Capitolo
IV
LA RAGIONE DISTRUGGE LA GIUSTIZIA
La coscienza
non può scegliere nè il bene nè il male, che trovansi egualmente nel fondo
della coscienza . Per fissare la scelta bisogna cercare nella ragione i termini
medii, i quali possano dominare l'interesse e la giustizia. Prima d'indicare le
equazioni imaginate dai filosofi per ridurre i due contrari della morale, noi
possiamo assicurare che la scelta sfuggirà a tutti gli sforzi. Di fatti, la
ragione si restringe al conoscere; si riduce ad affermare, a negare: quando il
vero è stato distinto dal falso, la ragione ha finito la sua parte. Dunque per
essa la lotta del bene e del male non e che l'uno dei mille episodi della
guerra universale, delle cose e dei pensieri: il male è vero quanto il bene;
non vi ha motivo per preferirlo o per posporlo al bene. Per la ragione, due
termini sono concetti ad un tempo; una è la scienza dei contrari: la medicina
insegna simultaneamente le due arti di salvare e di perdere; in politica non
conosce l'arte della libertà chi ignora quella della tirannide. Con qual
diritto la ragione sceglierebbe tra i due contrari dell'interesse e del dovere?
Il primo
termine scoperto nella ragione per distinguere il bene dal male, consiste nella
stessa verità, che si confuse a disegno colla giustizia. L'ingiustizia, fu
detto, mente; essa conosce il bene e lo disconosce, lo confessa e lo nega, dà
l'essere a ciò che non è, e lo toglie a ciò che è. La ragione, la logica
identificano il bene colla verità; convien essere giusto, perchè è necessario
di essere veridico. Sia.
- Qual'è
dunque la vostra regola?
- Quella di
non mentire.
- Condannate
voi l'uomo che inganna il suo simile?
- Lo
condanniamo.
- Condannate
voi chi mente per semplice gentilezza, dichiarandosi l'umile servo d'un suo
corrispondente?
- Non lo
accusiamo, tutto al più, che di leggerezza.
- Condannate
voi chi sfugge ai sicari, ingannandoli?
- Lo scusiamo
perchè si difende.
- Condannate
voi l'uomo che inganna i sicari per salvare una vittima?
- Egli è
innocente, deve essere scusato.
- E se per
salvare la vittima mentisse coraggiosamente, esponendosi alla collera dei
sicari, vi limitereste a scusarlo?
- Dovrebbesi
lodare.
Qui la
menzogna diventa alternativamente il vizio e la virtù, non essendo per sè
stessa nè l'uno, nè l'altra.
Identificando
l'ingiustizia colla menzogna, conviene trasformare in delitti le menzogne della
poesia, conviene perdonare al cinismo che non mente, bisogna assolvere le
scelleratezze in cui la giustizia è schiettamente violata. Per sostenere
l'equazione dell'ingiustizia colla menzogna, fu detto che il ladro nega la
verità della mia proprietà, che l'assassino mente al diritto della mia vita; si
è falsata l'ingiustizia con sottigliezze stolte, in cui si scambia la nozione
della verità con quella della sincerità. No: chi mente conosce il vero; chi
inganna lo conosce; chi commette un misfatto si fonda sulla verità delle cose
quanto l'uomo che pratica la virtù; il conquistatore che viola i diritti di un
popolo, deve essere istruito quanto un liberatore. La verità è in tutto ciò che
è; trovasi egualmente nel bene e nel male, nella virtù e nel vizio, nel dovere
e nell'interesse; non evita, ma riproduce la contraddizione della giustizia e
dell'ingiustizia.
