Capitolo
V
LA DECADENZA DEL CRISTIANESIMO
La rivelazione
naturale ha definitivamente condannata la rivelazione cristiana e da tre secoli
si manifesta nel mondo una nuova verità, una nuova vita, una nuova morale;
triplice manifestazione che distrugge l'antica rivelazione.
La natura
esplorata dalla fisica più non può essere il teatro della redenzione cristiana.
Quell'Eden, quegli alberi della scienza e della vita, quegli angeli dalle spade
di fuoco, tutto quel dramma che incomincia nel paradiso terrestre e si svolge
attraverso il mondo antidiluviano, la famiglia di Abramo, il popolo ebreo e la
nascita di Cristo scompaiono quali vaneggiamenti dell'infanzia umana. La storia
dei popoli si ribella contro la tradizione degli Ebrei, ne distrugge gli eroi,
le leggende, i miracoli; essa mostra che Cristo è nato più volte prima di
sorgere in Gerusalemme, che i dodici apostoli hanno circondato Budda prima di
seguire il Redentore, che la Vergine ha visitati i templi dell'India prima di
giungere a Betlemme. La rivelazione cristiana si è sviluppata coll'analogia,
colla visione, colla finzione. Invano Cristo fu prudente, la scienza gli toglie
la favola del testamento antico, l'allucinazione de' patriarchi, gli ossessi
del vangelo, l'estasi di Giovanni di Patmos. Il delirio della Bibbia più non
inganna.
La
rivelazione cristiana è talmente sconfitta, che la confutazione ha cessato e
oramai noi ammiriamo il cristianesimo: per noi non è più un errore, non è più
un inganno; più non ci muove a riso; siamo a tale distanza dal vangelo e dalla
chiesa, che vi troviamo la figura della nostra rivoluzione, in quella guisa che
scoprivasi nel giudaismo la figura del cristianesimo.
Dio padre è
il simbolo della fatalità; egli è inesorabile; egli è l'essere che sta nel
fondo di tutti gli esseri; egli è la guerra universale con cui la natura ci
preme e ci flagella al progresso.
Dio figlio è
l'umanità; egli deve nascere, deve crescere, deve placare il padre, domare la
guerra, consociare gli uomini senza divario di nazione, di origine e di lingua.
Egli vive in noi; il suo spirito discende dovunque due o tre persone si
uniscono in suo nome, si svela quando l'uomo rivendica la sua ragione, che egli
aveva trasportato fuori di sé. E Dio, divenuto la ragione di ogni individuo
liberato dalla rivelazione naturale, promette il riscatto, promette la salvezza
individuale e universale: l'uomo non è più fuori di sè, l'autorità svanisce, la
dominazione scompare, ogni uomo è pontefice e re.
Il cielo
cristiano è la terra; i beni vaghi e indefiniti promessi da Cristo sono i beni
dell'avvenire, che nessuno può nominare. La risurrezione si compirà nella vita,
il premio non sarà nella morte: la riconciliazione del sacrifizio sarà un fatto
di continuo offerto e inutile; che la solidarietà universale degli interessi
provoca la fratellanza, e ne elide il sacrifizio.
La fede
cristiana è stata il simbolo della nostra fede nell'umanità; essa ci deve
sostenere nell'azione, essa ci inspira, essa non aspetta mercede, nè dimanda se
il bene sia possibile. La Bibbia è il simbolo della nostra Bibbia, della storia
ideale dell'umanità, che trovasi in potenza dovunque havvi una famiglia, che
svolgesi identica dovunque scorre il moto dell'umanità, e che conduce
all'apocalisse dell'associazione universale.
La chiesa
rappresentava Cristo, ne perpetuava la vita, la predicazione, la propaganda;
amministrava i sacramenti e dispensava la grazia. Noi siamo la nuova chiesa, la
rivoluzione è il nuovo Cristo, la nuova umanità: dovunque appare, la sua
propaganda si attua colle opere, che si sostituiscono alla figura de'
sacramenti.
Il nostro
battesimo è il battesimo del fuoco; nessuno s'inganna sul giorno e sull'ora in
cui lo riceve. La nostra confermazione si attua nell'istante in cui il
battesimo è messo alla prova, e in cui dobbiamo richiamarci la fede promessa.
La nostra
confessione si fa dinanzi al sommo pontefice della nostra coscienza,
all'esempio di Rousseau e di Franklin.
