Capitolo XIV
L'EREDITÀ
Il diritto di
ereditare, vestigio dell'antica barbarie, è in conflitto coll'ideale della
legge agraria.
È nota la parabola
di Saint-Simon: traduciamola all'uso dell'Italia. Sia supposto che cinquanta
tra i membri più cospicui delle famiglie regnanti in Italia muoiano
subitamente, sia supposto che cinquanta tra i nobili di più antica stirpe
muoiano egualmente, sia supposto che vengano raggiunti nel sepolcro da
cinquanta tra i più ricchi signori; e che successivamente cinquanta proprietari
di case, cinquanta proprietari di fondi, cinquanta padroni di fabbriche,
cinquanta banchieri, cinquanta individui, sempre presi tra i primi in ogni
classe della ricchezza, scompaiono colpiti dalla morte. Egli è certo che gli
Italiani sarebbero afflitti, a cagione dell'ingenita bontà dell'animo loro;
pure ai defunti si sostituirebbero immediatamente i loro eredi, che saprebbero
essere, principi, conti, marchesi, ricchi proprietari, banchieri, senza che
l'Italia soffrisse alcun danno per la subita catastrofe. Supponiamo, al contrario,
che cinquanta tra primi poeti, cinquanta tra' primi pittori, cinquanta tra i
più illustri scultori, cinquanta tra i più abili artefici in ogni genere
d'industria, cinquanta tra i più sagaci ingegneri, cinquanta tra i più dotti
medici, cinquanta tra i più probi amministratori sparissero improvvisamente
involati dalla morte: non v'ha dubbio che l'Italia non potrebbe riparare tanta
sventura se non a capo a molti anni. La tradizione della scienza, dell'arte,
dell'industria sarebbe scossa e affievolita. E chi governa? chi regna? Gli
uomini nati nella ricchezza, gli uomini che vivono inutili, che possono morire
senza danno della società; in una parola, gli uomini privilegiati dalla fortuna
ereditaria.
L'eredità è
la vera fonte dell'ineguaglianza. Quanto ogni uomo può guadagnare
coll'industria, coll'astuzia, anche colla frode, non pesa sulla società. I
guadagni individuali hanno un limite, assorbano la metà della vita di chi li
raccoglie, non restano in mano dell'arricchito se non pochi anni, si può presumerli
il frutto, la ricompensa dell'ingegno, della probità, della fatica. Gli
arricchiti non valgono a costituire una classe sociale; nati negli affari, vi
rimangono, e rimarrebbero popolo se non vi fosse una classe che li perverte.
Qualìè questa classe? Quella de' ricchi dalla nascita. In essa non si lavora,
si vive di rendita, primo vanto è di non guadagnarsi il vitto; chi lo guadagna
è disprezzato, espulso; il lavoro è considerato umiliante, servile. Quindi
l'insolenza trasformata in diritto; l'ozio rispettato, la frivolezza sostituita
all'operosità naturale, il darsi spasso trasformato in dovere. Se non è
frivolo, il ricco dalla nascita è condannato ad essere malefico. L'eredità gli
dà un capitale primitivo, il capitale gli concede un'educazione privilegiata;
lo rende abile d'un tratto ai primi uffici della società, ai più alti
magistrati; gli dà in mano il governo, gli eserciti, la diplomazia, e il
disprezzo pel diseredato si trasforma in signoria. Le virtù stesse e
l'industria subiscono il predominio dell'eredità, nel commercio il ricco
ottiene un credito immediato, si procura le materie, gli istrumenti, le
macchine desiderate. Il più ingegnoso inventore trovasi nella dipendenza del
più rozzo benestante: nè può proteggere la scintilla del suo genio sfuggita
all'avida previdenza del capitale, senza divenir servo per indi divenire alla
sua volta ricco e malefico. Finchè sussiste il diritto di ereditare, la
libertà, l'eguaglianza, la fratellanza, saranno divisioni: da senno il povero
può credersi l'eguale del ricco? dov'è l'eguaglianza? Nella astrattezza
metafisica, che dimentica il vivere sociale per non considerare se non il
nascere, il morire, il funzionare del corpo umano. L'eguaglianza cristiana era
più schietta, svolgevasi in cielo: la metafisica, sostituendosi al
cristianesimo, restò con un'eguaglianza che non tocca nè al cielo, nè alla
terra. L'astrattezza del suo concetto riesce ad un equivoco, e l'antica società
passa a traverso l'equivoco colla chiesa e coi signori.
