Capitolo XII
LA RENDITA
Tra i diversi modi
di godere dei beni vi ha quello di cederli a tempo, mediante retribuzione: di
là l'affitto delle case, quello delle terre, l'interesse dei capitali, e in
generale la rendita. La rendita esprime la vera essenza della dominazione sulla
cosa posseduta: prestando la cosa, mutuandola, affittandola, il proprietario
non se ne serve, si dispensa da ogni lavoro, resta nell'inazione, ed esige che
altri gli paghi il premio dell'inerzia. Chi vive di rendita, vive di ozio, gode
il lavoro altrui, è il vero parassito della società: gode di un mero diritto di
dominazione regia ed imperiale.
È lecito il
vivere di rendita? E lecito anche quando altri muore di fame? Pare di no perchè
il diritto in tutta la sua estensione non può essere se non l'egida della
morale: qual è la morale dell'ozioso? Il diritto non può proteggere se non la
virtù: qual è la virtù dell'ozioso? Se il diritto permette il vizio, affinchè
la virtù rimanga spontanea, suppone sempre il vizio individuale;
innocuo: è individuale il vizio del ricco? No; chi vive di rendita domina sul
lavoro, regna sulla miseria, si fa padrone del governo, detta la legge, opprime
la società. Posta l'immoralità della rendita o piuttosto del vivere sulla
rendita, incontriamo l'obbiezione che sorge dalla proprietà: chi è proprietario
ha diritto d'uso; il diritto d'uso è inseparabile dal diritto d'abuso; tolto
anche l'abuso, rimane il diritto semplicissimo di godere delle cose in ogni
modo possibile: come escludere il mutuo e l'atto? O combattete la proprietà, o
rispettate la rendita. Tale è l'antinomia della rendita; contraddizione critica
senza soluzione, essendo, da una parte, incontestabile il diritto di proprietà
ne' suoi limiti, dall'altra, incontestabile l'iniquità dell'ozio che affama
l'industria.
La
rivelazione del diritto e dell'interesse si sottrae al dilemma: in faccia al
ricco la questione deve essere sciolta con ragioni reali e positive. Abbiamo
riconosciuta la proprietà nei limiti della necessità, dominata dalla comunanza
che la rende morale; e sottoposta all'ideale della legge agraria: riconosciamo
quindi il mutuo e l'affitto egualmente sottoposti al diritto di necessità e al
progresso della legge agraria.
Il male non
sta nell'interesse del denaro; e nell'affitto delle terre e delle case; ma nel
vivere di rendita, nel vivere d'ozio e di frivolezza. L'interesse, l'affitto
sono scambii di servigi, di cose, di valori; sono premii vicendevoli che non
suppongono una ineguaglianza, anzi ci presuppongono giuridicamente eguali; chi
prende una casa in affitto può esser ricco, e avere altre case che affitta alla
volta sua; chi coltiva il campo altrui mediante annuo tributo, può esser
proprietario di altri campi; chi mutua l'altrui denaro, può dare in mutuo il
proprio. Nel commercio, la catena dei servigi e degli sconti è indefinita;
reciproca, continua, nè si potrebbe rompere senza annientare il commercio
stesso. Ogni uomo che mi chiede un prestito rimunerandomi, mi priva di un
vantaggio, e si ripromette un vantaggio; mi toglie un bene, e si ripromette un
bene: vi deve essere compenso. La tirannia della rendita sorge, non
dall'interesse, non dall'affitto, ma dalla ineguaglianza delle proprietà.
L'interesse, l'affitto sono cause indirette dell'abuso, non sono cause se non
subordinate alla proprietà: se vivete di rendita dovete attribuirlo alla vostra
fortuna, ai vostri capitali, alle vostre case, ai vostri campi: se le fortune
fossero eguali, potreste voi rimanere nell'ozio, darvi ai piaceri, non curarvi
del lavoro? potreste rendere tributari dei vostri capricci gli operai, le
fabbriche, il commercio? È ancora l'ineguaglianza de' capitali che genera la
tirannia dei banchieri: se la banca fosse sociale, se non fosse un monopolio
dei più ricchi, se questo monopolio non aumentasse di mille doppi procurandosi
i privilegi accordati dal governo, diventando unico, legale nelle banche dello
Stato; insomma, se l'ineguaglianza non fosse nel principio, non sarebbe nei
profitti, non diventerebbe un vizio, nè una tirannia nelle conseguenze. Sia
stabilita l'eguaglianza delle fortune; il mutuo, l'affitto diventano
scambievoli, facili; quanto si guadagna, altrettanto si perde; le differenze
rimangono minime; non rappresentano se non il fato della materia, l'intervento
del caso, inevitabile in ogni atto della vita.
