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Giuseppe Ferrari Filosofia della rivoluzione IntraText CT - Lettura del testo |
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Capitolo XI
LA POESIA
Nella poesia il ritmo della vita si manifesta puro e scevro d'ogni altro elemento: il poeta sdegna la realtà, non si sottomette ai fatti, finge, mente; vuol essere assolutamente libero, e giunge a rivelare il ritmo della vita e il sistema mistico che lo anima, perchè non tiene in conto alcuno la verità meccanica delle sue parole. Tutte le teorie a me note intorno la poesia sono figlie del pregiudizio metafisico, che parte da una data apparenza per dedurne logicamente le altre. Quindi si cercò l'equazione della poesia, quindi invece di spiegarla, fu resa impossibile e fu distrutta. Stando ad alcuni filosofi, la poesia è la stessa verità, emerge dalla scienza e dalla sapienza, e mille volte fu ripetuto che il bello è l'irradiazione del vero. Qui l'arte vien disconosciuta: la poesia non è dotta, nè veridica, non vuole esser serva di alcuna dottrina; essa prodiga i suoi tesori alla verità quanto all'errore, scorre libera in mezzo alle finzioni, il suo campo naturale è quello della favola. La verità, invece di spiegare la poesia, l'accusa di menzogna e di follìa; l'accusa di ingannare, di traviare, senza che mai possa render ragione delle sue aberrazioni. Qualche volta la poesia è savia, divien didattica, e allora è fredda compassata, riducesi ad un ornamento inutile e frivolo della verità; l'insegnamento si migliora sciogliendosi dall'impaccio del verso e dall'equivoco della metafora. La verità proscrive adunque la poesia. Platone condanna i poeti, li sprezza quai ciurmadori, li esilia dalla sua Repubblica. Posto il principio del vero, anche l'eloquenza deve subire la sorte della poesia: gli stoici la condannano: secondo essi, al sapiente un sol motto deve bastare. Se parla quando ha già esposto il vero, divien frivolo; se parla quando la dimostrazione vien meno, allora si fa giuoco di noi, la frivolezza cede il posto alla perversità. La poesia, l'eloquenza e in generale tutte le arti, sono altrettante forme dell'errore dal momento che si giudicano sotto l'aspetto della verità. Costretta a separare la poesia dal vero, la metafisica ha tentato di dominarla, considerandola come una imitazione della natura: si crede che senza essere didattica, senza proporsi lo scopo d'istruirci, si proponga quello di darci l'immagine delle cose. Ma qui ancora l'essenza della poesia ci sfugge. Il poeta non è semplice imitatore, è creatore; anche quando imita, sceglie l'oggetto della sua imitazione, lo appura coll'ispirazione del bello, lo scioglie dagli accidenti che lo deturpano; il pittore non è tale se non alla condizione di dare l'impronta della bellezza al ritratto più fedele. La poesia oltrepassa dunque la imitazione, si sviluppa disprezzandola, falsifica la storia sostituendole la leggenda; l'epopea, invece di imitare la natura, la crea una seconda volta, dando mille volte l'esistenza all'impossibile. Se l'imitazione spiegasse la poesia, il più misero ritratto sarebbe superiore alla più splendida tela, il più misero grappolo d'uva dovrebbe preferirsi all'uva di Zeusi. D'altronde, perchè imitare ciò che esiste? Meglio sarebbe, dice Hegel, fabbricare il chiodo e il martello, che perdere il tempo a dare un'utile e vuota ripetizione dei fatti. Da ultimo, come tradurre nel principio dell'imitazione l'architettura, l'eloquenza, la musica, tutte le arti? Una terza teoria spiega la poesia, supponendo in lei lo scopo di render migliori i costumi, di appurare le passioni, di perfezionare l'uomo. La nuova equazione dell'arte colla morale non regge; la poesia non è