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Giuseppe Ferrari Filosofia della rivoluzione IntraText CT - Lettura del testo |
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Capitolo VI
I PRIMI GENERI
Lo spazio e il tempo sono due apparenze primitive, universali e necessarie. Ogni apparenza ci annunzia la funzione ch'ella compie. Lo spazio si annuncia come condizione dell'esistenza dei corpi; egli è dunque condizione dei corpi, condizione dell'intera natura. Istessamente non possiamo concepire alcuna successione di fenomeni senza concepirla nel tempo; dunque ogni successione si attua nel tempo. Io vivo nello spazio e nel tempo, io morrò senza che il tempo e lo spazio possano cessare; se non fossi nato, il tempo e lo spazio sarebbero egualmente; il tempo e lo spazio sono indipendenti da chi li contempla: questa è l'apparenza, questa la realtà. Abbiamo veduto le antinomie del tempo e dello spazio; esse sono; è mestieri accettarle: chi tentò di scioglierle, cadde necessariamente nella metafisica dello spazio e del tempo. In generale la metafisica dello spazio e del tempo ha subito le evoluzioni stesse della metafisica del genere; ed era naturale; il tempo e lo spazio sono due generi. Lo spazio contiene il corpo esteso, l'estensione essendo in tutto ciò che è esteso, nel modo istesso che l'uomo è in ogni uomo, la bianchezza in ogni cosa bianca. Il tempo contiene ogni successione, nessuna successione potendo sfuggire al primo e più astratto genere della successione. Chi cerca l'equazione dell'individuo col genere deve cercare l'equazione dello spazio generico collo spazio reale, del moto ideale col moto materiale. Di là lo spazio or fatto eguale alla materia, e in fondo negato, or affermato come principio primo, e poscia ridotto il corpo a non essere in essenza altro che spazio, ond'essere poi negato alla sua volta. Di là il tempo or fatto eguale al moto, e poscia soppresso nella sua essenza generica, mentre altri, al contrario, faceva eguale la successione al tempo, negando così la successione. Di queste teorie il numero è grande, l'atteggiamento varia co' filosofi, ma la lor natura è pur sempre la stessa, poichè suppongono che le eterne contraddizioni del tempo e dello spazio siano errori de' filosofi. Il tempo e lo spazio sono necessari, perchè è impossibile negare la necessità che impone all'individuo di essere nel genere, al contenuto di essere nel contenente. Io sono uomo perchè sono nell'uomo, io sono nello spazio perchè sono esteso, io sono nel tempo perchè la mia esistenza persiste e cambiando, dura. Io sono necessariamente nel tempo e nello spazio perchè è dato che io vivo, corpo tra' corpi, mobile in mezzo a innumerevoli moti, è dato che il corpo, che la successione sono i primi elementi che costituiscono il mio essere, e quello degli oggetti che mi circondano; non posso nè concepire me stesso, nè concepire le cose fuori dei due generi della estensione e del moto. Lo stesso ragionamento si applica all'universalità del tempo e dello spazio, che sono universali, ogni cosa essendo estesa e duratura; fuori di questi due generi nessuna cosa essendo. Se vi fosse un oggetto senza estensione o senza successione, quest'oggetto, creatore e creato, non patirebbe punto le condizioni del tempo e dello spazio; il tempo e lo spazio cesserebbero d'essere universali, nè più sarebbero necessari. Qui, come dovunque, l'apparenza si stabilisce sola, regna sola, e l'interregno dell'apparenza sovverte tutte le nozioni. Così il tempo e lo spazio sono le condizioni universali della natura, sono indistruttibili, si stabiliscono superiori alla natura e eterne. Ma dinanzi a un'altra natura potrebbero non essere universali, non essere necessari; la loro eternità non è dunque se non quella dell'ipotesi, che collega il genere coll'individuo. Finchè l'individuo esiste, il genere gli è immanente, necessario, universale, infinito, eterno; se l'individuo scompare, l'ombra del genere svanisce. Il tempo e lo spazio sono come l'ombra ideale, inseparabile dalla nostra esistenza; se vogliam sopprimerli, noi diventiamo positivamente inconcepibili a noi stessi. Si dirà: «Il tempo e lo spazio erano prima di voi, saranno dopo di voi; sono adunque universali, necessari per sè stessi, astrazione