Capitolo
VII
L'UTILE RENDE IMPOSSIBILE IL DOVERE
Disperando di
eludere il dilemma tra l'interesse ed il dovere, si pensò di negarlo
sopprimendo il dovere, ed apertamente identificandolo coll'interesse quasi
fosse una forma del nostro tornaconto. L'identificazione logica si ottenne
spiegandolo coi quattro vantaggi che se ne ricavano. Difatto il dovere: l° ci
ricompensa col benessere personale; 2° ci
rende moralmente contenti; 3° crea la società; 4° ci permette d'intravedere
l'identità dell'interesse personale e dell'interesse universale nell'ordine
della natura. Da questi vantaggi procedono quattro teorie.
Nella prima teoria
il dovere protegge il benessere, la morale è l'arte di essere felici, diventa
la dottrina del piacere, e presso i diversi filosofi varia come il piacere
stesso. Epicuro modera la voluttà per soddisfarla, respinge gli eccessi per
regolare i godimenti. Antistene non vuol prevedere l'avvenire per essere tutto
alla felicità del presente. Egesia fugge la vita per fuggire il dolore. I
moderni non diedero nuovi precetti al piacere, ma ne spiegarono meglio i
diversi fenomeni. Larochefaucault, Mandeville, Helvetius scandagliarono quel
fondo di egoismo che si scopre in ogni nostra azione; fecero dell'amor proprio
il principio unico del nostro vivere; negarono la tendenza al sacrificio, e
presentarono tutti i sentimenti generosi siccome altrettante fasi del nostro
interesse. Un motto di Mandeville basta a distruggere la teoria del piacere. Secondo
Mandeville tutti gli uomini sarebbero vili se lo osassero; perchè dunque non
osano far mostra della loro viltà? perchè si lasciano condurre alla battaglia?
perchè si recano sul campo per avventurare la vita in un duello? Nella teoria
del piacere, non si deve forse preferire il vivere da vile al morire da prode?
Io accetto tutte le analisi date dai moralisti del piacere. Egli è vero che
l'entusiasmo può svilupparsi al seguito della cupidità. Io vedo nei difensori
della patria i difensori del loro interesse; vedo nell'ascetismo del monaco un
epicureismo ingannato; vedo in Mosè un'ambizione smisurata, e presso gli uomini
più virtuosi un calcolo d'interessi. Pure il calcolo, l'ambizione, gli
interessi sì sviluppano contemporanei di una forza che ci spinge a sacrificare
tutto, piuttosto che cedere. Il piacere governa solo la metà della nostra vita,
e nessuno sulla terra vorrebbe sottomettergli l'altra metà. Il piacere ci
vieterebbe ogni sentimento disinteressato; c'imporrebbe di fuggire ogni
pericolo, ogni lotta, ogni giuoco; esigerebbe la più profonda indifferenza alla
stima de' nostri simili; l'apatia più profonda all'onore, alla gloria, agli
uomini che ne circondano; e non havvi anacoreta che possa sottomettersi a
martirii maggiori di quelli dell'uomo che volesse sancita dal piacere ogni sua
azione. Nell'ultima sua conseguenza, la teoria del piacere considera la virtù
come un delitto, come un attentato contro il nostro destino; il perchè, i
moralisti dell'antichità impugnarono l'onore, la gloria, la patria, la vita
stessa indivisibile dal dolore. Ai nostri tempi l'uomo che diede al piacere i
più splendidi precetti ripristinando le scienze occulte del medio evo, Carlo
Fourier, dichiarò iniqua la moralità, empio il dovere. Ecco il sentimento del
dovere irrompere nell'atto stesso in cui vien negato. La contraddizione rimane.
Il secondo
vantaggio che si trova nella giustizia è la soddisfazione morale: qui il piacer
fisico cede al piacer morale; e qui ricadiamo nel dilemma dei sentimenti. Per
gli uni la vendetta è il piacere degli Dei, per gli altri nel
perdono ci rendiamo simili a Dio. L'orgoglio della virtù trova la sua antitesi
nell'orgoglio del vizio; qual'è il motivo di preferenza tra la soddisfazione
morale e la soddisfazione immorale? Odo parlare della tranquillità del savio,
della serenità del giusto; la sapienza, la giustizia sono esse sorgenti di
felicità? Lo sono di dolore: il giusto sentesi trafitto da tutte le ingiustizie
della società. Non parlo del martirio di Socrate o di Cristo; leggete Geremia e
Rousseau; erano i più infelici fra gli uomini. Se possiamo esser felici col
sentimento della benevolenza, che spesso somiglia al sentimento dell'amor
proprio, non possiamo forse essere egualmente felici col deridere i nostri
simili, col sentimento dell'ironia, colla tranquillità mefistofelica, che si fa
giuoco della commedia della vita? Ritorna così il dilemma tra il bene ed il
male.
