Capitolo
II
CRITICA DELLE DIMOSTRAZIONI
DELL'ESISTENZA DI DIO
Tutte le
dimostrazioni dell'esistenza di Dio riduconsi a tre: provasi Dio o per le idee,
o per le cause, o per l'ordine della natura.
La migliore
delle prove, quella che si fonda sulle idee, riducesi al seguente ragionamento:
«È possibile di concepire un essere perfetto, e nessuno può rifiutare questa
facoltà alla nostra intelligenza. In presenza d'ogni oggetto io concepisco un
oggetto superiore in forza, in grandezza, in bellezza; io posso sempre
oltrepassare ogni perfezione finita; oltrepassando il finito, posso concepire
un essere di cui la perfezione è infinita. Ora l'essere che si suppone perfetto
deve riunire tutte le perfezioni; l'esistenza è una perfezione; ed io debbo
aggiungere la perfezione dell'esistenza all'essere che concepisco eccelsamente
perfetto: dunque l'essere perfetto esiste realmente.» Qui gli ostacoli sono
scaltramente schivati. La dimostrazione trova le sue premesse nell'idea della
perfezione, nè richiede altro dato che il mio pensiero, vero o falso, e la
nozione ipotetica della divinità. Era mestieri di passare dalla idea di Dio
all'esistenza di Dio, e il passaggio si attua col mezzo di una equazione. Si
dice: io concepisco un essere che riunisce tutte le perfezioni; l'una di esse è
l'esistenza, dunque l'essere eminentemente perfetto esiste; dunque al colmo
della perfezione si trova l'eguaglianza tra il concetto e l'esistenza, tra il
parere e l'essere: dunque, innalzandosi alla più alta perfezione, il pensiero
sempre immanente al suo oggetto, senza mai toccarlo, finisce per uscire di sè,
per confondersi con la realtà. Esaminiamo questa prova.
Essa dipende
dall'idea di perfezione, che già contiene il germe di una vasta contraddizione.
La perfezione è relativa, si sviluppa in mille sensi opposti, segue tutti i
contrari: la bellezza dell'uomo deformerebbe la donna, la perfezione della
donna è imperfezione nell'uomo; i meriti diventano difetti, e i difetti meriti
secondo gli oggetti. In qual modo imaginare un ente che riunirebbe tutte le
perfezioni possibili? Avrebbe la forza dell'uomo, la grazia della donna, le ali
dell'aquila, l'agilità della gazzella; sarebbe un mostro, sarebbe
l'accozzamento il più contraddittorio di tutte le qualità. Ci vien
raccomandato, anzi imposto, di staccarci dall'imaginazione, e di non concepire
che la perfezione in astratto, la bellezza, la forza, l'intelligenza, ma la
ragione vien meno nello sforzo, e soccombe come l'imaginazione. Io non
comprendo la bellezza che non è la bellezza di alcun oggetto; essa si
ridurrebbe ad una bellezza vaga, quindi equivoca: nel momento in cui vorrò
determinarla, non mancherà di svilupparsi seguendo direzioni opposte. Invano si
dirà: «dinanzi ad ogni opera finita, voi concepite la possibilità di un'opera
superiore; il Partenone è bello senza essere perfetto; senza oltrepassarlo
coll'imaginazione, potete superarlo colla ragione: voi idealizzate gli esseri;
se torna inutile il riunire le perfezioni materiali che sono vere imperfezioni,
potete sempre riunire le perfezioni ideali, e giungere così all'essere
eminentemente perfetto.» Lo ripeto, il lavoro della ragione non serve meglio di
quello dell'imaginazione. Se nel mio spirito ogni oggetto cede sempre alla
possibilità di un oggetto superiore, se posso sempre concepire un'opera che
