SEZIONE TERZA
LA RIVOLUZIONE
Capitolo
I
I PRINCIPJ DELLA RIVOLUZIONE
I principj
della rivoluzione si riducono a due: il regno della scienza e quello
dell'eguaglianza: ogni altro principio è termine medio per sospenderne o per
agevolarne l'azione. I due principj furono inaugurati alla vigilia della
rivoluzione; prima dell'89, li troviamo già immedesimati col destino della
Francia, già accettati dalla poesia che precorre al movimento.
Ciatiamo i
fatti. La Francia ha due rappresentanti, sono Voltaire e Rousseau; l'Europa li
venera, nè mai vi furono dittatori più potenti e più popolari.
Qual'è la
forza di Voltaire? Si esamini meccanicamente, non può essere intesa. Poeta,
Voltaire non è grande come Shakespeare, non è corretto come Racine: la sua
erudizione non arricchisce la filologia d'alcuna scoperta, la sua filosofia si
limita a volgarizzare Locke. Non è abbastanza dotto per lottare con Leibnitz,
non può rivalizzare con Bayle, non sa nemmeno apprezzare Rousseau, che deve
dividere la sua gloria e superarla nel momento dell'azione. Egli è spiritoso,
arguto, istrutto, elegante; tutte qualità secondarie, atte a giustificare
l'accusa che gli vien fatta di essere superficiale. Qual'è, adunque, il secreto
della sua potenza? Egli è l'uomo della vita nuova, nasce nel mondo di Locke,
possiede spontaneo tutte le cognizioni laboriosamente conquistate da Bayle e dai
liberi pensatori; esse formano la sua tradizione, non ne conosce altra. Tutto
in lui concorre ad uno scopo; e quale? egli stesso l'addita: ècrason
l'infâme! Ecco Voltaire. La facilità è il primo carattere del suo genio,
che è genio poetico. Non parlo dei suoi versi o delle sue tragedie, parlo delle
sue lettere, de' suoi romanzi, della sua prosa, in una parola, della sua
ironia. L'ironia erompe dal fondo dell'anima sua, è irresistibile; con un
epigramma annienta errori che avrebbero resistito a più volumi; il pregiudizio
arrossisce, l'impostura è svergognata; nessuno può rimanere accigliato.
L'ironia svela il conflitto tra le due rivelazioni di Cristo e della natura,
svela che l'Europa cristiana è una parodia del vero, che i suoi regni sono
mascherate, orgie, in cui ogni uomo veste gli abiti di un altro tempo e in cui
le funzioni sono distribuite a controsenso: e il poeta moltiplica i punti di
conflitto tra le due rivelazioni; il miracolo soccombe. E la metafisica rovina
in un colla religione: il Candido discopre i deliri di Leibniz, il
ridicolo della Bibbia penetra nella teodicea, e schianta la tradizione di
Descartes meglio di Locke. Ecco il volteranismo: è nemico di Cristo, è il
precursore alla rivoluzione, a cui tolto Voltaire si toglie la vita.
Il dato vitale
della rivoluzione è adunque l'irreligione: il dato morale si trova in Rousseau.
Troppo facile è criticare Rousseau: egli non è mai d'accordo colla scienza, non
sa vincere l'antico meccanismo, non sa indovinare il nuovo, geme nelle angustie
delle ipotesi, è un paradosso continuo; il Contratto sociale,
l'Emilio, non sono libri, come si direbbe, giudiziosi. Che importa?
