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Giuseppe Ferrari
Filosofia della rivoluzione

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  • PARTE PRIMA   CRITICA DELL'EVIDENZA
    • SEZIONE SECONDA   IL PENSIERO
      • Capitolo IV   L'IO ED IL PENSIERO SI ESCLUDONO A VICENDA
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Capitolo IV

 

L'IO ED IL PENSIERO SI ESCLUDONO A VICENDA

 

La nostra propria esistenza riscontrata dal pensiero non è meglio d'accordo colla logica, che l'esistenza della natura. Noi crediamo al nostro essere perchè lo sentiamo in ogni nostra facoltà, e sopratutto nella coscienza e nella memoria. Io penso, dunque esisto, cogito, ergo sum, ecco tutta la dimostrazione dell'io pensante. Io vedo che il pensiero è una qualità, dunque suppongo la sostanza che pensa in quella guisa che, vedendo il colore, suppongo un oggetto colorato. Da che dunque dipende la dimostrazione dell'io? Dipende dal vincolo che unisce la qualità e la sostanza, vincolo arbitrario e contraddittorio. Il giudizio io penso dunque esisto, non è che un pensiero, come tutti gli altri pensieri; esso non è identico, uguale all'oggetto al quale si riferisce, si può in alcun modo dedurne l'esistenza dell'io. Il giudizio col quale mi affermo, e la propria esistenza, il pensiero dell'io e l'io pensato trovansi separati da un abisso. Dite quante volte volete: io penso, dunque esisto, io mi sento, io non posso dubitare dell'esistenza della mia persona; queste affermazioni non sono l'io, non sono la mia sostanza, non sono la mia persona; straniere ad essa, non possono dimostrarla.

Noi abbiamo veduto che la logica non ci permette di considerare il mondo esteriore come un errore dell'io; ebbene, la logica non ci permette neppure di considerare l'io come un'illusione del pensiero. Essa vuole che il pensiero e l'io vivano contraddicendosi. Entrambi sono egualmente distinti, egualmente evidenti; veri o falsi, è impossibile di contestare la loro apparenza; come scegliere l'uno de' due termini, rifiutando l'altro quale spurio? La scelta sarebbe arbitraria. Scegliete voi il pensiero? Sì, il pensiero ha un bel diritto alla preferenza, è desso che afferma, che nega, che percepisce, che dimostra; se lo sopprimete, l'io cade nel nulla; se scompare, l'io scompare; se il pensiero è falso, che havvi di vero? Dall'altra parte, l'io presentasi come la condizione del pensiero. All'assioma io penso dunque esisto, l'io oppone schiettamente l'assioma, ciò che non esiste non pensa; e qui sarebbe più vero l'io, che il pensiero; qui la sostanza pensante domina ogni nostro concetto. Il dilemma non può essere sciolto, ogni soluzione può essere intervertita.

Finalmente, se l'io è l'errore del pensiero, quest'errore deve spiegarsi, dev'essere un'alterazione del pensiero; e ammettendo il miracolo dell'alterazione, bisogna compierlo; bisogna credere che l'io s'oppone a stesso per affermare ciò che non è. E se il pensiero può alterarsi, se può mentire, se può vedere all'estremità del giudizio l'illusione della mia esistenza separata dal giudizio stesso, il pensiero deve poter raddoppiarsi, e creare realmente quell'io che afferma. Quando si viola la logica non ci costa più d'esser creatori, che di essere visionari. Ma qui ancora l'ipotesi s'interverte: l'io reclama, pretende che il pensiero sia il suo errore, e se l'io può creare un errore, può creare una verità, poichè non è più difficile il creare l'illusione del pensiero, che il crearne la verità.

Il giudizio io esisto, è continuato da due altri giudizi; col primo si afferma l'unità del nostro io; col secondo si afferma la permanenza dello stesso io, malgrado la successione dei nostri pensieri. Questi due giudizi, anticipatamente annullati dalla critica che ci nega la nostra esistenza, sono annullati di nuovo se noi vogliamo considerarli in stessi.

L'unità dell'io si fonda sulla mia esistenza; essa mi dice che io non sono due o più individui, che io non sono una pluralità, ma bensì una sola ed unica persona; il che può essere riassunto nel detto: io mi sento uno, dunque sono uno. Il sentimento della mia unità, mi offre forse una testimonianza abbastanza sicura? Si può dubitarne. L'io che sento è ne' miei desideri variati; indi passa d'un tratto nella mia volontà, che comprime i miei desideri; poi passa nell'intelletto, osserva i fenomeni del desiderio e della volontà come se gli fossero stranieri; infine, l'io si sposta di nuovo, lascia il giudizio, si trasporta nella riflessione per farsi giudice del giudizio e dei nostri pensieri. Più versatile di Proteo, l'io non solo cambia di forma, ma cambia di posto, di funzione, è in guerra con stesso e mi fa dubitare della mia propria unità. Il sentimento che ho di essere uno non sarebbe combattuto da un sentimento opposto che non dimostrerebbe ancora l'unità dell'io. Tra l'unità della mia coscienza e quella della mia sostanza non havvi identità, equazione, sillogismo. Arrogi, che la mia coscienza è tutt'intera il mio io o una parte di esso; se è il mio io, eccomi tutt'intero nella coscienza, io non sono sostanza alcuna, l'io non esiste. Se la mia coscienza è una parte dell'io, cioè una forma, un effetto, un atto qualsiasi dell'io, l'io sarà composto di più parti, non sarà uno; la coscienza, occupandone solo una parte, dovrà rimanere estranea alle altre parti, e quindi estranea a ciò che non è la coscienza, estranea alla porzione in cui l'io risiede, non pensante, ma sostanza. A che giova adunque la testimonianzaspesso invocata della coscienza? essa esprime una contraddizione, e ci offre lo spettacolo di una facoltà che conosce l'io, e non lo conosce; lo scompone in parti, e lo vuole uno; lo abbraccia nel suo tutto, e ne è solo una parte. Del resto, anche considerando il pensiero della mia unità come un errore, bisogna spiegare l'errore; bisogna render ragione di questo sentimento che abbraccia la totalità del mio essere, afferma la mia unità, e non è tutto il mio essere la mia unità. Da qual forza sarebbe egli spinto a mentire? Lo spiegare la sua menzogna costa alla logica quanto il creare un essere.

