Capitolo
II
I CRITERI DELLA VERITÀ
L'idea di
cercare il criterio del vero si riduce ad un tentativo per sopprimere la
contraddizione tra la logica e la materia della logica. Ben considerato, il
criterio del vero mpn può essere che la regola infallibile contro l'errore e
contro i dilemmi; non può raggiungere lo scopo, se non facendo concordare il
processo della logica con quello delle cose. Il criterio della verità suppone
uno il principio dell'alterazione e quello della deduzione, uno il principio
del rapporto e quello dell'identità, una la logica e la sua materia. Pure ogni
criterio non si può trovare se non nella natura o nella logica stessa: nel
primo caso il criterio respinge la logica, nel secondo caso respinge la natura.
I criteri proposti dai filosofi, lungi dal dominare il dilemma della logica e
della natura, lo confermano, aggiungendovi nuove forze.
La sensazione
è l'uno dei criteri che furono presi nel seno della natura, e fu proclamata
perchè trovasi indivisibile dalla vita e dal pensiero; egli è in forza del
senso che le qualità si rivelano e che le cose esistono. Vogliamo noi
verificare i nostri pensieri? dobbiamo tornare ai fatti, e non vi si ritorna se
non col mezzo del senso sensi. Vogliamo dirigere le nostre azioni? dobbiamo
interrogare le cose, e non s'interrogano che per la sensazione. Bisogna
diffidare delle nostre idee, dei nostri giudizi, dei nostri pregiudizi; chè
tutte le chimere sorgono nel pensiero dell'uomo lungi dalla sensazione; dinanzi
ai fatti l'errore svanisce. Questa è la voce della natura; il senso si presenta
a prima giunta come verificatore, e pare che voglia identificare l'essere col
pensare. Ebbene si segua. Qual'è l'ultima conseguenza del principio della
sensazione? Il senso varia secondo il soggetto, secondo l'oggetto, secondo il
punto di vista, secondo il mezzo in cui si vive. Dunque se il senso è giudice
delle cose, se è il solo ed unico giudice, ciò che appare sarà vero; anche il
falso sarà vero. Tutti gli oggetti ingrandiranno e impiccoliranno nello stesso
tempo, perchè ingrandiscono avvicinandosi a noi, e impiccoliscono
allontanandosi; tutti si muoveranno in senso inverso, perchè la nave fugge la
riva, e la riva fugge la nave. L'illusione avrà il diritto di soggiogarci, di
imporci tutte le sue contraddizioni; nè si dovrà tener conto della
contraddizione, perchè la logica stessa sarà obbligata di cedere all'apparenza
sensibile. Così la sensazione, criterio preso nel seno della natura, ci conduce
a disprezzare la logica, siccome cosa frivola ed inutile. Volendoci far
conquistare la materialità del fatto, ci fa perdere il principio che lo
giudica; ci immerge nella natura, e ci lascia senza luce.
Lo stesso
deve dirsi di tutti i criteri empirici. Scegliamo l'ispirazione: se essa fosse
il criterio della verità, ogni idea dal sentimento suggerita sarebbe vera, ogni
entusiasmo sarà sacro; ogni settario sarà infallibile. Quindi la fede del
Buddista inviolabile come quella del Cristiano: il fanatismo sacrificatore di
una casta sacerdotale, rispettabile come la tenera affezione della madre per il
figlio. Quindi tutti i dogmi saranno veri, tutti i sentimenti saranno giusti;
quindi non si terrà conto delle innumerevoli contraddizioni che li separano,
che li oppongono gli uni agli altri; quindi si dovrà disprezzare la logica: e
da ultimo, il principio preso nella materia della logica darà per conseguenza
inevitabile la guerra contro la logica.
Alla sua
volta il criterio dell'autorità, preso anch'esso nella materia della logica, si
rivolta contro la logica. Che l'autorità sia fissata da un libro, da un
pontefice, dalla maggioranza o dalla unanimità del genere umano, l'autorità è
sempre un fatto, una cosa empirica presa nel seno della natura. Dal momento che
l'autorità è costituita giudice del vero, la ragione perde ogni diritto, la
dimostrazione ogni forza; non è più lecito parlare a nome della logica. Havvi
di più: il regno dell'autorità, preso al di fuori della logica, si lascia
intervertire in tutti i sensi. Volete che il luogo scelga per voi l'autorità?