fatta dalla natura e indipendentemente dal nostro modo di concepire. Io rispondo: che sono necessari, universali, eterni, infiniti, relativamente al nostro modo di concepire, relativamente alla apparizione ed alla disparizione della natura dinanzi a noi. Finchè restiamo su questo teatro, il tempo e lo spazio sono le condizioni della nostra scena; sia il teatro pieno o vuoto, il tempo e lo spazio restano. Se al teatro succedesse un nuovo teatro, una nuova creazione, la quale si opponesse alla creazione attuale e la smentisse colla forza di una contraddizione positiva, se all'universo succedesse un nuovo universo nè esteso, nè successivo nel suo sviluppo particolare, il tempo e lo spazio potrebbero svanire alla loro volta, come il genere antidiluviano del mastodonte è scomparso dinanzi al genere umano. La possibilità di concepire una creazione superiore al tempo e allo spazio è implicata nell'esistenza di un genere che si pone superiore al tempo e allo spazio. Parlo dell'essere: il tempo è, lo spazio è; l'essere è dunque comune al tempo ed allo spazio, dunque li abbraccia, li oltrepassa e li domina. L'essere è il genere supremo, la condizione ultima o prima di tutto ciò che può concepirsi o imaginarsi; ci è dato col pensiero; basta pensare perchè appaia, basta che appaia possibile perchè sia. Le antinomie dell'essere si riducono alle antinomie del genere. Si contrappone agli esseri, come l'uomo agli uomini: dunque è infinito, inesauribile dal numero degli esseri, unico, indivisibile come gli altri generi; l'essere è necessario, come il contenente lo è al contenuto: è universale, non potendosi dare alcun fenomeno che, esistendo, non cada sotto l'impero di questo genere supremo. La metafisica dell'essere ha seguito passo passo la metafisica del genere. Gli eleatici furono i primi a considerare le antinomie dell'essere quali contraddizioni del nostro intelletto; le scioglievano coll'equazione del non-essere, col nulla. Perchè col non-essere era negato ogni intervallo tra le diverse cose, negata la distinzione delle cose, negata la natura. Quindi l'essere non fu più l'apparenza prima, fu più che l'essere apparente, più che tutti gli esseri. Tanto valeva domandare se il non-uomo esiste; e poichè non esiste, negare ogni cosa. L'essere, divenuto primo principio, tiranneggia Platone, che si assume di spiegare la distinzione delle cose. Platone di aperse uno scampo co' generi. Qui l'essere si allontana ancor più dall'apparenza; i generi di Platone abbellisconsi per interpretare la bellezza, e l'essere diventa bellissimo: i generi di Platone sono attivi per penetrare la formazione delle cose; quindi il genere dei generi diventa attivo, acquista la bontà, si trasfigura; è principio dell'ordine universale; è Dio. La metafisica dell'essere progredisce di nuovo con Aristotele. I generi, dice egli, non ispiegano gli individui: non sono belli, nè buoni, nè attivi. Dunque il genere non è un principio. Solo l'individuo è principio primo; quanto più ci allontaniamo dall'individuo, tanto più ci allontaniamo dalla verità; dunque il genere esiste meno dell'individuo, e l'essere, che è l'ultimo di tutti i generi, esiste meno d'ogni genere. Non basta; l'essere deve conciliarsi col non-essere; e Aristotele spiega ad un tempo l'apparenza dell'essere e la contraddizione del non-essere, mettendosi al di fuori dell'apparenza, creando una cosa nuova, un oggetto nuovo, la materia, che è l'essere in potenza e il non-essere in atto. Per uno strano rivolgimento toglieva così l'essere alla materia, mentre le dava la potenza. I neoplatonici si allontanano sempre più dall'apparenza. Accordano ad Aristotele che l'essere non è bello, nè buono, nè attivo, che riducesi al genere dei generi, al genere di tutti gli esseri. Accordano a Platone che la bellezza, la bontà, la forza, svolgendosi nella serie de' tipi, si riassumono in un tipo perfettissimo. Il tipo e l'essere sono distinti; l'uno è Dio, l'altro l'esistenza di Dio: ma uno è Dio, una l'esistenza di Dio; dunque l'uno e l'altra sono nell'unità, ne sono le ipostasi; ed ecco trasformato l'essere in un'ipostasi dell'Uno. La metafisica dell'essere vagava tra l'estasi e l'ineffabile; più tardi, presso i santi Padri, presso gli scolastici, si confondeva colla