La missione
della rivoluzione non è di combattere direttamente l'interesse del denaro o
l'affitto dei campi e delle case, ma bensì di combattere direttamente l'ineguaglianza
primitiva dei beni, il riparto attuale delle fortune sociali, la distribuzione
vigente delle ricchezze. Supponiamo che si voglia muover guerra alla rendita,
che si chieda senz'altro la gratuità del credito estesa ad ogni cosa
mutuata. Supponiamo soppressa la rendita, teniamoci nell'ipotesi rigorosa di
questa soppressione; non consideriamola qual preludio di nuova rivoluzione, che
debba poi sopprimere l'ineguaglianza delle ricchezze. La nostra ipotesi sarebbe
allora riassunta dall'editto seguente: 1° la rendita è abolita; 2° i
fittaiuoli sono dispensati dal pagare i padroni: 3° i locatori sono
dispensati dal pagare l'affitto; 4° i mutuatari sono sciolti
dall'obbligo di pagare gli interessi de' capitali mutuati. Qual sarebbe la
conseguenza dell'editto? I proprietari della terra rientrerebbero ne' loro
campi, lascerebbero la terra incolta, le messi abbandonate: i fittaiuoli
sarebbero espulsi: se nessun operaio si offrisse di lavorare la terra, a
dispetto della legge, la terra rimarrebbe desolata. I proprietari delle case
imiterebbero quelli dei campi: darebbero congedo ai locatari, abiterebbero gli
appartamenti vuoti, preferirebbero di conservare le case, al vederle invase da
cittadini, i quali, occupandole, negherebbero in principio il diritto di proprietà.
Da ultimo, i capitalisti ritirando i capitali, li spenderebbero a caso, li
seppellirebbero, preferendo ogni partito a quello di lasciarli avventurati in
mano di debitori incerti e probabilmente nemici. I proprietari e i capitalisti
sarebbero danneggiati, non v'ha dubbio: ma il popolo? rimarrebbe senza case,
senza campi, senza danari. Le case, i campi, il denaro, le fabbriche, gli
istromenti del lavoro resterebbero nelle mani de' proprietari; quindi
l'agricoltura, l'industria ed il commercio sarebbero immediatamente esercitati
dai proprietari; mentre il proletario sarebbe sbandito, non solo dalla
proprietà, ma dall'agricoltura, dall'industria e dal commercio. In una parola,
la lotta contro la rendita oppone un popolo di nudi a un popolo di ricchi, una falange
inerme ad una falange armata: di chi sarà la vittoria?
Si dirà: «Se
i proprietari e i capitalisti si collegano contro il popolo, sono perduti; al
certo, una mano di oziosi non potrà ridurre alla disperazione l'immensa
maggioranza della nazione. Si torranno al ricco le terre, le case, il denaro:
dove troverà chi lo difenda?» L'obbiezione è forte, ma che prova? Prova che la
rivoluzione deve oltrepassare la discussione sulla rendita per combattere il
riparto attuale della proprietà: prova che torna vana ogni lotta contro la
rendita, se non si risale alle proprietà; prova, da ultimo, che, vinta la lotta
sul riparto delle proprietà, torna inutile ogni lotta sulla rendita. Tanto vale
il lasciarla libera. Il ricco è solo contro tutti: lo sappiamo, non lo dimentichiamo;
voi dimandate chi lo difenderà: chi? Voi, se riducete il problema della
rivoluzione a un problema di. sconto: posto il vostro programma: imprigionata
la rivoluzione nel vostro programma; impegnati voi a difenderla nella misura
della gratuità del credito; dovrete difendere il proprietario nella sua libertà
di proprietario; tolta la rendita, dovrete accusare di spogliazione chi
oltrepassa il limite da voi posto, dovrete combattere a profitto della
proprietà. La vostra rivoluzione si ridurrà ad un assalto di scherma, poi sarà
reazione mascherata di parole temerariamente incendiarie.
