Capitolo
III
I PENSIERI E IL MONDO S'ESCLUDONO
Benchè
deliberati a concentrarci in noi stessi, non possiamo dimenticare la natura;
essa ci investe colle sue imagini; e noi dobbiamo supporla ad ogni istante. Le
nostre idee si riferiscono al generi, le nostre percezioni alle cose, i nostri
pensieri agli oggetti; ogni fenomeno interno corrisponde ad un fenomeno
esterno. Possiamo noi passare logicamente dai fenomeni interni agli esterni? In
altri termini, possiamo noi provare che il mondo esiste, che non è un sogno,
che non siamo soli nell'universo? Le tre forme della logica ci proibiscono di
uscire dal nostro io per dimostrare l'esistenza delle cose.
L'identità si
oppone a questa dimostrazione. La distinzione tra noi e le cose è schietta,
profonda; egli è impossibile di confondere il pensiero colle cose, la credenza
coll'oggetto della credenza; e se il mondo è fuori di me, io non posso
conoscerlo senza cessare di essere io. Per l'identità non si troverà il
passaggio dall'io al non-io, se non quando i due termini saranno identificati,
cioè quando sarà tolta la possibilità stessa di transire dall'uno all'altro. -
La forma della equazione trovasi egualmente impotente. L'affermazione del
giudizio non è uguale all'oggetto affermato; la percezione non è uguale alla
cosa percetta. Se questa eguaglianza esistesse, il mondo sarebbe il mio proprio
pensiero fuori di me. - La deduzione ci rifiuta alla sua volta il passaggio
dall'io al non-io, non potendo noi trovargli nè la premessa, nè il termine
medio.
La premessa
manca, perchè noi non sappiamo se il punto di partenza della dimostrazione del
non-io dev'essere preso in noi o fuori di noi. La psicologia esige che il punto
di partenza sia in noi; essa mi ha isolato, dunque tocca a me ad uscire dalla
mia solitudine; essa mi ha mostrato il mondo nelle mie credenze, ne' miei
pensieri, dunque spetta alle mie credenze, a' miei pensieri il fornire la
premessa alla dimostrazione della natura. Ma la fisica reclama anche essa il
punto di partenza; è dessa che dispiega dinanzi a noi lo spettacolo dell'universo
e che domina i nostri pensieri; i pensieri non sarebbero se la natura non
fosse, e la natura vuole che il ragionamento passi dalle cose ai pensieri, dal
non-io all'io. Ecco due punti di partenza opposti, il dilemma è esatto, la
scelta impossibile. Secondo la psicologia il mondo è in me, sta a me il
verificarlo; secondo la fisica io sono nel mondo, appartiene alla natura il
dimostrare la mia esistenza. Da un lato le cose dipendono dall'intelletto, che
le conosce, dall'altro la cognizione dipende dalle cose da conoscersi: l'io e
il non-io si presentano vicendevolmente come la condizione l'uno dell'altro; la
premessa di ogni dimostrazione cade in un circolo vizioso, diventa impossibile.