Rousseau è il poeta della giustizia, l'antica società l'opprime, lo strazia, ed
egli addita schietto il suo scopo, la vuol distrutta, vuol l'eguaglianza a
qualunque patto, vuol abolita l'ineguaglianza che sorge dalla proprietà. Ecco
Rousseau: lasciamo lo scritto contro la proprietà; egli la combatte
dappertutto: egli la combatte quando inveisce contro la tirannia, quando
vitupera i vizi della civiltà, quando disprezza le arti, l'industria, le
scienze, la catena fatale delle istituzioni che sottopongono l'uomo al dominio
dell'uomo. Combatte la proprietà quando vuol l'uomo libero, e desta nel lettore
un'alterezza prima sconosciuta; quando, nuovo Diogene, cerca l'uomo redento
dalla cupidigia nel proprio cuore; quando lo cerca virtuoso tra le Alpi colla
novella Eloisa; quando nell'Emilio vuol crearlo coll'educazione indomito
e invulnerabile tra gli eventi della civiltà; quando lo cerca seduto ne' comizi
senza delegati, senza padroni, sciolto dai sofismi della pubblica salvezza,
della finanza, del commercio, dell'industria. Da ultimo Rousseau combatte la
proprietà quando fa l'apologia de' selvaggi. Preso alla lettera, la tesi di
Rousseau è uno de' luoghi comuni del risorgimento; la letteratura classica
accusò le mille volte le arti, il commercio, la navigazione, il lusso, la
scienza di spingere la società nel moto ingovernabile de' valori per sottrarla
alla previsione del legislatore, e discioglierla. Tutti i retori avevano
declamato contro le delizie di Capua, tutti avevano applaudito il primo Catone
che sbandiva i filosofi da Roma. Rousseau ha copiato l'invettiva del
risorgimento contro la civiltà, ma per dargli un senso nuovo e imprevisto. Gli
antichi, i classici combattevano la civiltà per conservare la proprietà, la
religione, la società; Rousseau è il primo che la combatte per rovesciare la
proprietà, che rende necessaria la religione e ordina la società europea. Gli
antichi credevano che l'uomo è naturalmente inclinato al male, e che il
legislatore può appena educarlo al bene con una forte pedagogia sociale;
Rousseau crede che l'uomo è naturalmente buono, che la proprietà l'ha
pervertito, che gli ha imposto l'errore della religione e le catene de]la
civiltà. Tacito scriveva l'apologia de' Germani, Machiavelli quella degli
Svizzeri; Rousseau li sorpassa le mille volte scrivendo l'apologia de'
selvaggi. Presso i selvaggi, dice egli un fanciullo non comanda a un
vecchio, un imbecille non comanda a un savio, una mano di ricchi non rigurgita
di superfluità, mentre la moltitudine affamata manca del necessario. Che
fare? dicono i derisori; volete rifugiarvi presso i selvaggi? No, siate uomo,
siate cittadino; il selvaggio di Rousseau non è in America, è in noi,
dappertutto ove havvi un uomo, e l'uomo della natura è superiore a tutti i
legislatori; dinanzi a lui il savio de' tempi antichi altro non è più che un
commesso revocabile se governa, e se non governa, un cittadino che dà il suo
voto.
Credo inutile di
provare che i principj di Voltaire e di Rousseau fossero accettati nel
decimottavo secolo: parliamo dell'azione. Supponiamo che un contemporaneo di
Rousseau, prevedendo il futuro, volendo crearlo egli stesso, ordisca una vasta
cospirazione; supponiamo che, antivedendo la fatalità degli avvenimenti che
trasporta le moltitudini di idea in idea, sempre al li là dello scopo prefisso,
egli predisponga una serie d'iniziazioni in guisa, che il bagliore della luce
non sgomenti i più timidi o i meno interessati all'impresa. Che farà? Nella
prima iniziazione predicherà la morale universale, una filantropia generica;
imiterà Petrarca, riunirà le più strane contraddizioni sotto il manto di una
silenziosa ortodossia. Poi trascinerà in una seconda congrega occulta, ignorata
dai primi iniziati, coloro che sentono la necessità di uscire dal vago della
filantropia irriflessiva, senza però retrocedere all'ortodossia: qui Gesù
Cristo e Confucio, i santi e i legislatori saranno posti in un fascio e si
professerà una religione amichevolmente superiore a tutte le religioni. Poi il
cospiratore riunirà in una terza congrega, parimente ignorata, coloro tra gli
iniziati che la religione universale spinge a combattere il regno della forza e
dell'errore: qui la società sarà una cospirazione contro il trono e l'altare,
ma una cospirazione pacifica. Nel discuterla
si svelerà l'imperiosa necessità del combattimento; gli interessi non cedono
che alla dimostrazione della guerra; ecco una congrega superiore. Essa
accoglierà coloro che dichiarano la guerra all'antica società, e la congrega
dominerà l'azione generale delle iniziazioni inferiori, le dominerà perché le
sa fatalmente spinte dalla ragione alla conseguenza desiderata, la quale sarà
di fondare una nuova chiesa occulta, uno Stato in ogni Stato per abbattere il
trono e l'altare. Ma s'ignora ancora che le fondamenta del trono non sono
rinchiuse entro il recinto della corte, e quelle dell'altare non sono rinchiuse
entro il giro del tempio; s'ignora che sono nell'arca ferrata d'ogni banchiere,
nelle terre d'ogni ricco, e in ogni casa prediletta dall'ingiustizia della
ricchezza. S'ignorerà che il trono e l'altare possono sopravvivere in una
repubblica e farla peggiore della monarchia; e forse tra gli iniziati sarannovi
degli ambiziosi che combattono la corte e faranno da re, combattono il clero e
sono impostori. Ecco la necessità di un'ultima iniziazione che diriga tutte le
altre, che le attenda all'ultima conclusione, senza la quale la fatalità rende
inane ogni sforzo. Tale si mostra in oggi a noi la storia della rivoluzione,
tale svelavasi nella massoneria, poi nella società degli Illuminati, fondata da
Weisshaupt.