La metafisica
s'ingegnò di cercare un termine medio, un titolo per passare dalla proprietà
all'eredità. D'indi più teorie. - L'una di esse invoca ingenuamente la morale.
«Ogni cittadino,» si dice, «ha il diritto di immolarsi ai posteri, non può
esser morale senza sacrificarsi all'avvenire; dunque il diritto protegge il
cittadino nel momento in cui trasmette la sua fortuna ai posteri, perchè serva
d'istrumento al perfezionarsi della società. Chi riconosce la libertà riconosce
la proprietà, chi ammette la proprietà ammette l'eredità.» D'accordo; avete il
diritto di offrire la vostra fortuna: ma havvi un abisso tra il diritto
d'immolarvi alla posterità e il diritto di legare ai vostri figli il vantaggio
della vostra fortuna. Nel primo caso vi sacrificate agli altri, nel secondo
sacrificate gli altri all'interesse del vostro nome; nel primo caso dimenticate
la vostra persona, nel secondo dimenticate la società, vi innalzate un
mausoleo, ingombrate la via pubblica colla vanità del vostro sepolcro,
perpetuate i vostri funerali a dispetto dei vivi. Vi preme il bene dei posteri?
Proponetelo, i posteri decideranno; ma non avete il diritto di violentare la
natura con finzioni giuridiche, di oltrepassare la tomba con un contratto
fittizio, di ipotecare l'avvenire regnando in eterno sul tetto della vostra casa,
sulla gleba del vostro campo per espellerne i viventi. E che? la generazione
nascente ha il diritto di rivedere il patto sociale, che dispone in sostanza
dei beni e delle persone dello Stato; e voi pretendete imporre alla società
futura la volontà di un privato? e la chiesa potrà reclamare un terzo de' beni
dell'Europa a nome de' testatori morti da cinquecento, da mille e più anni? La
teoria che fonda l'eredità sul diritto alla moralità, produce un titolo
immediatamente lacerato dal diritto inalienabile d'ogni Stato di riconstituirsi
ad ogni generazione. - Un'altra teoria considera l'eredità come il complemento
naturale del diritto di proprietà: dice: «Se accordate la proprietà, se la
riconoscete necessaria per attuare l'interesse d'ogni cittadino, se tolto lo
stimolo della proprietà l'industria si ferma, conviene accordare l'eredità.
L'operaio, l'artefice sarebbero disanimati se non potessero trasmettere la loro
fortuna ai figli; lavorano pensando alla famiglia; l'interesse che li sostiene
sarebbe affievolito se la proprietà fosse vitalizia.» È vero che la proprietà
sola non basta all'uomo? è vero che l'usufrutto dei campi, delle case, dei
capitali, manchi d'attrattiva? Direte che aggiunto all'usufrutto il diritto di
sprecare la stessa proprietà, nessuno vorrebbe metter mano all'opera per
acquistarlo? Ma la proprietà dell'operaio è meno che vitalizia, non trascende
il giorno stesso del lavoro; la proprietà dei nove decimi della popolazione si
riduce all'uso ed al consumo; è ben lontana dalla rendita. Eppure l'operaio e i
nove decimi della popolazione si struggono di stento e di lavoro, troppo felici
di guadagnare il vitto. A chi dunque non basta la proprietà? Alle grandi
famiglie, all'arricchito che vuole emularle; nel regno dell'ozio la proprietà
senza l'eredità sarebbe una calamità, perchè condannerebbe tutti i ricchi al
lavoro. No; la proprietà non si completa coll'eredità, si spreca; l'eredità non
aggiunge stimoli al lavoro, ne toglie; sopprime il lavoro del ricco, sopprime
quello dell'operaio, che manca di capitale, per far valere l'industria. In una
parola, l'eredità è il feudo moderno, e tutte le ragioni che vogliono abolito
il feudo sopprimono l'eredità. - Una terza categoria considera l'eredità qual
sacro diritto dei figli. «Essi nascono», si dice, «nella famiglia, vivono in
una comunità; i beni loro appartengono prima della morte del padre, vi hanno un
diritto positivo: sopprimendo l'eredità si ledono i diritti dei figli.» Ottima
teoria attinta alle fonti del più ortodosso feudalismo. Dato il feudo, il
figlio è l'erede necessario, il consocio del padre: e tolto il feudo? Il padre
non è amministratore, è proprietario; il figlio non è consocio, è un estraneo;
la eredità svanisce. La teoria si sforza di sopravvivere al feudo
coll'espediente delle aspettative; si asserisce che, vivendo col
padre, il figlio si abitua a considerare i beni paterni come suoi, si pretende
che la società non deve affliggere l'onesta aspettativa del figlio, che
s'attende ad arricchire colla morte del padre. Vergognose sottigliezze!
