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Giuseppe Ferrari Filosofia della rivoluzione IntraText CT - Lettura del testo |
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Capitolo V
LA CRITICA NELLE TEORIE SCETTICHE
Ogni teoria scettica si riduce al momento critico di un sistema staccato dal dogma e rivolto contro il dogma stesso. Per difendere l'ente, la scuola di Elea nega la distinzione delle cose; questa negazione è il momento critico degli eleati; afferrate la negazione, rivolgetela contro l'ente; avrete le teorie scettiche dei sofisti. Platone e Aristotele spiegano il mondo colla ragione, sacrificano alla ragione le cose sensibili; questo sacrificio costituisce il loro momento critico. Staccatelo dal platonismo e dal peripatetismo; rivolgetelo contro la ragione, avrete le teorie di Pirrone e de' suoi successori. Il cartesianismo dubita della natura, del non-io, del senso di tutto ciò che non è nè chiaro, nè evidente; crede solo alle idee e a Dio, l'idea di tutte le idee. Isolate il dubbio cartesiano, applicatelo alle idee e a Dio, sarà lo scetticismo di Berkeley e, più tardi, di Davide Hume. La nostra formola, la dominazione della logica che si distrugge da sè, abbraccia, riassume e oltrepassa tutte le toerie scettiche. Per dimostrarlo basterà analizzare la tradizione scettica. Presso i sofisti l'arte del dubbio è nell'infanzia. I sofisti ignorano compiutamente l'istrumento della critica; non conoscono nemmeno il sillogismo, trascurano l'equazione, e sono ridotti alla dialettica dell'identità. Questa è la dialettica dell'essere e del non-essere. Gorgia dice: «La verità non esiste; se esistesse, non potrebbe essere conosciuta; se fosse conosciuta, non potrebbe essere insegnata.» Perchè? per la ragione che sarebbe la verità della distinzione delle cose. Per esistere, le cosedevono separarsi le une dalle altre; per nascere, per morire, per muoversi devono distare le une dalle altre. Dunque esistere è essere limitato, non-essere; conoscere è conoscere la separazione, il nulla, ciò che non è; dunque la verità sarebbe ciò che non è; dunque non havvi nè verità, nè cognizione, nè insegnamento. Gorgia ha ragione; il suo torto è di fermarsi all'essere e al non-essere: egli li suppone veri; dev'esser lecito di supporli astratti, apparenti, relativi. Invece di considerare l'essere nel cavallo, considerate il cavallo, cioè l'individuo, il genere, il corpo, le sue l'unzioni, la sua organizzazione; fate del cavallo una materia intelligibile, poi dite a Gorgia: L'essere e il non-essere non sono se non gli accessorj di quest'ente intelligibile: non si tratta di sapere se il cavallo sia o non sia, si tratta di riconoscere la nozione del cavallo, di accettarne tutte le conseguenze. Gorgia sarà vinto, la sua critica si fermerà, i dilemmi svaniranno, i sofisti cederanno il passo a Platone e ad Aristotele. Il primo si sottraeva all'essere e al non-essere coll'idea; il secondo coll'essenza. Il dogmatismo trionfava di una critica imperfetta. Lo stesso dicasi di Protagora: come Gorgia, stabiliva un principio che facilmente s'interverte. «L'uomo,» diceva egli, «è la misura delle cose; tutto è relativo, tutto cambia, tutto si riferisce a me, alla mia maniera di vedere; il vero è nella mia mente, nella mia opinione; dunque tutto è vero, e l'errore non è.» Anche in questo ragionamento havvi un punto di partenza preconcetto, un punto dove la contraddizione è afferrata, ma limitata. Tutto cambia, dice Protagora; e se tutto non cambiasse? e se vi fossero cose eterne e invariabili? Tutto si riferisce a me; e se tutto non si riferisse a me? e se vi fossero cose esistenti per sè? La mia persona è la misura delle cosa; e se la misura delle cose non fosse la mia persona? se io non fossi se non un accessorio, un'apparenza, la forma di una misura universale, impersonale, qual'è la ragione? Protagora sarebbe vinto, e lo fu realmente, dal genere inalterabile di Platone, dalla ragione di Socrate; fu vinto perchè al di là del rapporto s'intravvede l'oggetto, perchè il mondo si rivela, astrazion fatta da me, e perchè io non sono se non una relazione e forse un errore dcl mondo. Per