Costantinopoli dà criterio dell'islamismo, Roma del cristianesimo: a Roma si
onora ciò che a Parigi si vilipende. Volete che l'autorità sia scelta
dall'interesse dell'incivilimento? Porrete l'autorità del genio in
contraddizione colla autorità della maggioranza: da una parte il novatore è
necessario, è autorevole, è legislatore; l'individuo pensante è il principio
primo d'ogni legge; dall'altra parte, l'autorità legittimata dalla maggioranza
è indispensabile per combattere i traviati, i visionari, gli egoisti, gli
sfrenati, gli scellerati. Non si può neppure scegliere tra l'autorità della
religione e quella dello Stato, tra l'autorità del perito e quella della legge.
In generale ne' criteri empirici il punto stesso di partenza rimane arbitrario,
e non abbiamo motivo di preferire la sensazione all'ispirazione, o l'ispirazione
all'autorità: ogni fatto è fatto, e non havvi mala causa che non possa essere
patrocinata.
La pretesa
de' criteri presa nel seno della logica è precisamente quella di sopprimere le
contraddizioni di tutti i principj della natura, di tutti i criteri empirici. I
criteri logici si riducono alle forme stessa della logica, ed anzi alla prima
forma dell'identità. Ogni cosa dev'essere identica con sè stessa: una cosa non
può essere e non essere nel tempo stesso; due attributi opposti non possono
appartenere nel medesimo momento allo stesso oggetto; questi sono gli assiomi
che vengono presentati quali criteri del vero; e noi sappiamo già che sono gli
assiomi distruttori della natura; lungi dal guidarci quando cerchiamo il vero,
lo rendono impossibile quando è scoperto. Astrazione fatta dalla loro
applicazione critica, presi nella loro espressione più semplice, più
inoffensiva, più volgare, gli assiomi dell'identità si circoscrivono a metterci
nell'alternativa di affermare o di negare, si ristringono a stabilire il dilemma
dell'essere o del non-essere; e non offrono alcuna nozione per isciogliere lo
stesso dilemma. Giusta il principio di contraddizione gli antipodi esistono o
non esistono; l'una delle due asserzioni è assolutamente vera, perciò si chiede
se vi sono antipodi: il principio di contraddizione stabilisce il dilemma: ci
insegna esso se vi sono gli antipodi? Non risponde. Ogni evento accadrà o non
accadrà: dimani Parigi sarà o non sarà assediato: il principio di
contraddizione ci dice che l'una delle due asserzioni è necessaria; che
importa? questa necessità è straniera all'evento. Parigi sarà egli assediato
veramente? Il principio di contraddizione lo ignora, e limitasi a stabilire la
contraddizione dell'essere e del non-essere. Il pianeta di Giove è abitato? Lo
è o non lo è. Il principio della differenza ci costringe a scegliere il sì o il
no, e resta indifferente alla scelta, estraneo al motivo che la decide. A chi
spetta dunque la soluzione? Ai dati, agli indizi, alle probabilità; in altri
termini, alla natura, che ci mostra se vi sono gli antipodi, se Parigi è
assediato, se Giove è abitato. La realtà, la verità sfuggono dunque interamente
agli assiomi logici, e si rifugiano nella natura, nella materia della logica.
Qual'è l'ultima conseguenza? Gli assiomi sono la logica; impadronendosi di una
cosa reclamano ch'essa sia eternamente ciò che è: esigono che Parigi sia sempre
assediato o sempre libero; che Giove sia sempre abitato o sempre deserto;
giusta gli assiomi ogni cosa è un dilemma; non si passa da un termine all'altro
del dilemma; la mutazione, il rapporto sono impossibili e quindi si arriva
all'ultimo risultato che la mutazione, il rapporto sono falsi. Che ci resta di
vero sulla terra, se ciò che varia è falso?