un insegnamento morale, come non è un insegnamento positivo. La moralità è cosa precisa, collegata col vero; l'arte, al contrario, vuole uno spazio assolutamente libero. Non havvi cosa più insipida che la poesia quando si propone di dettarci in noi un insegnamento morale, di renderci buoni sposi, ottimi cittadini e uomini onestissimi. Allora tutto il vizio della finzione poetica si palesa; la poesia cessa di animare la favola, si raccoglie negli ornamenti, negli episodi, sparisce dal poema. Se la morale ha una parte nella poesia, il poeta deve ignorarlo. Da ultimo, l'ispirazione e la decenza, la poesia e la morale che si confondono nelle altissime regioni dell'arte, si separano troppo spesso nelle regioni inferiori, e ne scaturiscono mille romanzi, mille novelle di una ammirabile indecenza e di una scandalosa bellezza. Si tentò render conto della poesia coll'idea della finalità, perchè gradisce il vedere subordinati i mezzi ad un fine: là dove trovasi una combinazione di congegni per raggiungere uno scopo trovasi il bello, e Kant pensa che la finalità sia il secreto della poesia. Ma l'attrazione misteriosa dell'ordine è comune alle arti, quanto alle scienze; ispira egualmente il poeta e lo scienziato, non fa verun conto della linea che divide il cantare dal sapere. Havvi una bellezza vaga e indeterminata, la bellezza dei campi, dei colori, di certi effetti di luce: qui dove è la finalità? L'ispezione anatomica dei corpi organizzati svela una finalità mille volte superiore a quella indicata dalle forme esteriori dei corpi stessi; eppure l'arte si ferma alle forme esteriori, e aborre dall'intero congegno dei muscoli, dei nervi, delle vene. Il museo d'anatomia non fu mai considerato qual museo di belle arti. Se la poesia si serve dei fini e dei mezzi, se svolgesi coll'ordine, se ravvicina, allontana e complica a disegno le cause e gli effetti, si è perchè deve essere intelligente, imitare le opere della natura, e in una parola fingere la realtà. Nel mondo hannovi cause ed effetti, e nel mondo imaginario della poesia devonsi trovare le cause e gli effetti. Ma la finalità non ispiega la poesia, non la costituisce; e perchè l'arte si riveli, bisogna che la finalità sia bella, poetica, cioè che presenti un carattere diverso dalla finalità stessa. - Poi dov'è la finalità nel sublime? Esso si svela ne' dirupi, nell'oceano in tempesta, nell'incommensurabile vastità del firmamento, nelle cose che non hanno fine; il sublime non ha scopo, basta a sè stesso. Dov'è la finalità nella tragedia? Ivi manca, ed è precisamente nella catastrofe, nella finalità violata che la poesia tragica splende in tutta la sua grandezza. Dunque la poesia esprime quasi sempre un'azione, e sotto quest'aspetto subisce la legge dell'azione; accetta la necessità dell'ordine, subordina i mezzi allo scopo; ma tutti gli ordini non sono belli, tutte le azioni, anche più meditate, non sono poetiche; la poesia trovasi solo in alcune azioni, in alcune finalità; e se cercasi l'equazione tra la finalità e la poesia, questa trovasi ridotta alla favola, all'abbozzo, allo scheletro su cui si fonda; l'arte è distrutta. Lo scopo dell'arte sarebbe forse di commuovere, di eccitare la sensibilità? La metafisica, ridotta a prendere questa formola per render ragione dell'arte, confessa implicitamente la sua impotenza, e non tocca nemmeno all'essenza della poesia. La commozione è un fenomeno latissimo; siam commossi dalle sventure, dalla felicità dei nostri simili, dai medesimi nostri interessi. Se l'arte avesse il solo scopo di commuovere, il bello e il deforme servirebbero ugualmente alla poesia; l'arte non potrebbe distinguersi dall'ebbrezza, dall'amore, dal delirio, dalla follìa: il poeta avrebbe