formola della trinità cristiana. Alla caduta della scolastica la metafisica riprende il volo, oltrepassa il realismo ed il nominalismo; cammina sola, fatta astrazione dalla religione. Descartes entrò il primo nella nuova via. Io concepisco la perfezione, diceva egli, posso oltrepassarla all'infinito; vi aggiungo la nuova perfezione dell'essere, io concepisco un essere perfetto come possibile, dunque esiste. Questa dimostrazione dell'esistenza di Dio mescola la verità colla follìa: la verità sta nell'equazione dell'essere e del parere meravigliosamente afferrata nel genere di tutti i generi; la follìa sta nell'artificio, che moltiplica le perfezioni per fare dell'essere un Dio. Descartes non errava riducendo l'essere ad un'apparenza, ma errava dando all'essere la divinità. L'apparenza era nell'essere; Dio non era nell'apparenza, non era nella verità; era la soluzione imaginaria di tutte le contraddizioni della natura e del pensiero. È superfluo il dire che, lungi dallo sciogliere antinomia alcuna, presso Descartes, l'essere supremo è in contraddizione con tutti gli esseri; solo può esistere, solo è sostanziale, solo necessario; da lui agli esseri non v'ha identità, non equazione, non deduzione. Descartes, che pretendeva di procedere per equazioni, fece emergere meglio degli altri metafisici che dall'essere non può dedursi veruna sostanza, verun atto, veruna creazione. Come mai un essere necessariamente uno, indivisibile, impassibile, necessario, universale, potrebbe trarre da sè la divisione, l'azione, la contingenza, l'individualità e la distinzione di tutti gli esseri e di tutte le sostanze? Oramai l'antinomia ingrandiva: l'ente di Elea riappariva nell'unità del Dio cartesiano, il cartesianismo rovinava: Spinosa, che se ne accorse, volle evitare la contraddizione sviluppando Descartes. Vi hanno due momenti nel sistema di Spinosa; il primo ammirando: egli rettifica la metafisica cartesiana, il secondo fallace: egli2 lotta contro l'antinomie. Nel primo momento, Spinosa afferra la verità, che si trova in fondo alla dimostrazione di Dio data da Descartes, l'eguaglianza dell'essere e del parere, l'identità dei due termini, la necessità d'ammettere l'esistenza dell'essere, che Spinosa concepisce sotto la forma di una sostanza, una, indivisibile ed eterna. Spinosa mostra dunque la verità là dove appare realmente, nella sostanza universale; in mano sua la dimostrazione dell'esistenza di Dio non dà se non ciò che realmente contiene: la sostanza necessaria ed infinita. L'immensità di Dio diventa l'immensità della sostanza, le perfezioni divine diventano le perfezioni apparenti del mondo, la fatalità si sostituisce alla provvidenza, un ente astratto soppianta il Cristo e comprendiamo la meraviglia il terrore dei teologi che videro sorgere dal seno delle loro dimostrazioni il più geometrico ateismo. Ma nel rettificare la metafisica cartesiana Spinosa volle sciogliere le contraddizioni sollevate dalla geometria dell'essere; e qui incomincia il suo fallire: qui deve spiegare le contraddizioni della sostanza, stabilirla come principio, unica realtà essa deve trarne l'esistenza del mondo. Dacchè essa sola è la sostanza, il tempo, lo spazio cessano di essere ciò che sono, cioè apparenze primitive quanto la sostanza, e divengono attributi del primo principio. Noi cessiamo d'esser sostanze, e più non siamo se non modi; la natura perde l'essere suo, e vedesi tradotta in una serie di modi dell'essere. Spetta alla sostanza a trasmetterci il mondo come sua propria equazione; dunque il mondo si scinde in due parti; vi ha una natura naturante, la sostanza, ed una natura naturata, la creazione. La sostanza è necessaria, dunque la natura apparente, la natura naturata, dev'essere necessaria, adeguata al principio d'onde esce, benchè appaia contingente. Nella sostanza, la necessità abbraccia tutta la realtà, si estende all'infinito, vasta quanto il possibile; dunque nel mondo la necessità abbraccia tutta la realtà, è vasta quanto il possibile; la possibilità è un'illusione come la contingenza. In questa guisa, la deduzione di Spinosa abbraccia il mondo, nuovo Leviathan lo divora, falsandone le apparenze, creando un mondo che non è quello della natura, un uomo che non è del nostro genere, un pensiero