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Giuseppe Ferrari
Filosofia della rivoluzione

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  • PARTE PRIMA   CRITICA DELL'EVIDENZA
    • SEZIONE SECONDA   IL PENSIERO
      • Capitolo III   I PENSIERI E IL MONDO S'ESCLUDONO
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Capitolo III

 

I PENSIERI E IL MONDO S'ESCLUDONO

 

Benchè deliberati a concentrarci in noi stessi, non possiamo dimenticare la natura; essa ci investe colle sue imagini; e noi dobbiamo supporla ad ogni istante. Le nostre idee si riferiscono al generi, le nostre percezioni alle cose, i nostri pensieri agli oggetti; ogni fenomeno interno corrisponde ad un fenomeno esterno. Possiamo noi passare logicamente dai fenomeni interni agli esterni? In altri termini, possiamo noi provare che il mondo esiste, che non è un sogno, che non siamo soli nell'universo? Le tre forme della logica ci proibiscono di uscire dal nostro io per dimostrare l'esistenza delle cose.

L'identità si oppone a questa dimostrazione. La distinzione tra noi e le cose è schietta, profonda; egli è impossibile di confondere il pensiero colle cose, la credenza coll'oggetto della credenza; e se il mondo è fuori di me, io non posso conoscerlo senza cessare di essere io. Per l'identità non si troverà il passaggio dall'io al non-io, se non quando i due termini saranno identificati, cioè quando sarà tolta la possibilità stessa di transire dall'uno all'altro. - La forma della equazione trovasi egualmente impotente. L'affermazione del giudizio non è uguale all'oggetto affermato; la percezione non è uguale alla cosa percetta. Se questa eguaglianza esistesse, il mondo sarebbe il mio proprio pensiero fuori di me. - La deduzione ci rifiuta alla sua volta il passaggio dall'io al non-io, non potendo noi trovargli la premessa, il termine medio.

La premessa manca, perchè noi non sappiamo se il punto di partenza della dimostrazione del non-io dev'essere preso in noi o fuori di noi. La psicologia esige che il punto di partenza sia in noi; essa mi ha isolato, dunque tocca a me ad uscire dalla mia solitudine; essa mi ha mostrato il mondo nelle mie credenze, ne' miei pensieri, dunque spetta alle mie credenze, a' miei pensieri il fornire la premessa alla dimostrazione della natura. Ma la fisica reclama anche essa il punto di partenza; è dessa che dispiega dinanzi a noi lo spettacolo dell'universo e che domina i nostri pensieri; i pensieri non sarebbero se la natura non fosse, e la natura vuole che il ragionamento passi dalle cose ai pensieri, dal non-io all'io. Ecco due punti di partenza opposti, il dilemma è esatto, la scelta impossibile. Secondo la psicologia il mondo è in me, sta a me il verificarlo; secondo la fisica io sono nel mondo, appartiene alla natura il dimostrare la mia esistenza. Da un lato le cose dipendono dall'intelletto, che le conosce, dall'altro la cognizione dipende dalle cose da conoscersi: l'io e il non-io si presentano vicendevolmente come la condizione l'uno dell'altro; la premessa di ogni dimostrazione cade in un circolo vizioso, diventa impossibile.