Tra Voltaire
e Rousseau da una parte, e Weisshaupt dall'altra, havvi tutta la differenza che
passa tra l'ispirazione poetica e un'azione empirica. Voltaire e Rousseau hanno
il dono fatidico dell'arte, che si esprime col bello; leggendoli sentiamo che
la tempesta da essi sollevata nel nostro cuore sarà tranquillata solo nel
giorno in cui il Cristo sarà vinto e l'eguaglianza vittoriosa. I particolari,
le invenzioni, gli accidenti della lotta, tutto rimane nell'ombra, l'ideale
splende solo nell'avvenire. Weisshaupt vuol subito toccarlo con mano, deve
improvvisar tutto, s'ingolfa nell'impossibile: di là gli infiniti precetti con
cui regola il mistero; di là la discussione provocata e soffocata, eccitata e
traviata; e le strane dottrine sulle intenzioni di Cristo, sulle società
antiche e goffi errori frammisti ad altissimi dettati, scempie illusioni
frammiste a previsioni giustissime. Voltaire e Rousseau confidano nella natura,
ne abbracciano le contraddizioni, vedono i partiti che s'ignorano, che si
spingono verso lo scopo, e lasciano alla natura lo scegliere gli iniziatori e
il fissare la sorte di ogni iniziazione: Weisshaupt vede che la rivoluzione ha
più bolge, e per crearle artificialmente, deve negare nell'una quanto afferma
nell'altra, deve combattere nelle prime iniziazioni quanto poi inculca al reggente,
al mago, all'uomo-re; quindi inganna, esagera
l'astuzia del gesuita, s'impone quale autorità, vuol giungere al vero colla
menzogna, alla natura con mille cerimonie copiate dal clero, alla libertà con
un pontificato occulto che la nega ad ogni passo e che sarebbe nullo se fosse
palesato. Voltaire e Rousseau predicano a tutti pubblicamente, indistintamente;
le loro opere offrono mille aspetti variati, contengono tutte le iniziazioni,
son tutte secrete e pubbliche. Quella pagina è diretta a un re che diventa
despota illuminato; questa parla a un pontefice che sopprime i gesuiti; altrove
il vago del classicismo detronizza il Cristo, e lo pareggia al savio; altrove
l'empietà cammina colla fronte alzata, e vuol annientare la civiltà per
giungere all'eguaglianza; e se il pontefice, se il re metton mano alla
rivoluzione, nessuno li inganna, s'illudono da sè, e forse son traditi dal
pensiero di ingannarla. Weisshaupt proponevasi di morire sommo pontefice
assolutamente ignorato da infiniti credenti che riceverebbero i suoi ordini, e
moriva inutile; nè dirigeva alcuno nell'ora dell'azione. Pure l'empirismo
stranamente ingegnoso della cospirazione da lui concepita, mostra che intendeva
a redimere l'uomo alienato di mente e di cuore, a rendergli la ragione che
aveva trasportata in Dio e ad assicurargli la libertà, impossibile nell'atto
finchè sussiste l'ineguaglianza dei beni.
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