Protagora l'anima non è se non la collezione de' diversi momenti del pensiero; d'onde viene dunque l'apparenza dell'unità? essa è incontestabile quanto la distinzione de' pensieri. Giusta Protagora, il bene in sè è l'utile; perchè non sarebbe egli il danno, il sacrificio? Noi ci figuriamo la virtù come un bene, il sacrificio esce spontaneo dalla nostra volontà. In breve, i sofisti non conoscono l'istrumento della critica; fanno aggirare la critica sul punto di una tesi, non sanno intervertire la tesi, nè reciprocare i dilemmi alternando i termini. Per trionfare, il dogmatismo ebbe solo a rizzare la sua tenda alquanto più lungi sopra nuove tesi. La teoria del dubbio si avanza d'un passo con Pirrone, che mette in opposizione i generi cogli individui, l'intelligibile col sensibile. La contraddizione si estende, e ingrandisce; con qual processo? Non si vede; lo scetticismo resta ancora confinato in certo numero di tesi e di luoghi comuni per dimostrare che le nostre opinioni cambiano secondo la varietà degli animali, degli uomini, dei sensi, delle circostanze; secondo la posizione, la combinazione, il rapporto, il soggetto, l'abitudine, ecc. E se tutto non cambiasse? Pirrone sarebbe vinto; ma per noi la contraddizione resterebbe, perchè l'identità, l'equazione e la deduzione riprodurrebbero i dilemmi anche nell'apparenza eterna, anche nell'apparenza isolata, sensibile o intelligibile, anche nella percezione infallibile, anche nel caso in cui la varietà delle opinioni e l'inganno dell'errore fossero fenomeni sconosciuti. Non è l'io, non è il moto, non è il rapporto, non è l'errore che mi confondono, ma rimango confuso da ciò che esiste. Pirrone propone la felicità nella quiete, nella tranquillità; lascia il mondo al suo corso, e si riposa sul guanciale del dubbio; e se io voglio osservare, lottare, credere, ingannarmi, se cerco le delizie dell'errore? Ciò si vede, ciò è possibile, e ciò distrugge la morale di Pirrone. Poi, perchè cercate l'equazione della felicità? Per difetto di critica. Pirrone ignora adunque l'istrumento della critica, e l'arte di intervertire ogni tesi col mezzo di tutte le altre. Enesidemo, Agrippa e Sesto Empirico toccarono i primi dell'istrumento della critica, ma solo per inventare i luoghi comuni che contestano la possibilità della dimostrazione. «Non si può nulla dimostrare» dicono essi, «perchè o dimostrerete scambievolmente una cosa per l'altra, grazie ad un circolo vizioso, o cercherete sempre la prova della prova, e cadrete nel regresso all'infinito: di là l'insufficienza di tutti i principj.» Sia; perchè dunque volete dimostrare ogni cosa? Qual'è dunque l'istrumento che esamina la dimostrazione, e la trova circolare o regressiva all'infinito? I nuovi scettici non s'accorgono che tale istrumento è la logica, la quale vuoi dominare i fenomeni, e si rivolta contro la materia della logica. Se nulla può essere dimostrato, la nozione della prova non può essere completa; se siamo sempre nella necessità di cadere in un circolo vizioso, e nel regresso all'infinito, accetteremo i fatti evidenti, non dimostreremo l'evidenza, e la scienza si ristabilirà sopra una base non dimostrata. Enesidemo replica che in questo caso il dubbio si ripresenta, i fatti sono gratuitamente assenti; Quod gratis asseritur, gratis negatur. Ma non sussiste una differenza tra l'affermare un essere imaginario, e il riconoscere un essere reale? tra il mentire e il vedere? Accettando quanto appare non l'inventate, resta vero per sè. Enesidemo suppone che la verità vuol essere dimostrata, l'ipotesi contraria è egualmente legittima, e non si decide a priori se il vero debba precedere o succedere alla dimostrazione. Supponiamo che sia possibile di dimostrare ogni cosa, e che un filosofo risponda a Enesidemo: ho vinto l'infinito, ho scoperta la pietra prima, dove comincia e finisce ogni dimostrazione; supponiamo che questo filosofo nè inganni, nè sia ingannato; Enesidemo sarà vinto, la critica non lo è. Essa opporrà la conseguenza alle premesse; e l'identità, l'equazione ed il sillogismo non cesseranno di dimostrarci la contraddizione nel seno dell'evidenza universale. Lo