oltrepassa le opere che mi circondano, se posso ideare l'ente perfetto
all'infinito, la mia concezione resta sempre nei limiti dei generi. Io posso
supporre un letto perfetto all'infinito, una persona bella all'infinito, un
uomo savio all'infinito, e in ogni genere un essere che riassume all'infinito
la perfezione del genere. Finchè rimango nel genere idealizzo gli esseri,
quando voglio riunire in un solo essere la perfezione di molti generi, le forme
si confondono, non vedo che mostri, e se voglio poi riunire le perfezioni di
tutti i generi, il mio spirito si turba, la natura cade nel caos, l'essere
eminentemente perfetto è si strano, che dispare nell'istante stesso in cui ne
parlo, si nega da sé nell'atto stesso in cui lo affermo. Chi potrà dire che cosa
è l'essere eminentemente perfetto in tutti i generi, in tutti i contrari, nel
bene e nel male, nella forza e nella debolezza, nella bellezza e nella
laidezza, nella grandezza e nella piccolezza? Ci vien risposto che il male, la
debolezza, la laidezza, la piccolezza sono imperfezioni; le si vogliono
soppresse, ci si impone di non riunire se non le perfezioni. Or bene cederemo,
eviteremo l'imperfezione, purchè ci sia data la regola per distinguerla dalla
perfezione. Dov'è dunque la perfezione? dov'è il bene? nel fatto della natura o
nella intenzione dell'uomo? La natura sacrifica l'uomo alle sue razze animali,
alla sua sfrenata vegetazione; l'uomo sacrifica le razze animali, le
vegetazioni, la natura al suo proprio destino. Alcuni popoli adorano divinità le
quali sono veri demoni per altri popoli: i pagani si prosternavano dinanzi a
Venere, i cristiani dinanzi alla Vergine; quale sarà la vera perfezione? -
L'accozzamento di tutte le perfezioni in un essere è un'opera grossolana,
un'ipotesi si assurda, che viene abbandonata da quelli stessi da cui viene
proposta. Dopo di avere dimostrato che Dio esiste, i teologi debbono scolparlo
di tutte le imperfezioni che trovansi nel mondo; queste imperfezioni, dicono
essi, sono necessarie; il meglio è nemico del bene; sorpassandosi Dio sarebbe
stato imperfetto; fecerat ille minus si non peccasset. L'imperfezione
sorge adunque dal seno stesso della perfezione.
Concessa la
possibilità di un essere perfetto, siamo pregati di aggiungervi la nuova
perfezione dell'esistenza. L'esistenza è dessa una perfezione? Per sè è nulla:
l'essere e il non-essere sono due nozioni vuote e indeterminate, le quali si
respingono reciprocamente. L'essere non diventa preferibile al non-essere se
non allorchè attribuito a qualche cosa. Io preferisco di essere felice, ma se
si tratta d'infelicità preferisco il non-essere, non voglio essere infelice. Ci
vien dunque imposto un equivoco quando ci si impone di considerare l'essere
come una perfezione; anche qui la perfezione, sempre equivoca, abbraccia l'essere
e il non-essere, si sviluppa in due sensi opposti, e ci conduce alla
contraddizione. Passiam oltre: attribuiamo l'esistenza ad un essere
eminentemente perfetto, ne consegue forse ch'egli esista realmente? La sua
esistenza resta sempre un mio concetto: dicendo che Dio esiste io non esco da
me stesso, rimango co' miei propri pensieri, mi limito a concepire, ad
affermare l'esistenza di un essere perfetto; tra il pensiero dell'essere e
l'essere non havvi nè identità, nè equazione, nè sillogismo.