turpitudini filosofiche! Ed è triste il vedere che uomini di scienza mettano
sulla bilancia, da una parte, la cupidigia dell'erede trasformata in diritto,
dall'altra, l'ignoranza forzata dei diseredati, la fame del popolo: e
metafisicando, diano ragione alla cupidigia. - Una quarta teoria porta il nome
di Leibniz, e vuol lasciare al proprietario il diritto di disporre de' suoi
beni, per non turbare l'egoismo dell'anima sua, che suppone attristata se
vedesse il suo avere utilizzato dalla patria. Che dire? Preso per ogni lato, la
metafisica dell'eredità è la quintessenza dell'egoismo feudale; rappresenta ora
la comunità d'una famiglia divisa dalla società, ora l'aspettativa d'un egoista
ora il pensiero di un'anima eternamente avara del suo. - L'ultima teoria che
meriti di essere richiamata, giustifica l'eredità colla considerazione che
devonsi accordare al padre i mezzi di assicurare l'educazione dei figli: e qui
il principio invocato basta a distruggere la conseguenza dell'eredità. Che
chiedete alla patria? il diritto di educare i figli? Educateli; la natura
accorda al padre il tempo di sorvegliare l'educazione del figlio. Muore
immaturamente? La patria è padre, nè può soffrire che il morto si eterni per
costituire un privilegio all'educazione generale de' cittadini. D'altronde,
quando si parla dell'educazione de' figli, si mente, si dà un pretesto, si
cerca ben altro: il diritto di educare può trasmettere solo la spesa
dell'educazione; quarantacinque franchi al mese, somma vile, derisa dalle
famiglie che sorgono dal diritto di ereditare. Così il principio
dell'educazione non può protrarre la proprietà al di là della vita del padre,
non può sottrarla alla patria, all'educazione nazionale; non può sottrarla al
diritto della comunanza, al diritto della necessità, non può costituire il
diritto di vivere di rendita.
La
metafisica, sempre confinata nelle sue astrattezze, non poteva nemmeno abolire
il diritto di eredità: se lo tentava, cadeva nella nuova astrattezza del
comunismo; dopo di aver data la generalità del feudo, dava la generalità della
comunanza. Ma quando i beni cadono confusamente nel seno della patria, i
diritti si confondono, l'eguaglianza diventa indeterminata, non è più positiva,
non è più voluta, nè sanzionata dalla rivelazione delle cose, della vita, del
sentimento; e l'utopia astratta potrà scuotere le menti, non potrà riordinare
la società. Quindi la metafisica lasciò la società alle sue impulsioni naturali
e positive; impotente per sè, lasciò potentissimi i principj dell'antica
società. Quindi l'eredità attuale trovasi per metà feudale, e per metà
rivoluzionaria e profondamente anarchica, quale quale fu affranta e rassicurata
ad un tempo dal codice di Napoleone.