L'eucaristia
è per noi l'agape, il banchetto; là si comunica materialmente e spiritualmente,
là ogni uomo dimentica la sua persona, e vive della vita di tutti e per
presentarsi al banchetto convien essere battezzati, confessati, preparati;
senza di ciò non si celebra che un'orgia dell'antica società.
Il nostro
ordine ci vien dato dalla vocazione naturale, dalla nostra ispirazione
congiunta colla scienza. Quelli a cui fu accordata la sola ispirazione, la sola
carità, non insegneranno; quelli che hanno solo il sapere senza vocazione, non
predicheranno; quelli che sono spinti a vociferare dall'ambizione o dalla
vanità, non illumineranno alcun uomo.
Il nostro
matrimonio è reso alla natura; dispone della morale e della vita; debb'essere
subordinato alla legge dell'umanità. Cristo lo toglieva al contratto della
patria, alla legge della conquista; Cristo, eguagliava i due coniugi dinanzi
alla chiesa, predestinandoli prima d'ogni cosa ad un'opera cristiana; noi,
rivendicando la nostra ragione che ci era stata involata, sottraendo il
matrimonio alla benedizione, vediamo nell'antico sacramento il simbolo della
nostra famiglia, che eguaglia i due coniugi dinanzi all'umanità, facendo
astrazione, non solo dalla patria, ma da ogni religione.
Nessuno ci
accusi di eccedere nell'interpretazione e di abusare della metafora; la più
grande tra le metafore fu la chiesa. Se non possiamo dare una dimostrazione
esatta del senso, delle sue figure, la colpa non è nostra, è nel simbolismo, il
quale non parla se non alla vita. Così la rivelazione degli esseri ha
condannato per sempre la rivelazione cristiana, che non è più di questo mondo.
Interroghiamo
la rivelazione della vita; anche qui la rivelazione cristiana riceve una nuova
mentita. L'uomo antico è morto cogli antichi dogmi; i patriarchi, i profeti,
gli apostoli, nel mezzo della nostra civiltà, non sarebbero se non barbari.
Ammiriamo noi Abramo più che Socrate? Davide più che Lutero? Ci crediamo noi
gli schiavi degli idoli, qualunque sia la loro natura? Ci sentiamo noi
degradati nascendo? Noi ci sentiamo liberi, ragionevoli, signori naturali del
mondo; noi abbiam fede nella natura, e questo è il sentimento della nuova vita.
Il mondo moderno sorge da questo principio. Paragoniamo Epicuro e Bacone:
entrambi sembrano discepoli di una stessa scuola; l'uno rappresenta l'esperienza
presso gli antichi, l'altro loro rappresentante presso i moderni; entrambi
hanno lo sguardo vòlto verso la natura; entrambi non isperano se non quanto può
essere dato dalla natura. Sono essi animati dalla stessa fede? Epicuro diffida,
non si crede sicuro in un mondo creato dalla cieca divinità del caso; paventa
la fortuna: egli fugge la folla, cerca la solitudine, limita i suoi piaceri; si
direbbe ch'egli vuole annichilarsi per cercare la felicità: la sua fisica non
tende ad altro, che a liberarlo dal timore degli Dei; e quando siffatto scopo è
raggiunto, egli si addormenta nella pace del nulla. Nella vita Epicuro cerca la
solitudine per togliersi al caso degli atomi, nella morte la cerca ancora per
togliersi al caso degli Dei. Veggasi Bacone: egli si ferma nella materia, ma la
scorge animata e ragionevole, la studia per chiederle i prodigi dell'arte; il
suo metodo naturale promette i doni dello spirito santo a tutti gli uomini; la
sua scienza, restringendosi alla terra, vi crea un nuovo mondo, il paradiso
dell'umanità. Quindi l'utopia di Bacone che si propaga ed ingrandisce, la nuova
vita scintillante nell'occhio de' suoi discepoli, quindi le invenzioni e le
scoperte traboccano per tramutare la terra La distanza che separa Epicuro da
Bacone, separa il mondo antico dal mondo moderno, e si ripete ogniqualvolta
paragoniamo i filosofi della nostra era cogli uomini dell'antichità.