Il problema
della rivoluzione è più vasto e le mille volte più profondo del problema del
credito. Questo si restringe nella circolazione della ricchezza, vede nella rendita
un diritto di pedaggio prelevato dal ricco sull'industria; vede nel frutto del
capitale, nell'affitto delle terre e delle case una tassa prelevata
sull'operaio, sul trafficante, sul merciaiuolo: vede ogni industria dipendente
da un capitale, tributaria della proprietà. Vuole adunque abolito il pedaggio,
soppresso il tributo e sostituito il credito reciproco, il credito gratuito
alla spinosa circolazione, che deve traversare le rôcche e le cittadelle della
ricchezza prima di animare l'industria e di compensare l'operaio. Ma non
iscorgesi evidente l'impossibilità di ogni equa reciprocità nei crediti, nei
prestiti, nelle anticipazioni, nei salari, finchè la ricchezza trovasi
radicalmente viziata nell'origine e nello scopo, voglio dire al punto di
partenza e al punto d'arrivo? In primo luogo, la ricchezza è viziata nel punto
di partenza. L'ineguaglianza non è forse presupposta da ogni atto economico?
ogni atto economico non emana forse dal riparto attuale delle fortune? Il
riparto attuale non è forse un riparto di forze e di potenze stabilito a
priori in favore del ricco? Il ricco possiede le terre, i capitali, le
case; senza il suo consenso non si può disporne; nè l'industria può lottare
contro l'inerte egoismo del ricco. In secondo luogo, la ricchezza è viziata nel
suo scopo finale: chi ordina all'operaio di porsi al lavoro? chi comanda alle
fabbriche di tessere i drappi, le stoffe, gli addobbi? In una parola, chi
consuma i valori prodotti? È ancora il ricco, il suo lusso stipendia
l'industria, egli condanna l'operaio a renderlo felice o a morir di fame. Le
cose sono ordinate in modo, che nel circolo della economia politica, dominato
quasi tutto dal ricco, il povero non occupa se non un segmento, quasi fosse un
caso della ricchezza, un'accessione del capitale. Così il popolo si compone di
uomini da nulla, la casta dei ricchi si compone di personaggi; costituisce il bel
mondo, gli uomini della società il gran mondo, opposto al popolo
minuto. Ma come riformare la società e far sorgere un raggio di giustIzia se tutto
ci circoscrive alla riforma della circolazione? come riformare la circolazione
quando trovasi viziata alla fonte e alla foce? come dirigere l'acqua quando non
si áltera l'inclinazione del piano? come ridurre la rivoluzione all'inane
sforzo di lottare contro un torrente che trabocca da ogni lato, mentre il
diritto delle necessità ci mostra la rivoluzione più facile e più vasta ad un
tempo nell'opera dell'eguaglianza e della comunanza? Se siamo eguali, se ogni
uomo lavora sulla base di una stessa fortuna, allora la circolazione sarà
giuridica, l'eguaglianza delle rendite sarà l'effetto dell'eguaglianza delle
fortune; quindi il mutuo, lo sconto, lo scambio, il credito, tutti gli atti
della circolazione, interessati o gratuiti, scorreranno naturali. Il sistema
che assale la rendita è legittimo, se assale in pari tempo l'ineguaglianza
sociale; È legittimo nell'impressione che produce sulla massa, la quale passa
rapida col pensiero dalla rendita al fonte stesso della rendita, il quale sta
nelle ricchezze accumulate in mano di alcuni privilegiati: qui si mette in
dubbio il riparto delle ricchezze, si chiede ai proprietari di render ragione
della loro proprietà innanzi alla comunanza dello Stato, nella misura del
diritto di necessità. Ma la polemica contro la rendita si fa giuoco della
rivoluzione, e divien retrograda nell'istante in cui si ferma all'interesse,
agli affitti, per colpire il riparto attuale delle fortune in modo obliquo.
La teoria del
credito gratuito è una vera metafisica sociale: venne formulata da Proudhon col
proposito di vincere con essa e di oltrepassare la contraddizione eterna della
proprietà e della comunanza. Proudhon diceva: tra la proprietà e la comunanza
costruirò un mondo. Non è mestieri costruirlo, è già costrutto da lungo tempo.