che non è della nostra intelligenza. Fatica inutile, perocchè l'antinomia della sostanza non è se non quella dell'essere, quella del genere, e annienta egualmente i modi e le sostanze, gli esseri e gli individui. Arroge che il lavoro si svolge arbitrariamente; se la vostra sostanza rende il mondo impossibile: esatto è il dilemma; avete scelto il termine della sostanza; perchè non scegliere le sostanze, le cose della natura? Apparenti quanto la natura, esse hanno diritto all'onore di signoreggiare la sostanza. Queste considerazioni spinsero i filosofi del decimottavo secolo alla nuova impresa di spiegare l'essere e la sostanza quali concezioni dello spirito. Non si pensò più a dedurre il mondo dalla sostanza, a trarre il genere dall'individuo; si volle al contrario, il genere dedotto dall'individuo; la sostanza dalle sostanze, l'essere dagli esseri: al problema dell'individuazione fu sostituito quello della generalizzazione. Capovolgevasi l'errore con nuova metafisica. Se voi generalizzate, si è perchè i generi esistono; se classificate gli oggetti, si è perchè le classi esistono; senza i generi vedreste solo individui, senza la sostanza l'apparenza della sostanza non si offrirebbe all'intelletto, l'essere non si manifesterebbe in mezzo agli esseri. I filosofi del secolo decimottavo si credevano uomini molto positivi, osservatori della natura; avrebbero riputato vergogna il credere ai tipi, alle ecceità, agli angeli: combattevano fieramente la metafisica. Ma ignoravano la critica, consideravano le contraddizioni eterne quali errori dell'uomo, le volevano sciolte; erano logici, e la metafisica era una necessità del loro metodo e della loro ignoranza. Osservatori, non osservavano i generi; uomini positivi, non s'accorgevano essere il genere positivo quanto l'individuo. La preoccupazione di rendere ragione di tutto, conducevali a cercare un'apparenza che fosse prima; al suo cospetto le altre apparenze cessavano di essere quelle che erano, e si menomavano. Collo stabilire un principio, i filosofi del decimottavo secolo prendevano l'assunto, come Descartes, come Spinosa, di scoprire la grand'equazione dell'universo; l'assurdo cartesiano ripetevasi capovolto quando essi passavano dall'individuo o piuttosto dalla sensazione al genere e all'idea. Essi non possono potevano limitarsi a dichiarare che il genere è una nostra maniera di vedere; devono penetrare il processo con cui si forma nel nostro intelletto. Locke dice che formasi per astrazione: così una facoltà dell'anima si sostituisce alle somiglianze delle cose, o almeno le supplisce. Esistono esse realmente? o sono nostre illusioni? Se non esistono, l'astrazione non può afferrarle; se esistono, i generi sono, non si formano. Adamo Smith risponde che non esistono, che noi generalizziamo colla forza sola della parola, che la parola sola è generica, che il genere non è. Sia; in qual modo la parola sola sarebbe generica? in qual modo produrrebbe essa l'illusione del genere? È convenuto che il genere non è; è inteso che l'illusione del genere esiste; ma se essa sorge dalla parola, bisogna mostrarci in qual modo la parola oltrepassando le cose percette, le fa parere come non sono, nei generi. Hume risponde, che la parola corrobora l'associazione delle idee, cioè l'abitudine; e l'illusione del genere esce dall'abitudine, la quale riunisce gli individui distinti e li afferra nell'ordine del loro apparire, sì che ogni uomo ci richiama gli uomini. La risposta non vale: gli uomini non sono l'uomo; la moltitudine non è il genere; la unione non è la generalizzazione. L'abitudine restringesi a riunire i fenomeni: li generalizza? li rende essa somiglianti? può essa trasportare il simile nel diverso? l'identità nella differenza? L'unione di due cose opposte è forse una generalizzazione? In qual modo l'abitudine diventerà il tempo, lo spazio, l'essere, la sostanza, la causa, generi primitivi universali, superiori ad ogni abitudine, e contenenti necessariamente le abitudini, giacchè ogni essere, ogni associazione appare contenuta dal tempo, dallo spazio, dalla sostanza, dalla causa? Se Spinosa, costretto a individuare la sostanza, dichiarava essere noi modi dell'eterno, Davide Hume, impegnato a generalizzare la sensazione, dichiara essere