ripeto; non è l'incertezza, non è l'oscurità che turbano il nostro intelletto, è l'evidenza stessa, la quale mi confonde egualmente, sia che si presenti d'intuito, sia che venga conquistata colla dimostrazione. Come si vede il dogmatismo, più abile a tormentarsi, che lo stesso scetticismo, gli eleatici, Platone, Aristotele sono i veri inventori del criticismo antico; gli scettici posteriori si restrinsero a staccarlo dai sistemi che lo supponevano. Istessamente, Descartes, è il maestro del criticismo moderno, che s'ingrandisce staccandosi dal sistema cartesiano La filosofia trovavasi immersa nel probabilismo e nel disordine della tradizione scolastica, quando Descartes pensò di darle la precisione della matematica, e così la spinse involontario nella via della critica. Il suo melodo svolgesi equivoco quanto il suo criterio; la duplice evidenza logica e materiale, da lui assunta come regola sotto il nome di chiara e distinta percezione, dà per conseguenza un metodo doppio sotto di un'apparenza unica. Questo metodo raccomanda l'analisi; e l'analisi può prendersi in due sensi opposti: da un lato può essere l'esame attento, minuto, regolare di tutti i fenomeni; esame che si riduce ad un'osservazione senza critica, all'osservazione del chimico o del fisico: dall'altro lato, l'analisi può essere la separazione matematica di tutti i fatti che non sono riuniti dall'identità, dall'equazione e dal sillogismo. Descartes che vuol raggiungere coll'analisi la certezza matematica propende verso la seconda direzione, e la certezza che si propone abbraccia egualmente due procedimenti opposti, quello d'ogni scienziato che deduce conseguenze incontestabili da un principio prestabilito, e il procedimento della critica che distrugge l'evidenza nell'atto stesso in cui pretende dimostrarla, le sue abitudini matematiche. Le regole del suo metodo sono le seguenti: «1° Non ricevere mai alcuna cosa per vera, a meno che non sia per tale riconosciuta, sì che il dubbio diventi impossibile. 2° Dividere le difficoltà in tante parti numerose quanto si può ed è richiesto per meglio scioglierle. 3° Procedere con ordine cominciando dagli oggetti più semplici e più facili a conoscersi. 4° Fare dovunque enumerazione sì complete e riviste sì generali, che ne restiamo assicurati di nulla aver ommesso.» Queste regole sono equivoche. Le tre ultime riescono scolastiche, incerte e di mera prudenza nell'applicazione. Come sapere se tutte le difficoltà sono divise? se l'ordine è vero, naturale? se l'enumerazione è compiuta? se nulla fu ommesso o trascurato? Qual uomo non si propone di ben riconoscere le difficoltà? chi ricusa di procedere con ordine? chi vuoi fare enumerazioni incompiute? Nessuno: le tre ultime regole abbracciano dunque la precisione della matematica e quella di una scienza senza rigore e permettono egualmente il dubbio e il dogma. La prima regola più rigorosa reclama l'evidenza: quale evidenza? Quella dei fatti o quella dell'identità, della equazione, della deduzione? Descartes scambia la prima colla seconda, varia colle occasioni, or logico or trascinato dalla materia della logica. Nell'equivoco Descartes sperava l'equazione dell'universo; sperava l'evidenza di una premessa e di una deduzione, l'intuito della verità prima, e delle sue conseguenze. Tale convinzione vien supposta dal suo dubbio: Descartes dubita dei suoi pensieri e non del pensiero, è incerto delle sue cognizioni; non lo è della matematica, nè della logica, nè della ragione.Il suo dubbio si limita ad avverare la possibilità dell'errore, la nostra fallibilità. Descartes non spinge l'analisi fino a separare la qualità dalla sostanza, la causa dall'effetto; non interverte le tesi, non dimostra la contraddizione che strazia l'alterazione, il rapporto, la materia e lo stesso pensiero, fatta astrazione della nostra fallibilità e pensa solo all'errore; divenendo dogmatico, non cerca se non di vincere l'errore colla forza dell'equazioni dedotte dal suo pensiero. Crede a Dio perchè nella nostra mente dal concetto di Dio si transisce all'esistenza di Dio; crede al mondo perchè la sincerità di Dio è eguale alla verità della creazione: