Capitolo
XVIII
LA GUERRA
La guerra è giusta
od ingiusta: se è giusta riducesi al caso della legittima difesa; lo Stato che
si difende non perde alcuno de' suoi diritti sul campo di battaglia; sconfitto,
non deve alcuna obbedienza; gli si deve riparazione; vincitore, può
impadronirsi delle armi, dei beni, della persona del nemico, può spingere la
vittoria fin dove lo esige la necessità di rendere nullo ogni ulteriore
assalto. Quanto alla guerra ingiusta, essa è un delitto; le sue vittorie, lungi
dal concederle diritti, meritano punizione.
Il diritto
della guerra è adunque semplicissimo; pure la logica, signoreggiando queste
nozioni sì semplici, le ritorce contro il diritto stesso. Quando la guerra
scoppia, le due parti possono egualmente credersi fondate sul diritto; questo è
il caso più ordinario. I cattolici e i protestanti, i regii e i repubblicani
credono di combattere egualmente per la causa della verità e della giustizia.
Chi giudicherà adunque i problemi della guerra e della pace? La guerra? Sarebbe
un sottoporre la giustizia alla forza. La ragione? Ci condurrebbe alla
contraddizione dei diritti, essendo contraddittorie le opinioni delle due
parti. Questo dilemma si traduce nel dilemma dei criteri: se io sono solo
giudice del mio diritto, alla sua volta il mio nemico ha il diritto di
giudicare sè stesso; la contraddizione è manifesta; se non sono giudice di me
stesso, la vittoria sarà giudice; e sarà forse l'ingiustizia che condannerà la
giustizia. Irreconciliabile per sè, l'antinomia si scioglie, come tutte le
antinomie, sotto l'impero della doppia rivelazione. Gli elementi della
giustizia sono l'interesse e il sentimento giuridico. L'interesse dipende dalle
nostre idee, non è mai arbitrario; noi cerchiamo il bene là dove ci vien
mostrato dai dogmi che professiamo. Se i dogmi possono essere falsi, se a
termini della logica, tutto è possibile, tutto impossibile, l'antitesi del
possibile e dell'impossibile scompare dinanzi ai dati positivi e reali che
determinano il nostro pensiero. Il fatto delle idee trascina tutti gli uomini;
nessuno può essere superiore alle condizioni prestabilite dalla sua
intelligenza. Anche il sentimento giuridico svegliato dall'interesse è sacro,
positivo, reale; e qui ancora devesi obbedire alla legge che troviamo nel fondo
del nostro cuore. Si dirà: la contraddizione non è evitata; voi autorizzate la
guerra, animate i due combattenti, eternate la battaglia tra i Musulmani ed i
Cristiani, tra i protestanti ed i cattolici, tra i regii ed i repubblicani.
Rispondo, che verifico un fatto; se la contraddizione esiste, non è mia, è
della natura, che ha infuso ne' miei nemici un sentimento e una fede che mi
resistono. Rispondo inoltre, che voi stesso, nel rimproverarmi di autorizzare
la guerra, la riconoscete, e non confondete il nemico col delinquente, il
soldato col sicario; riconoscete adunque che v'ha una fede che non è la vostra,
che voi dovete spegnerla, benchè cessata la necessità della guerra, possiate
onorarla. Si dirà ancora: che coll'ammettere diritti contraddittorj per opera
della natura, ci esponiamo ad assistere indifferenti alla guerra dei dogmi,
senza essere d'alcuna religione, d'alcuna patria, quasi che la guerra fosse
spettacolo offerto al filosofo dall'impassibile destino. Ma se combatto io
pure, non sono egoista, ho una fede, una religione, quella dell'umanità. Se
accordo che ognuno può ingannarsi, che un popolo può sottomettere la sua morale
a un falso dogma, se ammetto la possibilità del fallare, e convien che
l'ammetta poichè l'errore esiste, non mi tolgo alla guerra dei dogmi, la provoco;
son uomo, credo, vivo: come accusarmi di essere senza fede, senza legge, freddo
testimonio del sacrifizio di tutti i popoli?