Il termine medio per dimostrare l'esistenza della natura ci manca, come ci mancano le premesse. Interroghiamo il senso comune. La fede di ogni uomo nelle cose esteriori si fonda sulla necessità di trovare fuori di noi la causa dei fenomeni che si oppongono a noi. Si dice: io non posso essere la causa degli ostacoli che incontro; io devo lottare, combattere contro la natura; io agisco, io soffro; son felice, infelice mercè le apparenze che mi circondano. Come potrei credermi solo? Isolato, sarei nel tempo stesso attivo e passivo, aggressore e difensore, amico e nemico di me stesso; ciò non è possibile; dunque io sono sottoposto all'azione di cause estranee al mio essere; dunque vi è qualche cosa fuori di me; dunque io non sono solo co' miei pensieri, non sono un solitario allucinato. Tale è il ragionamento adottato dal senso comune, ed è un ragionamento in cui l'io figura come un corpo in mezzo ai corpi, o se si vuole, come un essere in mezzo agli esseri. Il termine medio del ragionamento, o piuttosto l'unico appoggio della dimostrazione si fonda sull'idea di azione e di reazione, di causa e d'effetto; le quali idee sono già distrutte dalla logica, che le mostra contraddittorie, impossibili. Quindi il ragionamento del senso comune pecca nella base. - Alcuni gli danno un'altra forma e dicono: «I fenomeni della natura multipli e variati si oppongono all'unità dell'io; ne consegue che noi non siamo soli coi nostri pensieri, perchè scopriamo in noi la lotta, la discordia, la guerra.» La discordia implica essa veramente l'esistenza di due o più esseri? Io vedo la discordia nel fondo di ogni individuo, la vedo in ogni essere sempre uno e multiplo, la vedo in ogni atto sempre emergente dalla lotta dei contrari: se la discordia, se la guerra sono le sole ragioni per negare ch'io sia isolato, dichiarate che ogni oggetto è doppio in e fuori di , e che la natura si compone di due nature, l'una esteriore e opposta all'altra. Del resto, se si cerca una causa ai fenomeni dell'io, perchè la causa sarebbe piuttosto fuori di me che in me? La varietà e l'alterazione che si manifestano in me possono uscire egualmente dal mio proprio fondo o da un'azione degli oggetti esterni: nel primo caso, il vizio originale dell'alterazione si presenta una volta, e nel secondo si ripete due volte, si sviluppa col mistero de' rapporti tra l'io e il non-io, e la contraddizione si raddoppia. Che prova adunque la dimostrazione della natura adottata dal senso comune? Nulla, se non che vi hanno due grandi apparenze distinte, l'io e il non-io, il pensiero e la natura, la psicologia e la fisica; ma la logica non trova identità, equazione, deduzione tra questi due termini che si contrappongono.

Non potendo raggiungere il mondo esterno, la psicologia può disperare delle sue forze, e dare una forma logica alla propria disperazione. Se noi non possiamo uscire da noi stessi, se la natura si sottrae a tutte le nostre dimostrazioni, se opponsi ai nostri propri pensieri per provocarci ad una lotta inutile, possiamo considerarla come un'apparenza erronea, come un'illusione dello spirito.

Qui noi siamo soli, ogni cosa emana da noi, le cose sono fatte dal nostro intelletto, come da un'irradiazione ingannevole della nostra propria sostanza. Ma il sacrificio del mondo esterno non basta ancora ad appagare la logica. Non c'è dato di uscire da noi stessi, non c'è dato neppure d'isolarci; questa stessa parola d'isolamento, questa parola io suppone qualche cosa di esteriore da cui noi vogliamo distinguerci. L'io e il non-io stanno insieme come la destra e la sinistra, l'alto e il basso, il più e il meno, e tutti i contrari. Per fondare l'ipotesi su l'uno de' contrari bisognerebbe sceglierlo giustificando la scelta, e noi abbiamo dinanzi a noi due apparenze, il pensiero e le cose, l'io e il non-io, egualmente evidenti. La psicologia s'impadronisce dell'io, lo isola, e considera il non-io come l'errore del mio pensiero; ma il non-io è altresì un fatto, ha gli stessi diritti, e pertanto sviluppa l'ipotesi opposta: mentre la psicologia considera la natura come l'errore fatale contrapposto a' nostri pensieri; la possibilità contraria ci ferma, travolge l'ipotesi, e siamo costretti a considerare la natura come sola e isolata, come la madre universale di tutti i fenomeni, compreso quello del pensiero, ch'io chiamo mio per illusione. Tutte le ragioni che m'inclinano a non vedere nella natura che l'errore dell'io, si rovesciano per presentarmi il mio pensiero come l'errore della natura, e la mia esistenza personale come l'ombra delle cose. Dunque l'ultimo atto della disperazione psicologica trovasi paralizzato dalla fisica nell'istesso istante in cui vien concepito; la possibilità di spiegare ogni cosa col pensiero è intervertita dalla possibilità di spiegare ogni pensiero colla natura, l'ipotesi che nega la natura è attraversata dall'ipotesi che nega la mia esistenza.