La conclusione
della prova riproduce la contraddizione. Esiste un essere perfetto: questo
è il risultato della nostra peregrinazione a traverso tutte le possibilità le
più felici. Ma l'essere e la perfezione sono due cose distinte. L'essere è il
genere di tutti generi, abbraccia indistintamente tutti gli esseri, e
indifferente al bene e al male, rimane sempre impassibile. La perfezione, al
contrario, si sviluppa per preferenze; sceglie il bene, raffina tutte le
nozioni, idealizza ogni cosa. L'essere è un genere come l'uomo che contiene
tutti gli uomini, fatta astrazione dalla bellezza, dalla sapienza, dalla virtù
degli uomini migliori; se non contenesse che uomini belli, savi, virtuosi non
sarebbe un genere. All'opposto, la perfezione segue solo la bellezza, la sapienza;
se rimane nella generalità del genere, non è piu' la perfezione. Dunque
l'essere assoluto e l'essere perfetto sono due enti distinti: riuniamoli, è
d'uopo riunirli poichè affermasi un essere assoluto e una perfezione assoluta;
questa riunione ravvicina due termini che si escludono, un Dio impassibile e un
Dio benefico, un Dio generico e un Dio provvidenziale, un ente come la sostanza
di Spinosa, e un verbo generatore come il logos di Platone. - La
dimostrazione dell'esistenza di Dio per mezzo delle idee, a prima vista sì
semplice, sì rigorosa, dà per ultima conseguenza la cieca agglomerazione di
tutte le tesi le più opposte della teologia. Il termine medio della perfezione
si riduce ad un grossolano espediente; il sillogismo si sviluppa in due sensi in
un modo contraddittorio; e la conclusione, lungi dall'evitare le contraddizioni
del mondo, trasporta tutti i contrari nell'idea di Dio. Non potrebbesi
comprendere la fortuna di questa dimostrazione che sedusse Descartes e Leibniz
se le più grandi arditezze della metafisica non fossero in fondo veri atti di
disperazione.
La seconda
prova dell'esistenza di Dio trae la sua forza dalla idea di causa, e prende il
suo punto di partenza nella natura. «Ogni oggetto,» si dice, «suppone una
causa; ogni causa suppone alla sua volta una causa anteriore, e si risale così
di causa in causa senza che mai si possa trovare un termine al regresso. Ma
essendo impossibile che si dia una serie infinita di cause finite, è necessario
di supporre una causa infinita, Dio, che chiude la serie delle cause finite.»
Appena possiamo dire che la prova per le cause abbia la forma della
dimostrazione: essa si fonda su un'assurdità, e la riproduce in intero
limitandosi a spostarla. Se trovasi assurdo di ammettere la riunione del finito
e dell'infinito, se credesi contraddittorio di supporre che un numero di cause
finite sia infinito, non è forse egualmente assurdo il mettere in presenza Dio
e la natura, una causa infinita ed effetti finiti, in altri termini, l'infinito
e il finito personificati in due esseri? Il finito e l'infinito si suppongono
contemporanei, indivisibili nel mio pensiero; io li vedo uniti nel tempo, nello
spazio, in tutta la natura: finchè mi limito ad osservarli e concepirli, io
verifico un fatto materialmente vero, benchè logicamente impossibile: ma quando
io separo i due termini, il mio atto è arbitrario, la separazione ipotetica, e
sono addotto a raddoppiare la contraddizione primitiva perchè la logica mette
nuovamente in guerra l'infinito col finito opponendo Dio colla natura.
Separiamo noi Dio dalla natura? non vi sarà rapporto tra l'uno e l'altra: Dio
cesserà d'essere la causa del mondo, non sarà più che un ente ozioso ed
inutile; quindi la prova di Dio sarà fallita poichè non aveva altro scopo che
di cercare una causa prima e infinita alla serie degli effetti naturali e
finiti. Si suppone, all'opposto, che Dio sia in relazione colla natura? Allora
Dio crea il mondo, lo conserva, lo governa: l'infinito tocca il finito su tutti
i punti dell'universo, e la contraddizione si presenta di nuovo più forte che
mai. Così Dio, che non ha forma, genererà ogni forma; Dio, che è immobile, sarà
la causa del moto; Dio, che non può vivere, sarà la causa della vita; Dio, che
non è nè pensiero, nè luce, nè materia, sarà la causa del pensiero, della luce,
della materia; quindi il pensiero, la luce, la materia procederanno da ciò che
non è nè pensiero, nè luce, nè materia; il mondo sarà creato dalla
contraddizione.