I dilemmi
della logica si riproducono nei trattati di pace, e pongono ogni trattato
nell'alternativa di una doppia assurdità. I trattati obbligano? dobbiamo noi
osservare la promessa accettata dal nemico? evidentemente i trattati sono
sottoscritti quasi tutti sotto l'impero del terrore, al seguito di una
sconfitta; sono concessioni strappate dalla prepotenza fortunata; se obbligano,
è la forza che obbliga. I trattati sottoscritti sotto l'impero del terrore sono
nulli? Allora la guerra sarà eterna. Eccoci nell'alternativa del regno della
forza o della guerra eterna. Il dilemma abbraccia tutte le conquiste; se sono
illegittime bisogna annullare la storia, se sono legittime, convien riconoscere
il diritto del più forte. Spetta ancora alla doppia rivelazione dell'interesse
e del dovere a toglierci al contrasto della fatalità storica colla libertà
dell'uomo. La libertà, noi l'abbiam visto in astratto, è indeterminata; in
atto, è la nostra vita; in astratto siamo tutti liberi, sovrani, eguali; in
atto, ci lasciam vincere dal dolore, dal piacere, dal carattere, dal pensiero,
dagli uomini che ci stanno intorno. Ora il vinto si de moralizza, s'umilia,
diviene schiavo, perde la metà della sua ragione, può amare la propria servitù:
quest'interesse può determinare il patto della conquista. Per sè la conquista
non istabilisce alcun diritto: pure se dopo la conquista il vincitore regna in
pace, se nessuno protesta contro l'invasione, se la nazione vuol vendersi,
alienarsi, trafficar la propria dignità, se preferisce subire la conquista
all'idea di animare la plebe colla partecipazione dei beni, se preferisce il
tiranno domestico a una vittoria di popolo ribelle, o all'alleanza di un popolo
liberatore, d'un popolo che coll'indipendenza apporti anche la libertà; se il
vinto cerca di regnare rassegnandosi alla conquista, la conquista si stabilisce
tacitamente, divien giuridica, diviene un patto sociale, e si trova
naturalizzata. Così le Sabine, rapite dalla forza, diventavano spose per amore;
così i Romani, padroni del mondo per la forza delle armi, lo diventarono di
diritto quando vennero preferiti all'antica barbarie: così l'invasione
germanica divenne l'aristocrazia del medio-evo. Verun conquistatore non pretese
mai di regnare col solo diritto del più forte; tutti si sono fatti legittimare,
tutti hanno reclamato i titoli di conti, di marchesi, di vicari della Chiesa,
dell'Impero, di alleati dei popoli vinti; insomma tutti hanno voluto fondare la
loro autorità sulle tradizioni di una sovranità anteriore. D'onde questa
pretensione? Dalla convinzione profonda, immortale presso tutti i popoli, che
abbisogna un patto per regnare, e l'ingiustizia stessa deve presentare
l'apparenza del contratto. Io vi sono necessario, dovete accettarmi; ecco le
due parole che riassumono gli, atti di ogni conquistatore. La prima esprime
l'interesse del patto, la seconda esprime il diritto; la prima dipende dallo
scambio dei valori, la seconda dallo scambio giuridico.
Sarà agevole
il distinguere la nostra soluzione dalla metafisica della guerra, che subì
molte fasi complicandosi con problemi della storia e della civiltà. Noi non
citeremo se non due sistemi, l'uno che giustifica tutti i conquistatori,
l'altro che giustifica tutti i popoli sconfitti. Il primo parte dal principio
che la guerra deve decidere ogni lotta internazionale, che essa sarebbe inutile
se non mettesse fine ai conflitti e se il diritto non fosse vincitore. Quindi
tutte le vittorie amnistiate, quindi stabilita a priori la moralità del
conquistatore, quindi sdegnato ogni sforzo del vinto qual fatto anormale ed
ingiusto, quindi una lunga serie di ragionamenti in cui la dialettica
s'infiltra ne' fatti per mostrare nella fatalità il trionfo della ragione. Che
dice? Si fece del vincere e dell'esser vinto un'astrattezza; e una volta
congiunta la vittoria col diritto, si volle mantenere il diritto eterno nella
vittoria, e si finì col negare l'essenza stessa del diritto, che consiste nel
disprezzare la forza. Qui, come dovunque, la metafisica, animata da un'idea
liberatrice, affidandola alla logica, rimaneva impotente. Essa proponevasi di
succedere alla religione, voleva trovare nella ragione il principio che
santificava la vittoria, voleva sostituirlo al giudizio di Dio, per cui nel
medio-evo la vittoria scioglieva santamente i problemi della civiltà e riuscì a
proclamare il diritto della vittoria senza un Dio che lo confermasse, senza il
vero diritto rivelato che lo sanzionasse: in fondo, non proclamò se non il
diritto della vittoria, poi il diritto del più forte, in ultima analisi il
diritto del papa, dell'imperatore e dei re. D'altra parte un sistema più
generoso afferrava l'essenza stessa del diritto, non teneva conto del fatto,
disprezzava la barbara decisione della forza, e prendeva le difese dei vinti.
