pontefice e del clero? non era uno Stato in ogni Stato? Quindi nuova lotta. I re protestano in nome della comunanza dello Stato, invocano il diritto di necessità contro la proprietà, contro i tribunali, contro i privilegi del pontefice e del clero. In pari tempo i re combattono la proprietà feudale, le tolgono i castelli, le masnade, i tribunali, i pedaggi, mille odiosi diritti; e sempre il progresso si attua a nome della comunanza nella misura della necessità. Finalmente, in che consiste la rivoluzione? Sotto l'aspetto materiale, non fu, non è, non sarà mai se non una questione di beni, una lotta della comunanza contro le proprietà. A che atterrare i governi, dar battaglie, prodigare il sangue, se la volontà dell'individuo diseredato non deve toccare i prodotti della terra, quelli dell'industria? A che la guerra e la sommossa, se il popolo deve rimanere nella comunanza della miseria, il ricco nella comunanza de' piaceri; se il popolo deve vivere nella fatica, nella nudità, nel dolore, mentre gli eredi de' patrizi e de' feudatari devono stare nell'ozio, nel fasto; nella voluttà?

La proprietà, non sarà mai abolita, la comunanza non sarà mai attuata; la logica non combinerà mai la proprietà colla comunanza; una filosofia della contraddizione che sperasse una sintesi dei due contrari trasporterebbe le nostre speranze nell'impossibile. Ma la proprietà e la comunanza, combinate dalla rivelazione, danno l'invincibile ideale di una legge agraria universale, ci costringono a sperare una costituzione dell'umanità coll'eguaglianza delle proprietà e trasportano nell'avvenire quel contratto del genere umano imaginato da Grozio e da Pufendorf, nelle prime origini della società. Se numerosi sono i nemici del genere umano, se numerosi sono gli ostacoli che incontra il progresso: quando osserviamo la lega dei potenti che negano al povero la sua parte di terra, quando vediamo la lega della forza e l'ignoranza nella quale il ricco di Parigi, l'ateo della Sorbona stanno col pontefice di Roma e colla barbarie russa, allora sentiamo che l'ispirazione giuridica oltrepassa di troppo l'ordinamento attuale della proprietà, perchè non lo atterri con una scossa proporzionata alla perversità che ne profitta e alla crudeltà che lo difende.

L'apologia che Aristotele scrisse della proprietà è veridica, e oltrepassò la sua stessa previsione. In sentenza sello Stagirita, la proprietà fonda la famiglia, e ad essa dobbiamo la costituzione della famiglia cristiana; la proprietà, disse Aristotele, fissa l'uomo al suolo e di fatto ha sbandito il vivere nomade e incerto dei barbari: la proprietà, soggiunge egli, confida il suolo alla cupidigia dell'individuo, e l'uomo ha creata l'agricoltura, ha trasformato la terra. La proprietà, continua lo stagirita, stimola, esalta l'operosità umana, e l'industria, il commercio, la navigazione confidati all'egoismo diedero all'Europa il dominio dei mari e il predominio su tutte le terre. Secondo Aristotele, la proprietà ordina i governi; e di fatto tutti i governi furono fondati sulla proprietà, sì che ne' più inciviliti potesse apparire un'ombra di ragione trasformata in merce, e trafficata nell'interesse de' ricchi. Finalmente, la proprietà, secondo Aristotele, trovasi presso tutte le Nazioni; per cui si può affermare che sia voluta dalla natura: e fu, ed è voluta dalla natura, poichè noi vediamo ancora sulla terra il regno del più forte. Ma tutta l'apologia della comunanza scritta da Platone regge tuttora; da duemila anni assiste ad ogni progresso; coloro stessi che l'ignorano o che la ripudiano, l'adottano involontari se combattono per un progresso: la comunanza di Platone s'inoltra nel mondo romano,, ordina la chiesa del medio-evo, istituisce lo Stato moderno, rifulge in tutti gli scritti della rivoluzione; sciagurato colui che può dimenticare la Repubblica di Platone vivendo nelle nostre repubbliche. Ora, qual'è l'ultima conseguenza, se non la legge agraria dell'umanità?

 

 




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