Il commercio
e l'industria sono l'opera dei nostri istinti; vivono direttamente sotto il
regno della natura, s'avanzano sempre verso l'ignoto; non si sa mai quale sarà
la scoperta, quali prodigi contiene l'industria del momento; solo è noto
ch'essa modificherà il mezzo in cui viviamo, che ci trasporterà in un mondo
rinnovato, che ivi sorgeranno altre passioni, altre volontà, e che ivi un nuovo
lavoro ricomincerà per sospingerci anch'esso verso una nuova rivoluzione.
L'antichità applaudiva forse all'azione dell'industria e del commercio? No, la
combatteva con un odio sistematico. Atene e Roma la disprezzavano; Sparta la
sopprimeva; Platone, il gran discepolo di Socrate, voleva fondare la sua
repubblica lungi da ogni consorzio, lungi dal mare, perchè il commercio e la
navigazione fossero impossibili. Lo stesso pregiudizio governa il medio-evo; il
commercio, l'industria sono sospetti e disprezzati, il pregiudizio riappare nel
risorgimento; e non si cessa di ripetere che la ricchezza genera il lusso, e
che il lusso corrompe la società. Tutta la saggezza antica lottava contro
l'industria e il commercio; essa aborriva la libertà dell'artigiano invocata
dai moderni; i proletari dell'antichità dimandavano il diritto all'ozio, panem
et circenses; l'operaio moderno vuol vivere lavorando, o morire
combattendo.
Gli antichi non
credevano neppure all'intelligenza dell'uomo. In loro sentenza l'umanità era
decaduta, e pendeva al male, predestinata alla guerra ed alla infelicità. La
riabilitazione era opera eccezionale, non si attuava se non per mezzo della
casta o dell'individuo. La casta e l'individuo supponevano la moltitudine
eternamente incapace di governarsi, eternamente confidava alla tutela dei
legislatori. D'indi le funzioni distribuite, fissate; ogni industria confidata
ad una tribù; le magistrature confinate nella casta privilegiata, dove la
famiglia, l'eredità, l'educazione continuavano e perpetuavano il secreto della
redenzione eccezionale. Quando la casta si scioglie, la riabilitazione rimane
un privilegio individuale: essa s'inviluppa nelle tenebre dei sacri misteri;
Pitagora esige dall'iniziato un silenzio di cinque anni; dappertutto la verità
prende il velo dell'allegoria; essa è un secreto che non devesi comunicare al
profano, al popolo. Nessuno crede alla forza dei principj. Platone traccia il
disegno di una repubblica, e dichiara anticipatamente che il volgo non lo
intenderà; non ispera che il suo concetto possa attuarsi; il disegno stesso
della repubblica suppone che il popolo non sappia mai governarsi. Se Platone
spera, spera in favore della casta cui affida la sua repubblica; se attende
l'attuazione del suo disegno non l'attende se non da un tiranno, che il caso
renderà filosofo. Stabilita la repubblica, Platone non spera di vederla durare,
malgrado l'esperimento della felicità. Egli ci dice in qual modo la sua
repubblica si corromperà, prima di dirci come nascerà. Platone, Aristotele, gli
stoici, tutti gli uomini dell'antichità disprezzavano talmente il volgo,
disperavano della verità a tal punto, che accordavano al savio il diritto di
mentire, di imaginar religioni, d'inventar favole, d'imporle colla forza:
diritto, d'altronde, supposto dalla distinzione che separa l'insegnamento
esoterico dall'insegnamento exoterico, per cui gli antichi disprezzavano in
privato quella religione che rispettavano in pubblico, non credendo possibile
di vincerla.
Da ultimo,
per gli antichi innovare era sinonimo di corrompere. La censura antica si
sgomenta quando vede rimutarsi la musica e la danza. Licurgo si fa promettere
che nessuno toccherà le sue leggi prima del suo ritorno, e muore in esilio per
legare l'immortalità alla patria. Caronda comanda al cittadino che propone una
nuova legge di presentarsi in senato colla corda al collo, e vuole strozzato il
novatore se la legge non è ammessa. Una tetra pedagogia incatena tutti gli atti
del cittadino perchè la città, opera di una sapienza eccezionale, possa durare.