Quindi una nuova dialettica che dissotterrava i titoli di tutti i popoli
sconfitti e disfatti; quindi negata ogni vittoria e avviluppata nei cavilli
eterni di una protesta metafisica; quindi messa in dubbio la storia, e la
filosofia trasportata fuori del campo dei fatti, dove noi vediamo i vinti
domati, diventar servi di diritto, amare le lor catene, portarle quasi
ornamenti, e combattere chi volesse infrangerle. Qui ancora la metafisica
trovavasi impotente, combatteva con armi che non sono di questo mondo;
s'impegnava involontaria a difendere tutti i popoli meritamente conquistati dai
Romani, dalla chiesa, dalle nazioni progressive; s'impegnava in cause perdute,
con dogmi destituiti di forza e perenti dinanzi al progresso. Quale
sconvolgimento! Combatterò per la dichiarazione dei diritti dell'uomo; ma se
debbo difendere il regno dello Spirito Santo contro la chiesa, o l'eresia de'
gnostici contro i cristiani, o i sacrifizi umani dell'antico mondo contro i
Romani che li abolivano, in una parola se debbo confondere la mia causa contro
i potenti con cause già vinte dal progresso, allora sostituisco il torto alla
ragione, e lascio la ragione ai potenti.
Quanto dico
della metafisica della guerra relativamente al passato, applicasi alla guerra
relativamente all'avvenire. Anche qui le antitesi filosofiche si fan giuoco
della ragione; si esce metafisicando a fondare la desiderata umanità, sia colla
pace proclamata dappertutto e per sempre, sia colla guerra a dispetto di tutti.
Vediamo riprodursi nella guerra della propaganda rivoluzionaria l'antitesi
della guerra interna contro governi retrogradi. Si dice: «Volete voi liberare i
popoli? Non si dà libertà con la forza, la forza è tirannica;» ecco l'ipotesi
della pace sempiterna, ipotesi che vilipende le guerre della Convenzione e di
Napoleone. Si può mostrare che la guerra decade come lo Stato, come la pena: si
può mostrare che l'industria de' conservatori la paventa qual disastro economico,
che l'industria resa al popolo la paventerebbe qual catastrofe sociale. Ma se
rinunziate alla guerra, se volete che l'umanità sorga dalla pace, che sorgerà
dalla pace se non l'opera della santa alleanza, collo statu quo
desiderato dai ricchi e dai patrizi? Chi muterà la geografia politica della
cristianità, l'equilibrio dei tranelli, delle insidie e dell'oppressione se
nessuno vi pon mano? D'altra parte. si dice: la guerra!... tesi troppo
necessaria: i tre quarti della terra sono nelle mani dei barbari, i tre quarti
dall'Europa sono nelle mani dei signori, che comandano dappertutto. Siamo
ancora condannati alla guerra, precisamente perchè proponiamo la pace. Ma se la
guerra non è preparata, se la libertà: non è assicurata all'interno, se il
popolo liberatore non è libero, se i combattenti sono schiavi di mente, se
hanno il nemico interno minaccioso alle spalle, se chi precipita la guerra
desidera la sconfitta, se spingonsi i popoli sul campo di battaglia perdè
dimentichino la rivoluzione, come accadeva in Francia nel 92, in Italia nel 48,
allora accetterete voi il tradimento della guerra? La tesi metafisica che lo
invoca dà ragione all'antica società, perchè cerca la nuova società non nei
principj, non nelle idee, non nel rinnovamento dell'uomo vitale e morale, ma
negli espedienti, nelle finzioni, nei miseri cavllli del martirio, del caso,
dell'esempio; e la vittoria resta al nemico. Atteniamoci alla rivelazione, al
fatto, ai motivi reali o positivi; la guerra è come la spada ottima e pessima,
d'impaccio e di difesa, e nella sua astrattezza rimane sospesa tra il sì e il
no, variamente concetta nei diversi sistemi tutti impotenti.
Mi fermo:
credo inutile il fare applicazioni ulteriori: il mio intento era di evitare i
dilemmi critici sottomettendo la ragione alla triplice rivelazione degli
esseri, della vita e del dovere; la critica travolge l'universo intero,
partendo da un primo ragionamento che distrugge l'alterazione: la verità si
ristabilisce nell'universo intero, partendo dall'unica idea di sottomettere la
logica alla rivelazione. La logica ci poneva ad ogni passo l'inciampo d'un
dilemma, la rivelazione ci toglie di continuo al dubbio col fatto. Ci basta
aver tracciato i primi principj di una filosofia della rivelazione naturale;
ora possiamo indicare il sistema della nostra rivelazione, il dogma che deve
succedere ai dogmi dei rivelatori sacri e dei sistemi metafisici.
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