Il feudo
sussiste nel diritto del figlio ad una parte della successione del padre, nella
presunzione legale che regola le successioni legittime, lasciando ad ogni
famiglia tutti i beni da lei accumulati dal principio del mondo. La legge
veglia con tenera sollecitudine perchè ogni suo membro non subisca alcun
detrimento, veglia sul prodigo; accorda al padre, alla madre, anche ai
fratelli, il diritto di impedire che riducasi allo stato infelice di dover
vivere col lavoro delle sue mani. Tutti i membri della famiglia sono eguali; ma
il padre ha un diritto di disponibilità, per falsare l'eguaglianza a
profitto del primogenito, può preferire al primogenito, ciecamente scelto dalla
legge feudale, un altro figlio più atto a rappresentare lo splendore della
famiglia; in ogni modo può lottare con successo contro l'eguaglianza del
diritto di succedere. La primogenitura, il maggiorasco, il feudo sono aboliti;
ma la legge trasforma la famiglia del ricco in una comunità di egoisti, in un
convento di delizie. I beni non sono più giuridicamente vincolati in eterno al
lustro di poche famiglie; ma la legge, governata da equivoche astrattezze, non
operò positivamente. Disse a tutti gli uomini detentori di feudi: pensiamo a
noi, non all'avvenire; Edamus et bibamus. Quindi accordato al padre il
diritto di dissipare la sua fortuna, accordato ad ognuno il diritto di alienare
i suoi beni; quindi raddoppiati, estesi i diritti dell'ozio; diminuiti nei
nobili, ma partecipati ai borghesi. L'egoismo operò solo nell'abolizione dei
feudi; la rivoluzione dell'89 divenne una rivoluzione di egoisti e di cadetti.
Quando lo Stato fu padrone de' beni del clero e de' nobili, praticò anch'esso
l'abolizione della feudalità a nome dell'egoismo. I beni nazionali furono messi
all'incanto, venduti ai ricchi, ai trafficanti, a chi voleva godere e sprecare;
la classe che disponeva dello Stato imbandì tavola sfacciata alla cupidigia,
alla gozzoviglia, si divise all'asta i beni che il popolo aveva tolto alle
instituzioni del medio-evo: lottò bensì contro il clero e l'antica nobiltà, ma
spogliando nello stesso tempo il paese. Nè si dica la vendita resa urgente dai
bisogni della guerra, o resa utile dalle imminenti reazioni che dal 1814
avrebbero ritolti allo Stato i beni da lui conquistati. Io parlo del diritto, e
non del fatto, della rivoluzione, e non delle traversie: i beni spettavano al popolo,
erano dello Stato; la necessità dell'educazione nazionale li reclamava, il
dovere di assicurare una base al lavoro d'ogni operaio, d'ogni artefice, li
voleva ordinati all'emancipazione della plebe, i cui diritti erano proclamati
dalla Convenzione. Ma l'eguaglianza astratta regnava; un'avida disinvoltura e
un governo faccendiere rapirono al popolo la sua conquista. I termidoriani
sospendevano la rivoluzione, e da qual punto i suoi beni furono prodigati nelle
urgenze del momento; da quel punto la guerra assorbì tutti i tesori
dell'avvenire, cessò di essere fatta sulla terra del nemico; in Italia
Napoleone rapiva le statue, i quadri, e rispettava i beneficj ecclesiastici, i
beni de' nobili; lasciava sussistere privilegi innumerevoli, in Francia
soppressi. La rivoluzione rimase d'un tratto spogliata e fermata; il popolo si
ritrasse dall'arena; intese che era frodato, lo intese confusamente, non fu
metafisico, nè scienziato; ma nel 1814 desertò i venturieri della rivoluzione,
lasciò cadere nel fango la commedia napoleonica; il regno d'Italia e quello di
Murat, parodia dell'antica eredità feudale svanirono qual sogno.
Nel medio-evo
l'eredità aveva un titolo che la giustificava: vitalizio nella sua origine, il
feudo accordava una rendita, alla condizione di difendere la società;
subordinava il diritto al dovere, l'individuo alla comunanza; il feudo era
sociale, non poteva essere distratto dalla sua destinazione sociale. In oggi le
grandi fortune ereditarie sono abusi senza titolo, vere usurpazioni. Invano
l'economia politica si studia di difenderle: la difesa è un vergognoso cavillo.