Concesso che la psicologia potesse isolarsi, dovrebbe pure rendere ragione del mondo come d'un errore dello spirito, e fallirebbe nuovamente nell'impresa. Che cos'è un errore? È un fenomeno vinto dal numero dei fenomeni che lo circondano; l'errore vien condannato come l'opera della nostra organizzazione, ma esso appare, ed esiste allo stesso titolo di tutte le altre apparenze che chiamansi realtà. Dunque nell'errore vi ha un che, un fenomeno relativo a noi, e che noi sacrifichiamo ad apparenze più forti per la quantità, ma non per la qualità. Se sacrifichiamo l'allucinazione, ciò non è perchè non appaia, non è che la sua apparenza sia più debole delle altre apparenze colorate, non è che si possa distruggerla; ma il tatto, l'udito, la testimonianza degli uomini, tutto prova che essa è figlia dei nostri organi. Istessamente i nostri sogni non sono distrutti dalla veglia, ma sono confinati nella nostra imaginazione dalla testimonianza di tutti i sensi dell'uomo svegliato. Allorchè dunque si spiega il mondo come un errore, vien riguardato come l'allucinazione dell'io, come il sogno del pensiero; ma non viene distrutto, non iscompare punto: ci limitiamo a considerarlo quale alterazione speciale, strana del pensiero che si raddoppia, presentando una nuova apparenza, per cui vediamo i nostri giudizi afferrar le cose, poi le cose stesse afferrate e illusoriamente disgiunte dall'io che le afferma. Ma questo raddoppiamento, questa alterazione sono vere contraddizioni logiche; lungi dallo spiegare il fenomeno, non possono essere spiegate. I nostri pensieri non possono diventare ciò che non sono, raddoppiarsi nell'errore del non-io, darci l'apparenza di ciò che non esiste. Se vuolsi credere che si alterino o che sognino, per così dire, un mondo, perchè non supporre altresì, che si alterino per fare realmente gli oggetti? Ammessa l'alterazione, non ci pesa più il crederci visionari che il crederci creatori, e non è maggior meraviglia in logica il vedere i pensieri trasformati in errori per darci l'apparenza dei corpi, che il vedere i nostri pensieri occupare realmente le tre dimensioni dello spazio, farsi solidi, diventar corpi e mettersi in moto. Finalmente, lo ripeto, il processo equivoco dell'errore può essere egualmente usurpato dalla fisica, che ha il diritto di intervertire l'ipotesi psicologica e di negare l'io come se fosse un sogno della natura. Ma se la natura si contraddice fino ad alterarsi, se si áltera fino ad opporsi a stessa nell'io, perchè non supporre che giunga nel pensiero a separarsi da stessa, divenendo l'io in realtà e non per errore? La contraddizione non ammette gradi; havvi contraddizione nei due casi, e se siamo deliberati a disprezzarla, ogni cosa è possibile; non dobbiamo risparmiare i miracoli; bisogna concedere tutte le trasformazioni richieste dalle apparenze.

Riassumiamo: allorchè noi vogliamo dimostrare l'esistenza delle cose esteriori, la premessa ci manca perchè reclamata con egual forza dal pensiero e dalla natura, in guisa che si aggira in un circolo vizioso. Il termine medio ci manca anch'esso, anticipatamente distrutto dalle contraddizioni della fisica e della psicologia. Non possiamo nemmeno appagare la logica sacrificando la natura, perchè la natura pretende di sacrificare l'io, per le stesse ragioni che ci consigliano di sacrificare il non-io. Se poi ci decidiamo capricciosamente al sacrifizio, ci resta ancora la missione di spiegare un errore o dello spirito o della natura; e la spiegazione dell'errore sarà assurda, quanto la creazione del mondo per mezzo del pensiero, o del pensiero per mezzo del mondo.

 

 




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