La teorica
della verità prende una forma più dotta quando ci impone di riconoscere il vero
valore delle cose. Si dice essere la ragione che stima i valori, che apprezza
l'importanza di ogni oggetto; tolta la ragione non possiamo determinare, nè
paragonare i valori; un bene non accettato, o da noi giudicato sciagura, non
sarà mai un bene. Se ne conclude, che devesi ascoltare la ragione, per dare
alle cose il verace loro valore, e per vivere secondo la verità: vere
vivere. Di là l'equazione tra il vero ed il dovere; il vero fissa i valori,
il valore fissa l'azione; il dovere è l'azione determinata del valore. Questa è
la dottrina degli stoici. Nel suo principio essa non c'impone di preferire il
dovere all'interesse; ci impone di apprezzare i valori, di scegliere i bene
preferibili; precetto inutile, perchè nessuno vuole il male, nessuno fugge il
bene, nessuno vuole ingannarsi a disegno sulla stima dei valori. Dov'è dunque
il bene che devesi preferire? Nella giustizia o nell'interesse? Ecco il
problema: dinanzi all'interesse la giustizia non ha valore; dinanzi alla
giustizia è l'interesse che non lo ha: la giustizia e l'ingiustizia
intervertono a vicenda la nozione del valore. Del resto, l'intelligenza, per
parlare con precisione, non determina i valori; ma accetta, afferma la stima
fatta dal desiderio, dall'istinto, dalle passioni; togliete i miei dolori, i
miei piaceri, la mia intelligenza perderà le nozioni stesse del bene e del
male; per essa i beni non hanno valore, essa non ha motivo di preferire la
gioia all'afflizione, o il destino del genere umano al destino d'un grano
d'arena. Concediamo che l'intelligenza possa scegliere il bene, concediamo che
l'intelligenza scelga il dovere come il migliore dei beni, l'intelligenza
divien folle; ci dice che il sacrificio è un bene, che il dolore è un piacere;
inventa la gioia del soffrire, il contento della disperazione, una felicità
equivalente ad una sventura. Poi questa sciagurata felicità non è ancora la
virtù; offerta come un bene, condurrebbe ad un egoismo altiero, fantastico, ad
una vita orgogliosamente impossibile. Essa lotta contro l'istinto, contro il
cuore; ci fa rinunciare alla famiglia, alla patria; finisce con l'interventire
i sentimenti sotto pretesto di perfezionare l'uomo lo rende immorale.
Diffidiamo delle virtù che escono da un sillogismo.
Con un nuovo
tentativo si vuol rendere positiva e reale la vuota felicità della giustizia
degli stoici, consigliando di porre il bene supremo in Dio, ed esigendo il
sacrificio di tutti i beni effimeri dell'interesse. Credesi che il bene
assoluto soddisfaccia l'intelligenza e improvvisi l'equazione col dovere,
respingendo per sempre l'ingiustizia, che si fa eguale al falso interesse. Ma
il bene assoluto, lungi dal soddisfare l'intelligenza, è l'inconcepibile,
l'inintelligibile, l'assolutamente impossibile; si riduce a un bene senza beni;
sorge superiore ai nostri istinti, ai nostri sentimenti, ai nostri gaudi; non
tocca il senso, nè la coscienza; non impone la giustizia, non respinge
l'ingiustizia. Il perchè tutto è permesso al fakir; la sua follìa è santa, e la
sua persona santifica l'adulterio. Quando cessa d'essere inconcepibile, il bene
assoluto è un genere; lungi dal consigliarci il sacrificio di un interesse
qualsiasi, emerge dalla riunione di tutti gli interessi morali e immorali,
durabili ed effimeri.
Sia pure
possibile di raggiungere il bene assoluto col sacrificio de' beni relativi;
ammettiamo, se occorre, tutte le speranze del prete, del devoto e del frate;
sia stabilito che rinunziando ai beni, si ottenga il bene. Infinito o finito,
assoluto o relativo, celeste o terrestre, il valore è sempre il valore, sempre
interessato. Quindi il prete, il monaco, il devoto si ridurranno a cambiare il
relativo nell'assoluto, a dare il presente per l'avvenire; non saranno che
egoisti trasmondani, i quali mutueranno i loro valori a cento, a mille per uno:
dov'è il sacrificio? dov'è la virtù? L'orgoglio dello stoico è più
disinteressato dell'umiltà del monaco: che dico? lo stesso libertino è più
ascetico del devoto mezzo cupido, mezzo stupido, in traccia de' piaceri per la
via del digiuno, della preghiera e della macerazione. Don Giovanni si
avventura; nella sua ribellione sfida l'universo; malgrado Dio, egli vuol
essere quello che è colla sua natura e colla sua responsabilità; la statua del
commendatore non può atterrirlo. Il devoto senza cuore e senza spirito si
spiega coll'interesse: il vero scellerato, nella sua degradazione, ci mostra le
vestigia di una moralità superiore.
Così nel
dilemma del bene e del male la ragione conosce senza scegliere; colla verità
illumina il vizio quanto la virtù, apprezzando i valori delle cose stima egualmente
il bene ed il male, in traccia del bene assoluto, predica una follía senza
forma, e un egoismo senza limiti.
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