la sostanza un modo dell'io: se Spinosa crea la natura traendola dal vuoto della sostanza, David Hume la crea traendola dal vuoto dell'abitudine. Dai due lati il processo è lo stesso, l'impossibilità torna la stessa, e i nuovi filosofi non possono distruggere la metafisica che aborrono e che s'insinua, a loro dispetto, ne' loro sistemi; riluttando all'apparenza, rimangono avvolti nel vortice della critica. Il genere fu ristaurato da Kant; ma poco giova se l'eclettismo, fondandosi sui generi, pretende di avere sconfitta la critica. Gli eclettici si rallegrano di avere conquistate le nozioni eterne dello mspazio, del tempo, della sostanza e della causa: le adorano, ne parlano giubilanti come di principj assolutamente certi, i quali, giusta Platone, danno alle cose la potenza di essere conosciute, all'anima quella di conoscerle. Codesti nuovi scolastici si pascono di parole, e vendono un inganno. Lo spazio, il tempo, la sostanza, la causa non ispiegano nulla, non attestano, non istabiliscono che sè stessi; sono vuote generalità, da cui nessun oggetto può essere determinato o vincolato in modo alcuno. I corpi sfuggono alla generalità dello spazio, i moti a quella del tempo, le sostanze alla sostanza, gli effetti alla causa: certissimi dei quattro principj, a cui devesi almeno aggiungere il quinto dell'essere, restiamo incertissimi sui corpi, sui moti, sulle cose, sulle generazioni, su tutti i fenomeni della natura, i quali potrebbero attuarsi al rovescio, intervertirsi in tutti i sensi, senza che lo vietino i principj che chiamansi conquistati sullo scetticismo. A che dunque si riduce la celebrata vittoria sulla critica? a una millanteria. Poi, la critica non si sviluppa negando l'evidenza dei generi sommi o inferiori; al contrario, si sviluppa accettandoli, e opponendovi un'evidenza contraria, opponendo allo spazio il corpo, al tempo il moto, alla sostanza le sostanze, alla causa gli effetti: ivi trovasi la contraddizione: chi vanta festivo la conquista dei generi supremi, provoca illuso i supremi dilemmi dell'universo, quelli appunto che a priori rendono il mondo impossibile. E come l'eclettismo resiste alla contraddizione? Affermando che la sostanza è attiva, che il nostro percepirla la suppone operante su di noi, quindi energica, generatrice di effetti; quindi generatrice della natura, e causa di tutte le sostanze: la causa diventa così il termine medio con cui si transisce dalla sostanza alle sostanze. La sostanza è dessa veramente attiva? Appare sostanza e non altro, sta in sè, fatta astrazione dal nostro percepirla; sebbene percetta, si dice indipendente, non ha bisogno delle sostanze, come lo spazio che non ha bisogno dei corpi, benchè percetto all'occasione dei corpi. Dunque la sostanza eclettica non è la sostanza che appare, è un genere attivo, un'invenzione metafisica, dunque dalla sostanza non si procede necessariamente alla causa. Dato il passaggio alla causa, giungiamo noi logicamente alle sostanze? L'affermarlo vale quanto affermare la contraddizione con parole che la travisano ignorandola. La causa si áltera, riassume le stesse contraddizioni dell'alterazione, e noi coll'affidarle l'origine del mondo facciamo dipendere tutta la natura dal principio stesso della contraddizione. L'eclettismo ricade ciecamente nella metafisica; ma col cuore palpitante d'ipocrisia, ci mostra Dio nella sostanza, affinchè lo spettro della religione riappaiaseno della filosofia. Questa èla sua vittoria. Spinosa impugnava la religione colla metafisica, l'eclettismo raccozza i cenci di Spinosa perchè profittino alla Chiesa. Stiamo all'erta, che la filosofia non c'inganni. La causa non è se non il genere delle cause, il genere delle sostanze considerate nell'operare, un genere non di esseri, ma di relazioni, non di equazioni, ma di contraddizioni. Causa significa lotta, combattimento, alterazione, gravitazione, affinità, generazione; significa vivere, morire, nascere, perire, ipparire, scomparire. Vacua per sè, ci lascia nell'ignoranza delle cause, nulla insegna alle scienze, non afferra la verità, non è reale, non positiva, non determinata: non è il Dio padre che guidava i nostri padri, nè la ragione che guiderà i nostri figli.
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