Per noi, al contrario, l'innovare è sinonimo del migliorare, l'immobilità è
sinonimo di corruzione e la storia moderna comincia coll'innovazione: innova la
geografia raddoppiandola; scopre l'artiglieria. la stampa, e i primi tra gli
uomini nuovi chiedono alla filosofia l'arte di fare nuove invenzioni. Credono
che si potrà apprendere la facoltà inventiva come si apprende a leggere ed a
scrivere. Raimondo Lullo vuole colla sua grand'arte dare il genio ad
ogni uomo: Bacone rinnova la stessa promessa. «Il nostro metodo, l'invenzione»,
dice egli, «lascia poco alla penetrazione ed al vigore delle menti: anzi si può
affermare che eguaglia le capacità; che abolisce la superiorità in quella guisa
che se si tratta di tracciare un circolo, il compasso rende eguali i più
inabili ai più esercitati». Anche Campanella pretendeva che la sua filosofia,
sostituendo le parole alle cose, la realtà alle astrazioni, dovesse
moltiplicare le scoperte. Descartes attribuiva al suo metodo tutte le sue
scoperte nelle matematiche. Quando l'esagerazione dei metodi scompare presso i
filosofi del secolo decimottavo, più non si parla se non di mutar l'uomo, di
rifarlo, d'innovare la educazione, le leggi, i governi, la società; e la stampa
si affatica nel celebrare gli inventori, nè si stanca di esaltare i novatori.
Così la sapienza antica trovasi intervertita, la nostra saggezza non vuol
censori, non inquisitori; la nostra vita si affida al principio della libera
concorrenza degli istinti, riposa sull'ipotesi che, lasciato l'uomo al suo pendio,
lasciata l'industria alla sua libertà, abbandonata la discussione a sè stessa,
si giunga naturalmente al vero, al bene, al giusto: ogni nostro lavoro, ogni
nostra invenzione, ogni nostra instituzione non tende se non a raddoppiare il
moto già celere che ci avvia nella libera carriera tracciata dagli istinti,
dalle idee, dalle vocazioni. Ora la vita moderna, qual si rivela nella nostra
società, respinge con disdegno la religione di Cristo. Se guardiamo gli astri,
la via lattea, Sirio, i gruppi delle nebulose svolgono dinanzi a noi l'universo
in una sì sterminata vastità, che la redenzione di Cristo vi rimane perduta
sovra un atomo di sabbia. Se guardiamo alle nostre istituzioni, il sacerdote
cristiano ci ricorda la censura degli antichi; in ogni modo la rivelazione
della vita si congiunge colla rivelazione degli esseri per pronunziare la
decadenza del cristianesimo.
Fin qui
abbiam consultato il vero, abbiamo ascoltata la voce della vita: havvi di più;
dobbiamo intendere la voce della giustizia. Primo dogma del cristianesimo è la
caduta dell'uomo; il cristianesimo ci vuole tutti perversi e delinquenti
nell'atto stesso del nascere; ci nega il diritto e la possibilità di esser
liberi, di governarci da noi; ci vuol servi e maledetti. I cristiani adorano un
Dio nemico del genere umano. Jehovah punisce tutti gli uomini per la colpa di
un uomo; Jehovah fa la natura nemica dell'uomo; Jehovah impone il lavoro qual
pena servile; Jehovah separa gli Ebrei da tutte le genti, comanda la guerra,
promette la conquista di Canaan. Jehovah è la natura ostile, a cui l'umanità
sfugge per la tangente delle grandi conquiste; Jehovah ordinava la schiavitù
del mondo antico, la voleva atroce, si pasceva di stragi, chiedeva vittime
umane sugli altari di Jefte e di Samuele. Ogni nostro progresso è vera lotta
contro di lui. Il secondo dogma del cristianesimo, la redenzione, è un
privilegio odioso quanto la caduta; noi rifiutiamo il patto di Abramo, noi
ripudiamo il sangue di Cristo; appaghi esso l'immane Jehovah; noi non offriamo,
non invochiamo il prezzo di alcuna vita umana; comunque s'interpreti, Cristo
conferma, compie l'antica legge; si rimane nell'antica servitù. Egli crede alla
caduta, non combatte il Dio della maledizione, resta sommesso, è figlio, e
imagina di placarlo e di soddisfarlo facendosi schiavo, facendosi uccidere dal
popolo eletto. Il padre aggradisce l'offerta, lo uccide, lo fa crocifiggere dal
popolo eletto, poi punisce il suo stesso popolo per aver compito il voluto
parricidio; ed è questo il pegno dell'èra nuova: la maledizione antica deve