Descartes proponeva
il criterio della chiara e distinta percezione; criterio equivoco ed
ondeggiante tra la logica e la materia della logica. La chiara e distinta
percezione di Descartes abbraccia tutte le verità che non possono essere messe
in dubbio. Descartes non fissa mai il numero di queste verità, non le determina
con precisione, non le descrive; pure abbiamo il diritto di ridurle a due
classi distinte: la prima classe contiene gli assiomi della logica, cioè
l'identità, l'equazione e la deduzione: la seconda classe contiene tutte le
nozioni evidenti e necessarie della materia della logica, quali sono lo spazio,
il tempo, il principio che nulla viene da nulla, che la qualità suppone la
sostanza. In ultima analisi, la chiara e distinta percezione appartiene
egualmente alla logica e alla materia della logica: quando s'identifica colla
logica, ogni fenomeno è falso, ogni nozione impossibile; quando s'identifica
colla materia della logica, tutto è vero, anche il falso. Così la chiara e
distinta percezione di Descartes scorre insidiosamente dal significato logico
al significato materiale. Nella prefazione del suo sistema, Descartes
immedesima la chiara e distinta percezione colla chiarezza logica, quindi
divien critico e dubita di tutto. Disprezza la storia, la politica come cose
per sè incerte e variabili; considera la morale come un accidente su cui
bisogna prendere a caso la decisione che dirigerà la nostra vita. Descartes
sdegna le verità tutte della tradizione che il minimo sforzo della nostra mente
può mettere in dubbio; disdegna quindi ogni autorità, ogni governo, ogni legge,
perchè la via al dubbio rimane sempre aperta là dove manca la certezza
matematica. Sotto l'impero della logica, il filosofo francese non sa
distinguere il sogno dalla veglia, dubita della esistenza del mondo, pensa che
l'universo possa essere un errore del nostro spirito; e che un genio qualunque,
ingannandoci col mezzo de' nostri organi, potrebbe creare l'apparenza di un
mondo che non esiste. Sotto l'impero della logica tutto è falso, tutto incerto,
non vi ha limite alla critica. Ma la chiara e distinta percezione s'identifica,
d'altra parte, colla chiarezza della materia della logica; e allora la scena si
muta, il moto s'interverte, tutto è certo. Descartes passa arbitrariamente
dall'evidenza del suo pensiero a quella della sua esistenza, dal suo concetto
di Dio all'esistenza di Dio: Descartes assevera arbitrariamente che Dio è
creatore; che quanto appare esiste, che Dio non saprebbe ingannarci, nè per
mezzo della natura, nè per mezzo de' nostri sensi; sostituisce così la percezione
materiale, travisata da' suoi dogmi, alla percezione logica; sostituisce la
materia della logica alla logica, e di corollario in corollario, giunge a
soppiantare l'assioma logico che tutto è falso, coll'assioma materiale che
tutto è vero. Dal momento in cui Descartes diventa dogmatico, non è più
angustiato dall'assenza del vero ma lo è dalla presenza del falso, di cui non
sa più render ragione, non potendosi dare che l'uomo guidato da Dio possa
ingannarsi. Descartes non ha mai chiarito la distanza che lo separava
dall'errore; e se lo avesse osato, avrebbe distrutto il suo sistema, si sarebbe
accorto che la logica annullava quanto sorge dalla materia della logica.
Difatto, la chiarezza materiale comincia dal giustificare ogni cosa e dal
renderci infallibili: «Dio è un essere perfetto, dice Descartes; non può
volermi ingannato; l'impulsione che mi fa credere che i miei concetti
corrispondono ai corpi, viene da Dio». Dio è perfetto, dunque il mondo è
verissimo: quale ne è dunque la verità? oscura, secondo Descartes, in
guisa che le cose non sono forse intieramente quali si manifestano ai nostri
sensi: ed ecco una verità che non è verissima, che non è forse una verità. Che
c'insegna l'impulsione naturale, e si può dire divina? Che vi sono dei corpi,
risponde Descartes, e che io ho un corpo: in breve l'impulsione naturale ci
svela le qualità primarie e geometriche della materia, l'estensione, la
resistenza, la figura, la mobilità. Qui la sincerità di Dio trovasi soppressa
per metà, perchè nelle qualità secondarie, cioè ne' colori, ne' suoni, ne'
sapori, in tutti i fenomeni della visione, del tatto, de' sensi, della
passione, il Dio cartesiano non ci guida, e ci lascia assolutamente liberi
d'ingannarci. Descartes si sforza di giustificare Dio di questa negligenza. Che
importa, dice egli, di saper il vero sulle qualità secondarie? Il senso deve
limitarsi a dirigerci nella scelta del bene e del male; se crediamo che il
dolce, l'amaro, il bianco, il nero sono nelle cose stesse l'errore è nostro, e
non nuoce. Misera astuzia! vera sconfitta! Noi domandiamo che si spieghi
l'errore, diventato impossibile, grazie alla sincerità di Dio, e ci si