in sua sentenza il mondo si conserva per una continua creazione, perchè tra il conservato e il creato havvi distinzione di tempo ed eguaglianza di effetto. Dichiarando eguali lo spazio e la materia, Descartes si apre l'adito per transire dalla metafisica alla fisica; e svolgendo poi una lunga serie di equazioni meccaniche, rende ragione della formazione dei mondi e dell'organizzazione degli esseri viventi. Lo stesso principio cogito ergo sum, non rassomiglia forse a un'equazione tra il pensare e l'esistere? Per Descartes l'essenza dell'anima non consiste forse nel pensiero? Il metodo che accettava l'evidenza dei fatti, accetta in pari tempo l'evidenza dell'identità, dell'equazione e della deduzione; e ne segue che, progredendo, sottomette all'identità, all'equazione, alla deduzione gli stessi fatti prima dichiarati evidenti. Dopo di aver ammessa preliminarmente la chiara e distinta percezione della nostra esistenza, dopo di aver preso il suo punto di partenza nel pensiero, Descartes vuol dimostrare la verità stessa del pensiero: dopo d'aver adottata preliminarmente la matematica, vuol dimostrarne la verità: dopo di aver accettato il dato della ragione, confessa che la sua ragione potrebbe ingannarlo, che gli assiomi potrebbero essere falsi, che i teoremi matematici potrebbero non contenere se non un valore soggettivo, ed essere solo errori dell'uomo; riconosce, infine, che la chiara e distinta percezione da cui il dubbio vien reso impossibile, potrebbe essere una percezione umana, un'illusione dell'io. Il movimento delle equazioni porta Descartes molto al di là del criticismo esposto nella prefazione del suo sistema, nell'analisi del dubbio preliminare. Descartes resta sempre dogmatico: ma a qual patto? a patto d'un miracolo continuo: nel suo sistema io son certo di esistere perchè Dio lo vuole; la matematica è vera perchè Dio l'ha decretata tale; il mondo non inganna la mia percezione, perchè l'inganno fu respinto dalla volontà di Dio: havvi un rapporto tra i miei pensieri ed i corpi, perchè Dio ha prestabilito questo rapporto: Dio, un prodigio perpetuo della volontà divina; ecco il termine medio della metafisica cartesiana. E Descartes come dimostrava l'esistenza del gran genio della verità, di Dio? Col pensiero; in guisa che nel suo sistema il pensiero prova Dio, e Dio prova il pensiero; la matematica conduce alla teodicea, e la teodicea conduce alla matematica; la divinità è figlia dell'evidenza, e l'evidenza è figlia della divinità. La logica accetta e distrugge alternativamente i pensieri, gli assiomi, la matematica; però colla differenza, che la demolizione è naturale, e la ricostruzione soprannaturale; la prima è provata, la seconda supposta. Poi la supposizione stessa si trova, da ultimo in balia di un'incognita, per la ragione già detta che questo Dio creatore, conservatore, sincero, veridico, è assolutamente libero, assolutamente superiore alla creazione, alla conservazione, alla sincerità, alla verità; potrebbe voler ingannarci, potrebbe correggere i suoi disegni, pentirsene, rinnegarli. E forse furon già cambiati, e il mondo appare il contrario di quello che è nella presenza di Dio. Dopo Descartes la critica è come la freccia nei fianchi della balena; la metafisica deve morire; nè Spinosa, nè Leibnitz potranno salvarla. La critica è assicurata, che tra i pensieri e le cose, tra l'anima e il corpo, tra lo spirito e la materia, havvi la distanza della contraddizione; è assicurata, che la storia, che la tradizione, che la morale, che la politica sono scienze congetturali, negate, disdegnate dalla filosofia cartesiama,esse svelano ogni giorno le antinomie che le straziano. Il dubbio sull'esistenza dell'io e della natura resta invincibile, l'intuizione è sospetta, nè può essere garantita da Dio: si dubita di ciò che si vede: e Dio, che sfugge alla visione, non può toglierci dalle incertezze. Non sarà difficile l'oltrepassare la critica di Descartes tentando di oltrepassare il dogma. Malebranche, Spinoza e Leibni abusarono di Dio: i tre sistemi sono tre confessioni implicite e progressive della contraddizione universale che li opprime. Perchè Malebranche