cessare perchè Jehovah ha oltrepassato la propria ingiustizia punendo il figlio
innocente, quasi fosse l'uno de' figli innocenti di Adamo. La maledizione
cessa, ma negli eletti; cessa, ma la giustizia è grazia, favore; cessa, ma la
libertà degli eletti è ordinata nel vuoto de' cieli; cessa, ma l'eletto vive di
martirio sulla terra, vive nemico di sè, imitatore del supplizio di Cristo,
carnefice d'ogni suo istinto; e se per un istante si ricorda d'esser uomo, è
perduto per sempre, è vittima di Jehovah e di Cristo, unanimi nel furore e
nella vendetta. Cristo deserta la causa degli oppressi nell'atto stesso che la
difende: lascia la terra a Cesare, ai conquistatori, ai barbari; non offre
altro al povero che la derisione del pane eucaristico; lo santifica, ma lo
abbandona affamato alle porte de' palazzi; gli dà a bevere il proprio sangue
versato dal padre, perchè lasci versare il suo sangue da ogni tiranno. Se
Cristo è luce, la sua luce sorge per illuminare l'ingiustizia della terra, senza
toglierla, senza alterarla. Quindi i primi cristiani vivono nell'aspettativa
del millennio, s'attendono alla fine del mondo, alla risurrezione dei corpi;
non pensano ad altro. Quindi i Padri della chiesa son intesi a combattere il
lusso, la ricchezza, la potenza, la scienza; muovono guerra indistintamente,
confusamente a tutte le cose della terra; vogliono che si viva imitando il
suicidio di Cristo. Quindi le virtù monacali de' primi tempi; perpetuate poscia
nei conventi, nel celibato; virtù da insensati, che abbandonano la causa degli
oppressi per lasciare più liberi gli oppressori. La chiesa non apporta nel
mondo alcun principio liberatore, abbandona tutto al caso, non sa ordinare sè
stessa senza copiare il mondo antico. Il clero imita le caste, fonda la chiesa
opponendola all'istinto delle moltitudini; il sacerdote imita il legislatore
antico il sacerdote regna di continuo diffidando de' profani; risuscitando la
censura romana, e diffida di ogni innovazione. Poi la chiesa copia il mondo
romano: essa nomina i suoi proconsoli, i vescovi; riunisce i suoi senati, i
sinodi; elegge il suo imperatore, il papa; invia i suoi diplomatici, i legati;
riproduce il diritto romano nel diritto canonico; poi copia la società feudale,
poi copia tutto, eccetto la libertà. Cristiani! non vi combattiamo perchè siate
nell'errore, non vi combattiamo perchè siate illusi ma vi combattiamo perchè
adorate Dio padre parricida, Dio figlio che consacra il parricidio voluto:
raccontando i delitti de' vostri Dei, voi scandalizzate ogni uomo che nasce. Ci
pretendete ebbri e furenti se cessiamo di credere al miracolo di un'autorità
soprannaturale; e quest'errore vi fa parlare il linguaggio dei bonzi, dei lami,
degli allucinati dell'Oriente; ci credete predestinati all'obbedienza, e il vostro
errore protegge i conquistatori, i re, i princiopi, i figli dei crociati, gli
eredi dei signori e dei banchieri: ogni vostro errore si traduce in ingiuria,
voi siete i difensori di ogni pontefice, che nega il diritto della scienza, voi
difendete ogni condottiere, che nega il diritto alla vera comunione del pane, e
non del sangue, della terra, e non del cielo. Dall'89 in poi avete sentito che
ogni religione era reazione, che ogni dominatore, turco o russo; difendeva il
miracolo, e avete ordinato la santa alleanza di tutte le religioni a difesa di
tutte le dominazioni. Or bene, giunta è l'ora; voi commettete in terra il
delitto che avete supposto in cielo, ogni vizio invoca la religione, ogni
religione mette capo in Cristo. Nel temop degli schiavi il vostro Cristo era
liberatore, nella leggenda divenne: mito: nella verità è capo di una religione,
e perciò stesso ci carpisce la nostra ragione, la nostra coscienza; ci rende
alienati di mente. alienati di cuore; non ci lascia aperto se non il regno
della morte, lo scampo che l'antico vincitore lasciava alla disperazione del
vinto. Ma noi non disperiamo, e il sorriso della derisione che vi sbigottì,
trionferà della ragion di Stato che vi riunisce: il cristiano è morto, l'uomo
deve nascere, è nato, ha già respinto dallo Stato gli apostoli e la Chiesa.
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