il diritto di errare tra stolte paure, di porre il suo scopo in un errore volgare, di distruggere l'arte cercando l'equazione dell'affetto. Hegel rinnovò la metafisica dell'arte, dichiarando che l'arte è la conciliazione della natura e della ragione, che sta fra il mondo sensibile ed il pensiero, esprime sensibilmente ciò che non è sensibile, cioè la ragione. Così la bellezza dell'animale mostra sensibilmente l'idea invisibile che organizza l'animale, così l'epopea svela sensibilmente la ragione dell'epoca a cui appartiene. Il fatto nudo non è bello, il pensiero non può esser visto, la poesia tocca al fatto ed al pensiero, ed emerge dalla contraddizione che rende visibile l'invisibile. L'estetica di Hegel ci offre un merito altissimo e un capitale difetto. Il merito si è di mostrarci d'un tratto tutte le contraddizioni della poesia, ragionevole senza essere la ragione, imita la natura senza imitarla, ammaestra senza voler ammaestrare, ci perfeziona senza volerci perfezionare; è folle senza follìa, è savia senza essere savia, è ordinata senza essere veramente ordinata, è capricciosa senza capricci: insomma trovasi in contraddizione con tutte le cose che tocca. Il difetto capitale dell'estetica hegeliana consiste nel prendere la stessa contraddizione, proponendo il fatto quasi fosse una soluzione generata dal contrasto del senso coll'intelligenza. Non contestiamo la contraddizione, contestiamo la sintesi, la generazione che viene artificiosamente assenta. Hannovi mille sentimenti prosaici e scipiti che risultano dal senso e dalla ragione; il tedio che conduce al suicidio emerge da una sazietà sensibile e da un raziocinio invisibile; dicesi dello spleen quanto dicesi della poesia; è sensibile, e non lo è; dipende dalla ragione, e non è ragionevole; lo spleen emerge dalle proprie antinomie? o piuttosto sorge contraddicendo alle circostanze che lo circondano, e quasi a dispetto di quanto sembra condizione dei suo apparire? Non si può rispondere. Così l'essenza della poesia di Hegel, che la ripone in cose comuni allo spleen, all'inquietudine, alla noia, e fors'anco alla pazzia. In ultima analisi, egli sostituisce all'ultimo carattere della poesia, il contraddirsi dell'ispirazione poetica. È patente l'impossibilità di ottenere l'equazione della poesia; nè si può chiederla se non alla realtà; e stando alla realtà, la poesia è una menzogna, o una imitazione senza scopo, o un insegnamento morale senza ispirazione, o una finalità senza significato, o un mezzo per commuovere, poco importa il come, o una contraddizione enigmatica. Convien cercare la poesia là dove trovasi, osservarla dove appare: essa è l'espressione pura della rivelazione interiore, dell'incanto della vita. L'arte deve rivelarci a noi stessi, farci sentire il ritmo dei nostri sentimenti umani, e il sistema del nostro misticismo. Per sè il sentimento, il mistero interiore sfugge ad ogni descrizione diretta, la parola lo indica senza seguirlo; la vita è ineffabile, è assente dal dizionario, o, se vuolsi afferrarla nella descrizione, si riduce ad una forza meccanica. L'arte descrive il sentimento facendolo nascere in noi stessi, e lo fa nascere sviluppando dinanzi a noi i fenomeni che lo destano. S'impadronisce delle nubi, degli astri, de' fiumi, della storia, delle catastrofi, di quanto appare fuori di noi, per risvegliare in noi la musica, il sistema de' nostri istinti. Lasciata a sè stessa, la realtà fluttua a caso in balìa di mille accidenti del mondo fisico; ci opprime colle particolarità volgari, schifose o prosaiche; il ritmo della vita non è pago se non tratto tratto in una festa, sul campo di battaglia, nell'aula d'un senato: anche ne' momenti più solenni, la vita vincolata alla