La nozione
stessa della causa, come fu detto, soccombe alla critica, poichè l'effetto e la
causa non esprimono che i momenti dell'alterazione: tra i due termini non vi ha
identità, nè equazione, nè deduzione; si riducono a due apparenze che la natura
unisce e che la critica separa. Separandosi, la causa e l'effetto cadono allo stesso
livello; l'una cessa d'essere la condizione dell'altro; la causa non può più
dominare l'effetto. Anzi nelle interversioni della psicologia, l'effetto domina
la causa: la causa è conosciuta dopo l'effetto, l'effetto la precede, e può
pretendere di essere la causa della causa. Secondo l'apparenza esteriore, Dio
sarà la condizione del mondo; secondo l'apparenza interiore che passa dagli
effetti alle cause, si passerà dalla natura a Dio; io potrò essere la causa e
la condizione dell'esistenza stessa di Dio. E che? voi direte, è forse l'uomo
il creatore di Dio? io lo ignoro; solo io so che non costa più alla logica il
dedurre il riposo dal moto, che il dedurre il moto da un motore immobile:
l'origine del pensiero, della luce e della materia posta in Dio è contraddittoria,
quanto l'origine di Dio attribuita alla luce, alla materia, al pensiero. So
d'altronde, ed è certissimo, che i due termini della causa e dell'effetto son
distinti, che sono egualmente validi, che si escludono a vicenda; e quando si
parla di Dio e della natura, l'opposizione dell'infinito e del finito aggiunge
nuova forza a questa reciproca esclusione. Io so finalmente che due termini
contrari costituiscono sempre un dilemma inevitabile, e che il dilemma di Dio e
della natura ci dispera quanto le altre alternative create dalla discordia
degli elementi che compongono le cose e i pensieri. Dunque da un lato Dio
domina, tiene il mondo in suo potere; egli è l'eterna condizione di tutto
quanto esiste; ci governa, ci costituisce, ci annichila: dall'altro lato, Dio
non è che l'essere spogliato di tutte le qualità, non è alcun oggetto, alcun
pensiero, e per conseguenza gli oggetti ed i pensieri possono credersi
superiori a lui, e dominarlo in forza della loro esistenza positiva e
determinata. A Gerusalemme il miglior discepolo di Socrate, l'uomo che meglio
conosceva la propria natura, poteva chiamarsi figlio di Dio; nelle scuole della
Germania l'uomo che sapeva meglio addentrarsi nel mistero della sua propria
esistenza, Fichte, si dichiarò l'autore della natura, il padre di Dio. Nelle
tradizioni di tutti i popoli Dio fu sempre l'autore della natura, l'artista del
mondo; nella filosofia di Hegel l'essere indeterminato fu eguale al nulla, e il
vero Dio si conosce e si costituisce nel pensiero dell'uomo il più illuminato.
In ultima
analisi, la causa prima dell'universo si ridurrebbe ad un incognita, la quale
sarebbe posta e supposta all'origine della serie de' fenomeni: sarebbe come l'X
dell'algebra, che precederebbe A, B, C, tutti i fenomeni conosciuti: eguale a
zero o eguale a mille, la incognita X non altererebbe alcuna proporzione,
lascerebbe le cose quali sono, non aggiungerebbe, non toglierebbe nulla alle
nostre cognizioni. Se l'insieme di tutti gli astri e di tutti i pianeti fosse
spostato di una lega nello spazio o di un'ora nel tempo, non si vedrebbe
diverso da quello che appare; i fenomeni sarebbero studiati come se lo
spostamento non avesse avuto luogo: nella stessa guisa, dato che Dio fosse
causa, tutte le cause e tutti gli effetti sarebbero quali sono; egli non
avrebbe nulla tolto alla contraddizione universale, ed anzi vi avrebbe aggiunto
le sue proprie contraddizioni.