risponde: «I nostri errori non cadono se non sulle qualità secondarie, sono di
poco momento». Non si tratta dell'estensione del nostro errore, si tratta del
fatto dell'errore. Il senso ci inganna nella scelta degli alimenti, nelle
malattie, nelle allucinazioni, nel pregiudizio universale, che attribuisce le
nostre sensazioni alle cose; il dolce alle cose dolci, il bianco alle cose bianche;
questi sono errori innumerevoli, quotidiani; sono errori spesso funesti e
micidiali; come sono essi possibili? Descartes, continuando, ci assicura che
certi inganni erano necessari alla economia della nostra macchina, che le
illusioni di ottica erano inseparabili dalle leggi della visione. Resta però
sempre che Dio ha permesso l'errore, che nella sua legislazione il falso si
confonde col vero, che ci inganna per impotenza, che noi non sappiamo dove
finisca l'inganno, e che infine l'errore imposto da un essere infinito può
svilupparsi all'infinito. Sotto il predominio della logica tutto è falso.
Aggiungasi,
che le verità sottratte da Descartes al dubbio universale, a quel genius
aliquis che poteva ingannarci facendoci apparire l'illusione di un mondo che
non esiste, si trovano in balia d'un'incognita che può di nuovo annullarle. Da
che dipende il vero cartesiano? Da un Dio assolutamente libero, e quindi
superiore ad ogni legge, superiore alla verità stessa, e non obbligato di
essere fermo ne' suoi propositi, nè sincero nelle sue manifestazioni. – «Le
verità metafisiche», dice Descartes, «che voi chiamate eterne, sono state
stabilite da Dio, e ne dipendono interamente, come ne dipendono tutte le
creature. E difatto, si parla di Dio come di un Giove o di un Saturno, si
sottopone allo Stige e al destino, quando si afferma che le verità metafisiche
sono da lui indipendenti. Non temete, ve ne prego, di assicurare, di pubblicare
dovunque che Dio stesso ha proclamate queste leggi nella natura, nel modo
stesso con cui un re stabilisce le sue leggi nel suo regno.» Dunque la più
chiara verità, la più distinta percezione dipendono da un atto di un Dio che
può revocarle; le verità che sembrano eterne, non sono eterne; gli errori che
sembrano impossibili, non sono impossibili. Descartes lo confessa: «Quanto alla
difficoltà di concepire come fosse libero e indifferente a Dio di fare che non
fosse vero che i tre angoli di un triangolo non fossero eguali a due retti, o
generalmente che le contraddittorie non potessero stare insieme, la si può
togliere facilmente, considerando che il potere di Dio non può avere alcun
limite, e che d'altronde il nostro intelletto è finito e creato in guisa, che
può concepire come possibili le cose che Dio volle essere veramente possibili;
ma non è creato in tal maniera ch'egli possa altresì concepire come possibili
le cose che Dio avrebbe potuto rendere possibili, ma che nondimeno egli ha
voluto rendere impossibili». Almeno siamo noi rassicurati sulla permanenza
delle verità eterne, sulla bontà, sulla sincerità di Dio? No; Dio è
assolutamente libero, è superiore al bene e al male, «non essendovi alcuna idea
che rappresenti il bene o il vero, ciò che bisogna credere, o fare, od
ommettere, la quale idea possa fingersi essere stata l'oggetto dell'intelletto
divino prima che la sua natura fosse costituita, come lo è da un atto della
volontà divina... Per esempio, non è per aver visto ch'era meglio che il mondo
fosse creato nel tempo piuttostochè dall'eternità, ch'egli ha voluto crearlo
nel tempo; e non ha voluto che i tre angoli di un triangolo fossero eguali a
due retti per aver egli conosciuto che non poteva darsi altro, ecc. Ma al
contrario, perchè Dio ha voluto creare il mondo nel tempo, per questo il mondo
è migliore che se creato dall'eternità; ed in quanto Dio ha voluto che i tre
angoli di un triangolo fossero eguali a due retti, per questo, è ora vero, e
non può essere altrimenti; così di tutte le altre cose.» Dunque il bene è
creato da Dio, il bene non è bene se non perchè egli lo vuole. Se egli avesse
voluto il male, il male sarebbe stato il bene, ed il bene il male. Vorrà egli
sempre il bene? non lo sappiamo; non possiamo impor limite alla sua volontà;
egli può ingannarci colle leggi morali, col mondo fisico, colle idee che ci dà
della sua stessa natura; e la libertà di Dio ci toglie quella verità che nel
sistema cartesiano ci sembra concessa dall'esistenza di Dio. Non ci resta
nemmeno quel primo vero, quell'aliquid inconcussum, quel felice cogito,
ergo sum, che inebriava i cartesiani. Il cogito è nelle nostre
facoltà, ed è Dio che legittima le nostre facoltà: Dio può voler ingannarci,
questa volontà può svilupparsi all'infinito. In che dunque differisce egli dal
genio del male? Perchè non potrebbe esser egli quel genius aliquis che
potrebbe illuderci col fantasma di un mondo che non esiste?