Il termine
medio per dimostrare l'esistenza della natura ci manca, come ci mancano le
premesse. Interroghiamo il senso comune. La fede di ogni uomo nelle cose
esteriori si fonda sulla necessità di trovare fuori di noi la causa dei
fenomeni che si oppongono a noi. Si dice: io non posso essere la causa degli
ostacoli che incontro; io devo lottare, combattere contro la natura; io agisco,
io soffro; son felice, infelice mercè le apparenze che mi circondano. Come
potrei credermi solo? Isolato, sarei nel tempo stesso attivo e passivo,
aggressore e difensore, amico e nemico di me stesso; ciò non è possibile;
dunque io sono sottoposto all'azione di cause estranee al mio essere; dunque vi
è qualche cosa fuori di me; dunque io non sono solo co' miei pensieri, non sono
un solitario allucinato. Tale è il ragionamento adottato dal senso comune, ed è
un ragionamento in cui l'io figura come un corpo in mezzo ai corpi, o se si
vuole, come un essere in mezzo agli esseri. Il termine medio del ragionamento,
o piuttosto l'unico appoggio della dimostrazione si fonda sull'idea di azione e
di reazione, di causa e d'effetto; le quali idee sono già distrutte dalla
logica, che le mostra contraddittorie, impossibili. Quindi il ragionamento del
senso comune pecca nella base. - Alcuni gli danno un'altra forma e dicono: «I
fenomeni della natura multipli e variati si oppongono all'unità dell'io; ne
consegue che noi non siamo soli coi nostri pensieri, perchè scopriamo in noi la
lotta, la discordia, la guerra.» La discordia implica essa veramente
l'esistenza di due o più esseri? Io vedo la discordia nel fondo di ogni
individuo, la vedo in ogni essere sempre uno e multiplo, la vedo in ogni atto
sempre emergente dalla lotta dei contrari: se la discordia, se la guerra sono
le sole ragioni per negare ch'io sia isolato, dichiarate che ogni oggetto è
doppio in sè e fuori di sè, e che la natura si compone di due nature, l'una
esteriore e opposta all'altra. Del resto, se si cerca una causa ai fenomeni
dell'io, perchè la causa sarebbe piuttosto fuori di me che in me? La varietà e
l'alterazione che si manifestano in me possono uscire egualmente dal mio
proprio fondo o da un'azione degli oggetti esterni: nel primo caso, il vizio
originale dell'alterazione si presenta una volta, e nel secondo si ripete due
volte, si sviluppa col mistero de' rapporti tra l'io e il non-io, e la
contraddizione si raddoppia. Che prova adunque la dimostrazione della natura
adottata dal senso comune? Nulla, se non che vi hanno due grandi apparenze
distinte, l'io e il non-io, il pensiero e la natura, la psicologia e la fisica;
ma la logica non trova nè identità, nè equazione, nè deduzione tra questi due
termini che si contrappongono.
Non potendo
raggiungere il mondo esterno, la psicologia può disperare delle sue forze, e
dare una forma logica alla propria disperazione. Se noi non possiamo uscire da
noi stessi, se la natura si sottrae a tutte le nostre dimostrazioni, se opponsi
ai nostri propri pensieri per provocarci ad una lotta inutile, possiamo
considerarla come un'apparenza erronea, come un'illusione dello spirito.
Qui noi siamo
soli, ogni cosa emana da noi, le cose sono fatte dal nostro intelletto, come da
un'irradiazione ingannevole della nostra propria sostanza. Ma il sacrificio del
mondo esterno non basta ancora ad appagare la logica. Non c'è dato di uscire da
noi stessi, non c'è dato neppure d'isolarci; questa stessa parola d'isolamento,
questa parola io suppone qualche cosa di esteriore da cui noi vogliamo
distinguerci. L'io e il non-io stanno insieme come la destra e la sinistra,
l'alto e il basso, il più e il meno, e tutti i contrari. Per fondare l'ipotesi
su l'uno de' contrari bisognerebbe sceglierlo giustificando la scelta, e noi
abbiamo dinanzi a noi due apparenze, il pensiero e le cose, l'io e il non-io,
egualmente evidenti. La psicologia s'impadronisce dell'io, lo isola, e
considera il non-io come l'errore del mio pensiero; ma il non-io è altresì un
fatto, ha gli stessi diritti, e pertanto sviluppa l'ipotesi opposta: mentre la
psicologia considera la natura come l'errore fatale contrapposto a' nostri
pensieri; la possibilità contraria ci ferma, travolge l'ipotesi, e siamo
costretti a considerare la natura come sola e isolata, come la madre universale
di tutti i fenomeni, compreso quello del pensiero, ch'io chiamo mio per
illusione. Tutte le ragioni che m'inclinano a non vedere nella natura che
l'errore dell'io, si rovesciano per presentarmi il mio pensiero come l'errore
della natura, e la mia esistenza personale come l'ombra delle cose. Dunque
l'ultimo atto della disperazione psicologica trovasi paralizzato dalla fisica
nell'istesso istante in cui vien concepito; la possibilità di spiegare ogni
cosa col pensiero è intervertita dalla possibilità di spiegare ogni pensiero
colla natura, l'ipotesi che nega la natura è attraversata dall'ipotesi che nega
la mia esistenza.