L'ultima
dimostrazione dell'esistenza di Dio viene suggerita dall'ordine della natura,
essa ci presenta il mondo come un'opera che suppone un autore onnipotente. La
prova per le cause si fondava sull'esistenza stessa del mondo; le bastava che
il mondo esistesse perchè fossimo costretti a credere ad una causa infinita:
ordinato o disordinato, il mondo supponeva sempre un Dio. La dimostrazione per
l'ordine dimentica il mistero delle origini; se occorre, concede che il mondo è
eterno, trascurata la causa si occupa dello scopo e l'ordine della natura le fa
supporre un Dio. La prima dimostrazione, che dipendeva dalle nostre idee, fu
concetta dalla filosofia cristiana; quella che si sviluppa per le cause, era
proposta dalla filosofia pagana; il genere umano fu l'inventore dell'esistenza
di Dio per l'ordine. Le religioni non sono che immense teleologie in cui
la natura viene studiata per indovinare le intenzioni di Dio. Questa
dimostrazione sarebbe dessa la migliore? È la più insufficiente, e quasi tutte
le scuole moderne ne riconoscono unanimemente la debolezza. L'autore del mondo
dev'essere condannato al lavoro di un operaio; bisogna supporgli le passioni,
le facoltà, le intenzioni dell'uomo, e forse bisogna dargli gli stromenti
necessari al suo lavoro. Egli dispone della pioggia, del sole, per fecondare la
terra; la sua missione è di fare che le diverse cose cospirino verso uno stesso
scopo; e quando la sua missione materiale è compita, si riposa o piuttosto
scompare. Non domandiamogli alcuna verità, alcuna certezza; egli non ci
promette di toglierci all'alterazione, al rapporto, alle antinomie della causa
e dell'effetto, della sostanza e della qualità, del finito e dell'infinito.
Egli ignora i misteri della logica, non li sospetta, benchè lo investano e
s'egli si voltasse a guardarli sarebbe fatto statua come la moglie di Loth,
svanirebbe annichilato come gli altri esseri dalla natura. Metafisicamente
insignificante, il Dio dell'ordine non può mettersi d'accordo colla natura
fisica; non è che sia stranissimo l'imaginare l'esistenza di genii viventi ed
invisibili; riconoscerò, se si vuole, l'esistenza degli angeli e degli arcangeli,
pure la supposizione di un Dio autore dell'ordine e re dell'universo, deve
essere autorizzata dall'esperienza; poichè si rinunzia alla certezza assoluta,
si devono seguire le verosimiglianze, le probabilità; poichè si rinunzia alla
metafisica, conviene che la fisica sia interrogata. Ora la verosimiglianza, la
probabilità, l'esperienza ci rifiutano ogni dato per risalire dall'ordine al
Dio invisibile che governa la macchina dell'universo. Tra il fatto e
l'induzione v'ha una distanza indefinita, senza che una traccia qualsiasi ci
guidi nell'attribuire i diversi modi della natura a un essere vivente.