I primi due
vantaggi della giustizia, il piacere e la soddisfazione morale, non possono
sostituirsi alla legge del sacrificio, nè sopprimerla: il terzo vantaggio
offerto dalla giustizia, l'ordine della società, costituisce la terza fase
della teoria dell'utile di cui Hobbes e Bentham furono i più illustri
rappresentanti. Il primo analizza gli interessi che spingono l'uomo verso la
società; la dimostra ordinata per metter fine alla guerra eslege; sottoposta al
governo perchè rimanga solo la guerra legale, Bentham, compiendo l'analisi di
Hobbes, mostra la guerra industriale che si fanno tutti gli interessi, e scopre
nell'utile i principj generali che comandano la probità al cittadino. Anche la
libera concorrenza e tutta l'economia politica storicamente intermediarie tra
Hobbes e Bentham, possono essere considerate come analisi psicologiche
dell'egoismo sociale, preso ne' suoi più minuti particolari; analisi in cui
l'interesse pubblico emerge dal conflitto di tutti gli interessi personali,
dallo sforzo di ogni privato per superare e vincere il suo vicino. I
pubblicisti dell'utile rendono ragione di tutti i fenomeni dell'utile, ma spiegano
solo la metà della società civile. L'onore e la vergogna, la gloria e
l'infamia, forze invisibili le quali dominano il legislatore, e che il
legislatore può sanzionare, non vincere, non sono afferrate, nè dominate, nè
avvertite dagli utilitarj. L'antinomia tra l'interesse ed il diritto ricompare.
Spesso viene
osservato che se tutti i cittadini fossero giusti, tutti sarebbero felici. Io
osserverò, che la mia coscienza non guarda alla giustizia degli uomini che mi
circondano per rischiararmi e per dirigere le mie azioni; e quand'anco tutti
gli uomini fossero ingiusti, i principj del diritto e del dovere resterebbero
indomiti nel fondo del mio cuore. Forse il regno della giustizia potrebbe
essere il regno della felicità; ma gli uomini non sono giusti, ma la perfidia
può esser utile, ma lo Stato medesimo può commettere utilissimi misfatti. Il
bene pubblico creò la ragione di Stato; esso dettò quelle inique parole: necesse
est ut unus homo moriatur pro populo; Roma condannava a morte
Spurio, benchè innocente e benefico; Roma sorgeva sulle ruine delle antiche
repubbliche. All'interno il ben pubblico sacrifica l'uomo al cittadino,
all'esterno l'umanità alla patria; e rinveniamo il dilemma del giusto e
dell'utile nell'antitesi dell'interesse pubblico e dell'interesse privato, poi
nell'antitesi dello Stato e dell'umanità.
La teoria
dell'utile, fallita ne' tre beni del piacere, della soddisfazione morale e
dell'interesse pubblico, si riabilita col quarto bene, dell'ordine universale.