Per Descartes
ogni cosa dipende da Dio: Dio è l'unico principio; senza di lui la matematica è
incerta, perchè il matematico può dubitare della legittimità della sua ragione.
Tolto Dio, il mondo può non essere che un sogno, perchè nessuno ci rassicura
della verità dei nostri sensi; tolto Dio, nessun assioma potrebbe esser vero;
lo stesso principio io penso, dunque esisto, potrebbe essere falso.
Sotto il rapporto della creazione, sotto quello della conservazione, tutto
dipende da Dio, che è l'unico criterio del vero; e questo Dio che riassume la
materia della logica, può ingannarci, c'inganna, e ci ingannerà forse
all'infinito. Eccoci dunque respinti nel dubbio, fra le braccia del genius
aliquis, del genio dell'errore; eccoci di nuovo all'assioma tutto è
falso, tutto impossibile.
Tormentato
dal mistero dell'errore, Descartes ha imaginato una seconda teoria psicologica,
nella quale attribuiva l'errore alla nostra volontà. Ma la volontà non pensa,
non giudica, l'errore è nel pensiero e nel giudizio: la volontà genera la
menzogna; l'illusione è sempre involontaria. Lo stesso Descartes non credeva
ottima la sua teoria psicologica dell'errore; e altrove cercava nella memoria
ciò che Malebranche avrebbe chiamato la prima occasione dell'errore. Qui ancora
un altro scoglio lo attendeva: se abbiamo in noi il criterio della chiara e
distinta percezione, come mai gli avversari del signor Descartes possono
resistere alle sue dimostrazioni? Per rispondere Descartes fu costretto di
creare una parola, che ebbe poi gran fortuna, la parola di pregiudizio, colla
quale pretendeva di vilipendere a priori ogni obbiezione come
frutto di nozioni ciecamente preconcette o ciecamente difese dalla sola forza
dell'abitudine. Secondo Descartes le cause dei pregiudizi erano: 1° l'infanzia,
2° l'abitudine, 3° la stanchezza, 4° le parole. Ma come
l'infanzia, l'abitudine, la stanchezza, le parole potrebbero turbare la
memoria? come ogni errore potrebbe essere un errore di memoria?
Non si evita
il dilemma tra la logica e la materia della logica, perchè non v'ha criterio
che possa togliersi all'alternativa di appartenere alla logica e alla materia
della logica. Se vi fosse un principio superiore ai due termini, anch'esso
mancherebbe, non potrebbe signoreggiare il dilemma. Principio unico,
eternamente identico con sè stesso dovrebbe discendere colla equazione e colla
deduzione di cosa in cosa per generare tutta la varietà e tutta la realtà degli
esseri. Dovrebbe partire dall'uno e giungere al multiplo, partire dall'identico
e diventare l'alterazione, partire dal genere e arrivare all'individuo; infine
dorebbe essere inalterabile e alterabile, immortale e perituro, generale e
particolare, soggetto ed oggetto, cosa e pensiero; lungi dal dominare il dilemma,
ne sarebbe dominato e riassumerebbe in sè le contraddizioni dell'universo.
L'abisso che scorre tra la logica e la materia della logica è troppo profondo
perchè possa essere colmo da alcun principio.
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