Che più? Il
fatto stesso dell'ordine universale è gratuitamente asserito. Dove prendiamo
noi l'idea dell'ordine? In noi. Noi trasformiamo le cose per subordinarle ad
uno scopo nostro, le sotto-mettiamo ai nostri pensieri, alle nostre intenzioni;
e se il corso delle cose obbedisce alla nostra volontà, allora lo dichiariamo
ordinato. V'ha l'ordine nell'esercito quando ogni cosa è disposta per la
vittoria; vi ha l'ordine nello Stato quando ogni forza concorre al ben essere
generale. Possiamo noi trasportare l'idea dell'ordine fuori di noi? Possiamo
noi applicarla ai fiumi, al sole, alle cose della natura? Ogni essere è desso
predestinato a sostenere una parte nella creazione? Qual'è la parte de' leoni,
de' serpenti, delle rondini? Tutto è mistero. Fuori di noi ogni cosa diventa a
vicenda scopo e mezzo. L'acqua del mare sembra evaporarsi per nutrire la
vegetazione della terra; il vapore sembra non aver altro scopo, che di
condensarsi per cadere in pioggia e scorrere pei fiumi al mare. La terra è
dessa fatta per l'uomo, o l'uomo per la terra? L'animale deve essere
sacrificato all'uomo, o l'uomo all'animale? L'ordine e il disordine appaiono,
spariscono, si alternano a vicenda negli stessi oggetti secondo la nostra
maniera di vedere; Interroghiamo l'insieme della creazione. La serie delle
cause e degli effetti che si svolge dinanzi a noi presenta il triplice aspetto
contraddittorio del progresso, del regresso e del circolo. Da un lato sembra
che tutto sia in progresso; la vita esce dalla morte, lotta contro l'inerzia
mortale della materia, toglie al riposo le cose inanimate, le trascina nel suo
movimento, e pare che ogni atomo di polve attenda il giorno della sua
risurrezione; pare che le creazioni succedendosi si affinino. Dall'altro lato,
sembra che la natura declini, la terra si raffreddi, il sole si spenga, la vita
cessi; l'inerzia, l'immobilità, il riposo della morte appaiono come lo scopo,
al quale tendono tutti gli esseri dell'universo. Per una terza apparenza la
natura si presenta sottoposta alla cieca fatalità di un moto circolare. I
pianeti girano intorno al sole senza stancarsi, il corso delle stagioni è
periodico; gli esseri animati passano dalla veglia al sonno, dall'azione al
riposo, dalla vita alla morte; e ogni oggetto posto tra il diventare ed il
perire, trovasi disposto in modo di aggirarsi in circolo eterno. Qual'è dunque
l'intenzione della natura? Quale è lo scopo dell'universo? Ignorasi
compiutamente; ignorasi dunque tanto l'ordine, come il disordine dell'universo.
La rozza analogia
che passa dall'opera all'autore dell'opera, lungi dall'innalzarci a Dio,
c'induce a supporre la pluralità degli Dei. La natura non è dessa multipla
nelle sue opere? Le intenzioni che presiedono alle diverse regioni della vita e
del moto, non sono forse opposte le une alle altre? Non havvi forse la guerra
tra le razze viventi? E la guerra non si riproduce forse tra gli elementi? La
discordia non è forse nel fondo di ogni cosa? No, uno stesso Dio non potrebbe
essere autore dell'ordine e del disordine, della vita e della morte, della luce
e delle tenebre; la prova di Dio per l'ordine non è che la prova dell'antico
politeismo. Il padre Kirker annoverava seimila prove della divinità, scoprendo
seimila volte l'ordine nei diversi oggetti della natura; la ammetteremo, ma
esigendo che vi siano seimila Dei o trentamila, secondo l'autorità più antica
di Varrone. E fosse pure unico l'ordine dell'universo, fosse subordinato ad un
pensiero unico e noto, perchè non sarebbe esso il risultato della
collaborazione delle seimila o trentamila divinità? Molti autori possono
comporre un dramma, molti architetti possono tracciare il disegno di un
palazzo, alcune centinaia di dottori e di vescovi riuniti in un concilio
possono formare una religione unica; perchè un concilio olimpico non avrebbe
potuto presiedere alla costruzione dell'universo? Se si parla seguendo