Concesso che
la psicologia potesse isolarsi, dovrebbe pure rendere ragione del mondo come
d'un errore dello spirito, e fallirebbe nuovamente nell'impresa. Che cos'è un
errore? È un fenomeno vinto dal numero dei fenomeni che lo circondano; l'errore
vien condannato come l'opera della nostra organizzazione, ma esso appare, ed
esiste allo stesso titolo di tutte le altre apparenze che chiamansi realtà.
Dunque nell'errore vi ha un che, un fenomeno relativo a noi, e che noi
sacrifichiamo ad apparenze più forti per la quantità, ma non per la qualità. Se
sacrifichiamo l'allucinazione, ciò non è perchè non appaia, non è che la sua
apparenza sia più debole delle altre apparenze colorate, non è che si possa
distruggerla; ma il tatto, l'udito, la testimonianza degli uomini, tutto prova
che essa è figlia dei nostri organi. Istessamente i nostri sogni non sono
distrutti dalla veglia, ma sono confinati nella nostra imaginazione dalla
testimonianza di tutti i sensi dell'uomo svegliato. Allorchè dunque si spiega
il mondo come un errore, vien riguardato come l'allucinazione dell'io, come il
sogno del pensiero; ma non viene distrutto, non iscompare punto: ci limitiamo a
considerarlo quale alterazione speciale, strana del pensiero che si raddoppia,
presentando una nuova apparenza, per cui vediamo i nostri giudizi afferrar le
cose, poi le cose stesse afferrate e illusoriamente disgiunte dall'io che le
afferma. Ma questo raddoppiamento, questa alterazione sono vere contraddizioni
logiche; lungi dallo spiegare il fenomeno, non possono essere spiegate. I nostri
pensieri non possono diventare ciò che non sono, nè raddoppiarsi nell'errore
del non-io, nè darci l'apparenza di ciò che non esiste. Se vuolsi credere che
si alterino o che sognino, per così dire, un mondo, perchè non supporre
altresì, che si alterino per fare realmente gli oggetti? Ammessa l'alterazione,
non ci pesa più il crederci visionari che il crederci creatori, e non è maggior
meraviglia in logica il vedere i pensieri trasformati in errori per darci
l'apparenza dei corpi, che il vedere i nostri pensieri occupare realmente le
tre dimensioni dello spazio, farsi solidi, diventar corpi e mettersi in moto.
Finalmente, lo ripeto, il processo equivoco dell'errore può essere egualmente
usurpato dalla fisica, che ha il diritto di intervertire l'ipotesi psicologica
e di negare l'io come se fosse un sogno della natura. Ma se la natura si
contraddice fino ad alterarsi, se si áltera fino ad opporsi a sè stessa
nell'io, perchè non supporre che giunga nel pensiero a separarsi da sè stessa,
divenendo l'io in realtà e non per errore? La contraddizione non ammette gradi;
havvi contraddizione nei due casi, e se siamo deliberati a disprezzarla, ogni
cosa è possibile; non dobbiamo risparmiare i miracoli; bisogna concedere tutte
le trasformazioni richieste dalle apparenze.
Riassumiamo:
allorchè noi vogliamo dimostrare l'esistenza delle cose esteriori, la premessa
ci manca perchè reclamata con egual forza dal pensiero e dalla natura, in guisa
che si aggira in un circolo vizioso. Il termine medio ci manca anch'esso,
anticipatamente distrutto dalle contraddizioni della fisica e della psicologia.
Non possiamo nemmeno appagare la logica sacrificando la natura, perchè la
natura pretende di sacrificare l'io, per le stesse ragioni che ci consigliano
di sacrificare il non-io. Se poi ci decidiamo capricciosamente al sacrifizio,
ci resta ancora la missione di spiegare un errore o dello spirito o della
natura; e la spiegazione dell'errore sarà assurda, quanto la creazione del
mondo per mezzo del pensiero, o del pensiero per mezzo del mondo.
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