Ogni riparto della ricchezza fu sempre un mezzo tra la proprietà e la
comunanza; e la proprietà assoluta non ha mai esistito; essa non sarebbe
possibile se non nella solitudine, e nella solitudine svanisce ogni diritto.
Istessamente la comunanza assoluta non ha mai esistito, non è possibile; la
comunanza del convento è vera proprietà in faccia allo Stato. Le caste, il
patriziato, le feudalità esprimevano un riparto di beni, nel quale la
proprietà, moderata dalla necessità, conciliavasi colla comunanza. La nostra
proprietà determinata dal che dice è anch'essa limitata dall'imposta,
dall'utilità pubblica, da mille servitù prediali, che rappresentano il diritto
della comunanza. Il credito gratuito non dà una conciliazione metafisicamente
più valida di quella data dal codice francese o dalle leggi di Manou. È un
nuovo trovato, vero o falso, ma senza nesso colla contraddizione eterna della
proprietà e della comunanza. La contraddizione critica non si vince, non si
scioglie, non si concilia; la sua sintesi riesce sempre allo statu quo, perchè
mette sempre capo nel fatto. Così la sintesi della contraddizione del moto, è
il moto; la conciliazione della antinomia dell'alterazione, è l'alterazione; e
in generale ogni fatto è la sintesi delle sue proprie contraddizioni. Promettete
voi la sintesi delle contraddizioni critiche della società? È fatta, trovasi
nel fatto, nelle instituzioni sociali, e convien riconoscere che viviamo nel
migliore de' mondi possibili.
Per trovare
un'uscita, Proudhon è forzato di tramutare l'antinomia della proprietà e della
comunanza nelle antinomie della rendita, emergenti da una serie di antinomie
economiche. Quali sono le nuove contraddizioni sostituite alle prime? Sono
antinomie astratte. Eccone alcuni esempi: la divisione del lavoro fu utile, perfezionò
l'industria; ora opprime l'operaio, lo condanna all'idiotismo di una funzione
unica: dunque la divisione del lavoro è utile e dannosa. L'invenzione delle
macchine fu un soccorso portentoso dato al braccio dell'uomo, ora rende inutile
l'operaio, lo caccia dalle fabbriche, lo getta sulla via: dunque l'invenzione
delle macchine è utile e malefica. La banca fu il felice trovato che
semplificava e facilitava la circolazione, ora è privilegio di pochi, è
monopolio di alcuni banchieri, ferma la circolazione: dunque la banca è utile e
tirannica. Così di ogni trovato. Che ne deriva? Che Proudhon scambia le vere
antinomie della proprietà e della comunanza con antinomie astratte,
artificiali, non afferrate nella realtà, non emergenti dal fondo delle cose.
Proudhon fa dell'uso della macchina un'essere imaginario; quest'uso è utile al
proprietario della macchina, nocivo all'operaio; benefico per voi, malefico per
me: quindi Proudhon chiama l'uso utile e dannoso, benefico e malefico,
contraddittorio: istessamente conclude che le banche, che la divisione del
lavoro sono buone e cattive: ciò accade altresì dell'uso della spada, del
cannone, del vino, del pane, d'ogni cosa, sempre utile a chi ne usa, dannosa a
chi ne abusa. Queste sono contraddizioni puerili; sono le contraddizioni che
Platone deride nell'Eutidemo. A è più grande di B e più piccolo di C;
dunque diremo noi che A è grande e piccolo ad un tempo? Perchè no? Ma a che
serve? E se si cerca una soluzione? e se la soluzione si chiama sintesi?...
Tale è il procedere
di Proudhon; vuol la sintesi della proprietà e della comunanza; e la sintesi
rimane nel fatto, non conduce a nulla. Proudhon cerca un'uscita; trasporta
l'antinomia sul piano di una contraddizione artificiale; e qui la metafisica
svanisce nel nulla; ma si può almeno affermare utile la rendita nel passato e
dannosa nel presente, donde la conseguenza che deve essere abolita. Si accordi
la conseguenza; non è sintesi, è soppressione di un male, non concilia alcuna
antinomia, fa cessare la rendita; il che può esser discusso senza discutere nè
le antinomie reali, nè le antinomie astratte. La nostra conclusione è nota;
combattere la rendita è combattere un episodio della rivoluzione.
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