Si asserisce che proteggono l'industria e le arti; si afferma che se il ricco
ritoglie i suoi capitali dal commercio e le sue commissioni date al
fabbricante, il povero manca di pane. È vero. Il povero deve vivere raffinando
i piaceri del ricco, rendere felici i più felici, esser dotato d'ingegno,
d'imaginazione inesausta per inventare trastulli sempre nuovi, sollazzi sempre
variati. Guai se non rinnova le foggie, gli ornamenti, le frivolezze; guai se
il ricco disdegna la moda, guai se non vive circondato di staffieri o di
cortigiane; il povero muore di fame. Se un giorno tutti i ricchi d'Europa si
decidessero a vivere come Socrate o Diogene, se volessero seguire l'evangelio,
se per ipotesi il Dio che i ricchi adorano o che piuttosto fanno adorare,
toccasse i cuori di tutti gli epuloni, di tutti gli oziosi, di tutte le
prostitute; se di un tratto i già elettori eleggibili di Francia, i lord
d'Inghilterra, i conti, i marchesi, i baroni d'Italia, di Germania, di Spagna
divenissero morali e onesti, la metà delle fabbriche di Europa sarebbe
immediatamente chiusa, l'industria sarebbe scompigliata; a capo di quindici
giorni, il tempo necessario per morir di fame, più milioni di uomini pagherebbero
colla vita loro la virtù de' signori. Qual'è dunque il principio morale della
grande proprietà? Non è più la casta, non è più il patriziato, non è più la
feudalità; questi principj rendevano alla virtù l'omaggio dell'ipocrisia, in
oggi tocca al vizio di consacrare la proprietà. Non si può fare l'apologia del
ricco senza fare quella del vizio.
L'eredità è
dunque il tesoro in cui la rivoluzione deve metter mano per alleviare la
pubblica miseria. Il credito gratuito, l'abolizione della rendita, il comunismo
negativo, il falanstero sono mezzi o falsi o metafisici essi spingono la
società verso l'impossibile. L'eredità limitata nella misura della necessità,
ecco la via semplice e naturale del progresso. Qui la morale protesta, la legge
è armata, l'amministrazione possiede tutti i mezzi per impadronirsi
dell'eredità; mentre il capitale e la rendita si rendono invisibili, e possono
rivoltarsi con satanica energia. Nell'eredità si colpiscono uomini che non
esistono ancora, individui a cui si toglie quanto non hanno mai posseduto.
Colpite la rendita, il capitale? Voi colpite la possessione, voi provocate
resistenze disperate; combattendo la proprietà, sarebbe forza uccidere i
proprietari: gli uomini dimenticano più facilmente la perdita de' parenti, che
la perdita de' beni. Coll'abolizione dell'eredità si compie l'abolizione del
feudo e del convento, si cammina sulla gran via dell'umanità.
Non ignoro le
obbiezioni che possono essere fatte da voci amiche: si dice facile al padre
d'eludere la legge dell'eguaglianza. Rispondo, che la legge deve armarsi contro
il dolo, ma ignorare la frode. Co, proibire il furto, non si rende impossibile;
volendo punirlo, non si punisce ogni ladro. Quale è la legge la cui
applicazione sia esatta come la matematica? Si proclama da taluni
l'impossibilità d'attuare una legge agraria, che si rinnovi ad ogni nascita, ad
ogni morte, per mantenere l'eguaglianza tra i cittadini: non si scambi la
questione: non si proclami una giustizia impossibile per turbare quella che
deve attuarsi sulla terra: qui non si tratta di rendere assolutamente eguali
tutti i viventi, trattasi di abolire la mostruosa ineguaglianza che perpetua
una illimitata ricchezza in poche famiglie. Si dice che i ricchi sono pochi; e quindi
minime le ricchezze aperte al popolo coll'abolizione dell'eredità: non obliate
che qui il poco è molto, anzi è tutto; noi non abbiamo appunto altro scopo se
non di abolire il regno dei pochi. Da ultimo, se volete trascinarci sul campo
spinoso dell'opportunità e delle difficoltà. opposte dal volere dello stesso
diseredato, riconoscerò un fatto durissimo. Il paesano che possiede una pertica
di terra è avaro e cupido all'infinito quanto il milionario; anch'esso combatte
per eternare il suo bene nella sua famiglia. Questo mi duole: chi imita il
ricco, perpetua la propria schiavitù, fa fa re, è destinato a soffrire
l'insolenza del ricco e la tirannia del re; dell'intero sistema fondato
sull'eredità. Ma devesi chiedere l'abolizione pura, semplice, immediata
dell'eredità? Noi parliamo d'un principio; parliamo del vero, del giusto: gli
operatori della giustizia sapranno arrivare a tempo, sapranno raggiungere la
misura della necessità.
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