Abbiamo veduto che invocare l'ordine universale torna lo stesso che invocare
l'ignoto, o far luogo agli interessi iperbolici proposti dalle religioni; e
quanto più l'interesse si fa grande, tanto più il dovere protesta contro
l'interesse. Ho già menzionato l'egoismo del devoto, e la fatua immoralità del
monaco; ora citerò Platone. Egli eccelle nell'opporre il giusto all'utile;
nessuno l'oltrepassa nello svolgere l'antitesi della morale e della politica; e
a dispetto della sua propria analisi, vuole che il più gran bene sia la
giustizia, e che il mártire sia l'uomo più felice. Secondo Platone dobbiamo
sdegnare i piaceri perchè falsi, variabili e fugaci: ma chi vorrebbe accettare
una vita digiuna di ogni piacere? chi vorrebbe accettare l'esistenza, quando le
fosse negata ogni voluttà? Platone vuole che ai piaceri si preferiscano i beni
scevri di ogni dolore, quelli che trovansi nella nostra mente: ma il pensiero
non può tormentarci e moltiplicare i nostri dolori? la tradizione non ci parla
forse di Aristotele che si getta in un lago, disperato di non comprenderne il
mistero? Platone ci fa invidiare la tranquillità del giusto: ma que' savi, que'
profeti sì dolenti dei dolori del genere umano, non provano forse che la
giustizia è più sventurata dell'egoismo? Platone dice ch'egli è bello l'esser giusto,
più bello l'essere perseguitato che il perseguitare, l'essere giustiziato che
lo sfuggire alla giustizia: ma l'idea della bellezza non potrebbe forse essere
capovolta? Non v'hanno di belle ingiustizie? e spesso l'arte, la pittura, la
poesia, non isviluppano forse in senso inverso la bellezza, dando al male le
forme di un terrore che affascina? Platone ci parla della potenza di una
repubblica governata dalla giustizia, fondata sull'ascetismo che abolisce la
proprietà e la famiglia: ma non potremmo forse sviluppare la potenza
coll'ingiustizia, colle conquiste, coll'industria, con tutti gli elementi degli
Stati moderni che Platone esiliava dalla sua Repubblica? Platone
ci parla della potenza del savio, che da niun evento può essere turbato. Ma il
condottiero che s'impadronisce di uno Stato sarebbe forse un debole? Diremo che
non sa dissimulare nè dominarsi per dominare i suoi simili? Inoltre, se la
giustizia è un bene, se trova in sè stessa la sua mercede, perchè prometterle
un premio celeste? Perchè Platone, esausta la sua dialettica, invoca una
teodicea? Perchè ci narra una favola sulla vita trasmondana, egli che voleva
tutti i beni posti nella virtù, egli che aveva accettato la sfida di
annichilare l'utile separato dal giusto? D'altronde, che troviamo noi nel cielo
di Platone? Troviamo il bene supremo, la bellezza, l'ordine dell'universo: ma
Platone non s'innalza se non scegliendo arbitrariamente tra il dovere ed il
piacere, tra il savio ed il tiranno, tra il bello e il deforme. Giunti al bene
supremo, possiamo colpir nel cuore tutto il suo sistema, sostituendo al bene
supremo tutti i piaceri, tutti i gaudj tutti gli interessi da lui prescritti;
possiamo sostituire al tipo della saviezza perfetta il tipo di una infinita
tirannia; in una parola, possiamo surrogare al supremo bene, ciò che Platone
avrebbe chiamato il male supremo. Le due idee del bene e del male sono concette
ad un tempo, s'intervertono reciprocamente, diventano a vicenda il bene e il
male: qual principio, qual ragione potrebbe vietarci la interversione del
platonismo? Lo stesso Platone l'autorizza. Nel Parmenide accenna la
possibilità di sviluppare in ordine inverso il mondo delle idee; confessa che
l'antitesi rende dubbia ogni cosa; riconosce che, tolta a' suoi veri
parenti, la dialettica è potente nel male quanto nel bene. Nel pensiero di
Platone i veri parenti della dialettica sono i tipi, ed ogni tipo può essere
capovolto; secondo Platone, il tipo del bene è il padre generatore dell'ordine;
e secondo l'inesorabile dialettica, il bene astratto può intervertirsi e
svolgersi nel male. Havvi di più; la dialettica s'innalza al disopra dei tipi,
all'idea dell'essere nè buono, nè malo; e anche qui il non-essere opponendosi
all'essere, organizza un'ultima volta il rivolgimento per gittarci in quell'abisso
senza fondo, su cui Platone s'imponeva un silenzio superstizioso. Il
travolgimento è sì facile, che Fourier lo attua predicando la morale del
piacere, col linguaggio stesso di Platone combatte la virtù; quando seguiamo la
giustizia ci accusa di cercare il bene nel male; ci consiglia le delizie della
gastronomia e quelle della doppia poligamia, certo che la terra emancipata dal
dovere si scioglierà dalle influenze che la incatenano nella civilità.
Quindi la
teoria dell'utile prende quattro forme, seguendo i quattro beni contenuti nella
giustizia: prima sensuale, poi sentimentale, in seguito minacciosa, infine
risibile, lascia vivere l'eterno dilemma dell'interesse e del dovere, che
riappare di continuo senza che termine alcuno possa domarlo.
|