dichiara essere il mondo percetto in Dio? Perchè esagera egli i miracoli del cartesianismo? perchè dimostra l'impossibilità di ogni relazione tra lo spirito e il corpo, tra il pensiero ed il suo oggetto: dunque deifica questa relazione, e spiega la percezione divenuta impossibile colla teoria della visione in Dio. Presso Spinosa la contraddizione tra il pensiero e la sostanza che pensa è scoperta, proclamata; quindi il sistema di Spinoza è già il sistema della contraddizione universale. Presso Leibniz la confessione è ancora più esplicita; le sue monadi, la sua armonia prestabilita, la sua teodicea suppongono che lo spirito e il corpo non possono fra di essi comunicare, che il pensiero non può avere alcun rapporto col suo oggetto; che il mondo fisico, anche considerato negli elementi i più semplici della materia e del moto, è assolutamente impossibile per chi non rinuncia alla logica. Berkeley e David Hume separano infine il momento critico dal sistema di Descartes e de' suoi successori. Berkeley applica il metodo alla natura, la nega, resta solo colle sue idee, col suo Dio, primo a proclamare lo scetticismo psicologico. Ma nella psicologia lo scetticismo erra a caso, il non-io è evidente quanto il suo contrario, l'io pensante: non v'ha dunque ragione per sacrificarlo, nè per preferirglielo. D'altronde, possiamo accettare Dio quando neghiamo il mondo? La separazione matematica delle nozioni non conduce a sacrificare una nozione all'altra: dimostra l'impossibilità d'ogni sacrifizio, d'ogni scelta, d'ogni punto di partenza. Berkeley non possedeva il metodo, ed il buon prelato era la vittima del metodo. Con David Hume lo scetticismo psicologico fa un nuovo passo. Meglio istrutto, David Hume nega Dio, le idee, il mondo; non vede fuori di sè nè generi, nè esseri soprannaturali, nè cose naturali. Poi, confinato nella psicologia, ripete sotto altre forme gli errori di Berkeley. Quando combatte Dio, combatte un errore, e non un'evidenza; fa atto di buon senso, e non di critica: quando nega le idee di sostanza, di causa, di tempo, di spazio perchè non adeguate alla sensazione, non si accorge che sono evidenti come la sensazione, e che hanno il diritto di intervertire tutte le sue tesi; quando nega il mondo, non s'accorge che il mondo è evidente quanto l'io, e che l'io è incerto quanto il mondo. David Hume non giunge mai ad afferrare nè l'istrumento della critica nella sua purezza, nè la contraddizione ne' dilemmi, nè l'interversione dialettica nelle sue antitesi: non separa mai la critica dell'evidenza dalla critica dell'errore. Era riserbato a Kant di compiere il momento critico cartesiano; e Kant ebbe il doppio merito di afferrare l'analisi nella sua forza, e di mostrare l'evidenza nelle sue contraddizioni. Egli cominciò dall'afferrare l'analisi, separò matematicamente l'uno dall'altro tutti gli elementi del pensiero, tra cui non havvi identità; e le nozioni da lui separate non furono più ricongiunte, qualunque sia la forza occulta che le combina e non rimasero più se non fatti uniti a caso, senza che se ne sappia la ragione. Dopo Kant, la sostanza non ha più rapporto alcuno colla qualità, nè la causa cogli effetti; il tempo, lo spazio, le condizioni dell'universo, non tengono più all'universo stesso. Dopo Kant è ben inteso che la scienza finisce dove comincia la sintesi; dove comincia la cognizione, la scienza è distrutta; non è più concesso l'affermare che il mondo esiste o che noi esistiamo; questi più non sono se non giudizi fatali, empirici, i quali rimarranno in eterno fuori della scienza.. Il secondo merito di Kant fu la scoperta delle antinomie ridotte all'opposizione del finito e dell'infinito, della libertà e della fatalità, della natura e di Dio; e aprivasi così la serie dei dilemmi. Nè Descartes, nè David Hume, nè alcuno tra i filosofi moderni aveva mai sospettato che la contraddizione potesse trovarsi ordinata a priori nell'universo. Nessun uomo prima di Kant aveva concetto il pensiero di por fine ad un errore infinito, rivelando i dilemmi originari dello spirito umano. Riconosciuti i due meriti di Kant, non dimentichiamo che il principio della critica