Il giudizio: io sono sempre lo stesso, succede a quello che afferma la mia unità, ed è un nuovo mistero. Esso si fonda sulla memoria che mi assicura del mio durare nel tempo, e la memoria è straniera all'io, è una prova che resta sempre fuori della cosa che deve provare, è un fenomeno assolutamente distinto dall'altro fenomeno che gli si contrappone, la durata dell'io. E che? si dirà, il ricordarmi d'aver esistito ieri potrebbe forse appartenere ad un altro individuo? Il durare delle stesse idee e d'una medesima memoria, non sarà forse la migliore prova della mia identità personale? La persistenza dell'io non sarà dessa la condizione che rende possibile alla memoria di durare e di manifestarsi? Questo ragionamento dimostra il perdurare dell'io, dimostrando altresì l'alterazione dell'io, la sua mancanza d'identità, e, se occorre, il suo annientarsi, il suo riprodursi. Dacchè il perdurare della memoria solo attesta la permanenza dell'io, l'alterazione, la perdita della memoria deve far supporre la diminuzione, la perdita dell'io. Nel fatto noi cambiamo, ci alteriamo; in alcune malattie dimentichiamo tutto il nostro passato; la nostra prima infanzia sta sempre separata da noi, dimenticata come se appartenesse ad un altro essere; e se durando la memoria prova l'identità dell'io, scomparendo prova altresì che il nostro individuo cambia. So che non si accetta la conseguenza; si vuole che la memoria sia un mero segno della nostra identità personale; si dice ch'essa non dimostra, non costituisce il durare dell'io, che solo essa lo suppone in quella guisa che la qualità fa supporre la sostanza, o l'effetto la causa; di modo che, scomparendo anche momentaneamente la memoria, resta sempre l'io. Ma l'eterno dilemma si presenta di nuovo. La memoria non crea la durata dell'io, essa non la genera logicamente, essa è solamente un segno, essa è dunque solamente un fatto, un'apparenza che si pone a canto ad un'altra apparenza, il durare dell'io. Alla sua volta il durare dell'io non genera, non crea la memoria; senza vincolo alcuno sanzionato dalla logica si pone a lato dell'io, che appare come la sostanza sta sotto la qualità, cioè arbitrariamente. Voi dite che l'io è la condizione della memoria: e perchè la memoria non sarebbe la condizione dell'io? Sotto un aspetto la permanenza dell'io precede, perchè la memoria sia resa possibile; sotto un altro aspetto la memoria precede, discoprendomi la permanenza del mio essere; da una parte l'io è la condizione della memoria; dall'altra, la memoria è la condizione dell'io; l'opposizione perfetta ci rende impossibile il punto di partenza, e renderebbe inutile ogni termine medio per passare logicamente ad una apparenza all'altra.

Per un tentativo disperato saremmo deliberati a considerare la memoria o l'identità personale come un errore, e ancora noi non sapremmo quale potrebbe essere il termine vero. Egli è possibile che l'identità personale sia solo un'illusione del mio pensiero, e che il mio essere non persista, non perduri e si álteri ad ogni istante. Egli è altresì possibile che la mia memoria sia solo un'illusione del mio io; un'illusione, dico, perchè afferma un'identità parziale, limitata a certo tempo, a certi atti; la memoria allucinata nella follìa afferma un passato, un'identità, che non appartengono alla persona; qualche volta la memoria paralizzata nega un passato da cui è determinato il nostro presente. Dove sarà l'errore? Nella memoria o nella identità personale? Si scelga pure; il problema resterà intatto dopo fatta la scelta, perchè bisognerà spiegare l'errore o della memoria o dell'identità personale; e chi vuol spiegare la durata dell'io come un'illusione della memoria, o la memoria come un'illusione dell'io vuol rendere logica l'alterazione del vero, che diventa falso. In qual modo la memoria, senza cessare di essere ciò che è, potrebbe produrre l'apparenza ingannevole del mio durare? in qual modo il mio durare potrebbe trasformarsi nell'apparenza illusoria della memoria? L'ammettere una simile alterazione vale lo stesso che ammettere la transizione del cambiamento, vale quanto ammettere il passaggio da un termine all'altro col mezzo di una vera creazione, dicendo che la memoria crea la durata dell'io, o che la durata dell'io crea la memoria. E qui si noti che ravvicinai rozzamente i termini opposti, senza elaborare le transizioni che io poteva prendere numerose ne' sistemi de' filosofi, variamente atteggiati e abilmente imaginati per non urtare di fronte con opposizioni immediate. A che avrebbe giovato il percorrere passo passo un labirinto di sottigliezze anticipatamente soppresso dal metodo con cui questa critica è incominciata? So che non si vuol dedurre la memoria dalla durata dell'io, si vuol dedurla da altro; ma il termine altro che s'invoca soccombe alle identiche difficoltà. So che si può accettare il fatto dell'io e della memoria, e passare dall'uno all'altro, dicendo come ogni uomo mi ricordo di ieri, dunque ieri esisteva. Ma chi ha bisogno di conoscere la differenza tra il fatto nudo e il fatto dedotto, non legga più oltre.

 

 




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