l'analogia dell'opera e dell'operaio, della cosa e del suo fattore, nessuno
potrà contestare l'esattezza della mia induzione. Non basta: voglio che gli Dei
siano materiali per agire sulla materia; voglio che mangino, che bevano, che
dormano, che si combattano; perchè no? l'analogia dell'opera e del suo operaio
lo vuole. Eccoci in piena mitologia. Se s'innalza una statua per la dea del
matrimonio, un'altra per la Venere eslege, io ne domando una terza per la
filosofia prezzolata: è dessa un'opera e suppone il suo autore. Che gli uomini
del mondo primitivo abbiano attribuito le opere visibili della terra a' genii
invisibili del cielo, che abbiano spiegata la guerra degli esseri con una
guerra supposta tra gli Dei, figli stessi della discordia elementare, l'errore
era naturale, l'analogia legittima; sanzionata dall'ignara esperienza di que'
tempi senza dubbi e senza pretensioni intorno alla consistenza logica delle
cose. Il Dio moderno vuol vinta la logica, vuol essere assoluto; volete
fondarlo sull'idea dell'ordine? Voi fonderete l'assoluto sopra un ordine che si
riduce ad una congettura, sopra un ordine di cui ignorate il primo pensiero;
l'ordine dipenderà dalla vostra maniera di vedere, potrete intervertirlo
cambiando il punto di vista, potrete fargli subire tutte le interversioni che
subisce l'idea della perfezione, e il Dio dell'ordine sarà l'idolo iperbolico
della vostra imaginazione.
Si tenta di
avvalorare questa prova si misera dell'ordine dell'universo, sviluppandola come
la conseguenza della dimostrazione dell'esistenza di Dio per mezzo delle cause.
Si confessa che lo spettacolo della natura attesta piuttosto la pluralità degli
Dei, che la esistenza di un solo Dio; ma si spera che, in forza della
dimostrazione che prova l'unità di una causa infinita, debbasi stabilire
l'unità di un Dio autore dell'ordine universale. Il tentativo è inutile. Noi lo
ripetiamo, le due dimostrazioni sono distintissime, quella delle cause valuta
l'esistenza dell'universo; le basta che il mondo sia, per supporre una causa
infinita. La prova che risale dall'ordine della natura all'esistenza di Dio,
guarda all'ordine, e suppone un Dio potentissimo e non infinito; suppone gli
Dei e in nessun modo un Dio. Ora raccogliete i risultati delle due
dimostrazioni; avrete, da una parte, un essere infinito, dall'altra gli Dei
viventi e finiti; da un parte avrete l'essere indeterminato eguale al nulla, il
Brama degli Indiani, a cui non si dirige alcuna preghiera e di cui è
impossibile di parlare; dall'altra parte troverete gli Dei della religione, la
Trimurti, il politeismo, l'incarnazione. La lotta tra Dio e la natura trovasi
così trasportata in cielo; lungi dall'avvalorarsi a vicenda le due prove per le
cause e per l'ordine, si distruggono mutuamente, organizzando nel mondo
invisibile la lotta tra un sol essere inalterabile e la pluralità degli Dei.
Concludiamo;
dalla sua origine la filosofia si mise in traccia di un Dio per togliersi alla
contraddizione universale, ma tutti i suoi sforzi concentrati in tre grandi
prove non hanno fatto che spostare le contraddizioni. La dimostrazione più
antica e più popolare, che inganna i teologi coll'ordine della natura, non
giunge nemmeno ad afferrare l'idea di Dio, e si perde in mezzo ai genii del
paganesimo. La seconda prova che invoca un Dio infinito per isfuggire
all'assurdità di una serie infinita di cause finite, si trova sempre al suo
punto di partenza, sempre nella lotta del finito e dell'infinito. La prova più
dotta accolta da Descartes e da Leibniz, si risolve in un doppio equivoco
sull'idea dell'esistenza e su quella della perfezione. Da ultimo, Dio si svolge
fatalmente ne' suoi attributi infiniti: e le pompose metafore dell'onniscienza,
della giustizia infinita, e della misericordia senza limiti, portano la
discordia nel seno dello Eterno, e finiscono per rendere incomprensibile
l'opera della teologia.
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