è la dominazione della logica, che distrugge sè stessa; e ci sarà facile di scorgere i difetti della critica kantiana. La critica di Kant ha un punto di partenza, l'io pensante di Descartes: è critica psicologica: è dunque una critica imperfetta, falsa e iniziata a caso, perchè il punto di partenza dev'esser dovunque, fuori di noi come in noi. Kant attribuisce le contraddizioni alla mancanza di armonia tra le nostre facoltà e le cose esteriori: per lui le contraddizioni sono errori del nostro intelletto e suppone che non possano essere nelle cose. Perchè? non lo dice: la sua asserzione è gratuita, l'edifizio che si fonda su questa asserzione poggia sul falso. - Dissolvendo le nostre cognizioni nei loro elementi, l'analisi di Kant è esatta: ma quale ne è il processo? chi lo fa? non vedesi: la separazione si termina negli elementi, il dubbio sovrasta a tutti i giudizi non analitici, a tutte le sintesi; Kant non si spinge più oltre, non fa giuocare la logica, non cerca un passaggio matematico da un elemento all'altro, da un giudizio all'altro. Dunque non oltrepassa la dissoluzione, non iscopre le vere contraddizioni dell'evidenza, non rivolge le condizioni di ogni cosa contro la cosa subordinata, non rivolta le condizioni dell'universo contro l'universo, non giunge all'assioma dell'impossibilità di tutte le cose e di tutti i pensieri. Non progredendo apertamente coll'istrumento della logica, Kant non coglie al vero le antinomie. L'io e il pensiero non solo s'uniscono arbitrariamente, ma si escludono scambievolmente: il non-io non è solo affermato gratuitamente, ma è affermato contraddittoriamente, dovendo io ignorare ciò che è fuori di me. - Quali sono le antinomie di Kant? Riduconsi al finito e all'infinito, alla libertà ed alla fatalità, a Dio ed alla natura; antinomie che il filosofo tedesco annovera e classifica artificialmente sotto le diverse categorie della ragione. Nuovo errore. Le antinomie sono in noi e fuori di noi; non si riducono nè a tre, nè a dieci, nè a venti; non possono essere nè classificate, nè coordinate; la stessa idea di ordinare le antinomie si oppone alla critica, e la distrugge. Dio è il termine più importante dell'antinomia di Kant, e Dio non doveva mostrarsi nella critica; non è un fatto, non è un'evidenza, ma un'iperbole che conferma la critica, un sotterfugio che compromette quelli che vi ricorrono. - Infine Kant pretende sciogliere le antinomie; ed evita le une imputandole a un difetto del nostro intendimento; scioglie le altre scegliendo una tesi malgrado l'antitesi, per la ragione che la necessità di operare ci impone certe credenze. Nel primo caso continua l'errore psicologico, che imputa le antinomie a un difetto della mente. Quando poi sceglie certe tesi perchè la necessità di agire legittima certe credenze, egli disconosce e l'antinomia e l'azione. L'antinomia non ci lascia liberi, il suo dilemma è impassibile, eterno, nè si lascia piegare da alcuna convenienza, da alcun interesse: il vero è vero; il fatto, fatto; torna esso a nostra ruina? tanto peggio, nè ci è dato di mutano. L'azione poi trovasi in balia della critica quanto il vero; è stretta dalle antitesi del dovere e dell'interesse, del dolore e del piacere, della felicità e dell'infelicità; l'impossibilità dell'azione sorge dal fondo stesso dell'azione; fosse pur vera l'esistenza dell'io, della natura e dello stesso Dio, fossero pur evidenti la ricompensa della virtù, la pena del delitto. Più logico era Descartes quando di proposito deliberato dichiarava di voler rimanere onesto a dispetto della critica. Kant vuol frodare una conseguenza incalcolabile, eterna, a un istinto della volontà, a una nobile ispirazione, a un sofisma che accoglie il nostro destino spaventato dalla critica. Posto il sofisma, cammina da sè, vuole stabilito l'essere dove vi ha il non-essere; vuol l'io benchè incerto, il non-io benchè irrito, Dio benchè annullato; e con Dio vuole la grazia, la salvezza, il paradiso, forse l'inferno; e un primo errore evoca lo spettro del Cristianesimo, e il lavoro della critica cade al disotto di Descartes.
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