realtà, trovasi oppressa dall'attrito di tutte le forze che violano il nostro ritmo. La poesia lascia le circostanze insignificanti, le cose volgari, lascia il caso della materia per riunire solo i fenomeni che risvegliano i fenomeni magici del sentimento e colla descrizione fantastica elude la doppia impossibilità di descrivere direttamente il sentimento, e di destarlo colla descrizione fedele degli oggetti che lo sforzano a manifestarsi. Col fantastico la poesia rifà dunque la natura secondo il ritmo della vita; finge, sposta, falsa gli avvenimenti, li ravvicina, li separa, nulla può opporsi al suo capriccio; ed è così che essa rivela la vita alla vita. Nella scienza, nella pratica prendiamo la vita come un fatto, i suoi istinti come altrettanti dati; non pensiamo che a soddisfarli considerandoli nel mondo come altrettante forze. Ivi l'insegnamento è preciso, deve essere vero, accetta gli impulsi primitivi della vita; sarà l'interesse mosso dall'onore o dalla gloria o dall'amore; nella pratica il nostro pensare e il nostro agire non guardano se non alle leggi, all'urto, all'equilibrio delle forze esteriori. All'opposto, nell'arte il mondo non è un fatto, è un'ipotesi fantastica, i fenomeni esteriori sono dati mobili, variabili, di cui possiamo disporre a piacere, dimentichiamo la verità meccanica, e abbiamo solo lo scopo di destare in noi le melodie del mondo interno. Quando l'uomo opera, domina il mondo colle sue passioni; quando è poeta, regna sulle passioni creando un mondo fantastico. Nella scienza siamo liberi di conoscere o d'ignorare, ma il mondo è fatale, inesorabile quanto la verità; nell'arte è il mondo che trovasi libero, che si può modificare a piacere, la fatalità è in noi, nel ritmo della vita che ci anima. Ritorniamo alle diverse spiegazioni della poesia: il loro difetto sta nel dimenticare il ritmo della vita; ristabilito il ritmo della vita, sarà facile rettificarle e trarne profitto. - Fu detto essere l'arte un'imitazione della natura: il detto sarà vero, se l'imitazione dell'arte si propone, non di copiare le cose, ma di risvegliare il ritmo ad esse corrispondente. Dovunque l'imitazione serve alla cosa imitata, qui l'imitazione serve ad una legge di cui le manifestazioni non hanno nulla di comune colle cose. Ne nasce che l'imitazione artistica travisa le cose, trasforma gli alberi in colonne, le foglie in volute fantastiche, il passo nella danza, il suono nella musica, il racconto nell'epopea; dovunque l'arte diventa infedele al fatto per rimaner fedelissima alla vita che vibra in noi. - Kant rendeva ragione dell'arte mediante il principio della finalità; la faceva consistere nell'ordine. Egli è vero che imitando la natura, essa deve subirne le leggi; parlando alla vita, essa deve richiamarne l'ordine organico, ordinare i mezzi allo scopo, l'effetto all'ultima causa. Ma la finalità poetica è compiutamente arbitraria, limitasi a fingere il meccanismo esterno. Nel meccanismo si obbedisce alla finalità per ricavarne effetti esterni; nella poesia le si obbedisce per ottenere effetti interni sul ritmo misterioso del sentimento. - Fu detto che l'arte ha per fine di commovere la sensibilità; ma questa definizione indeterminata non si compie, non distingue la poesia dall'orgia, da ogni altra commozione, se non col dare all'eccitazione lo scopo di sentire il ritmo della vita. - Secondo alcuni l'arte è un'irradiazione del vero; e ammettiamo che lo sia, alla condizione di riporre il suo vero nella musica degli istinti, non nella verità materiale del racconto, non nella verità di un dogma. - Fu detto che istruisce; sì, l'arte insegna la verità, non la verità esterna, ma quella del ritmo; e qui la verità del poeta è più vera di quella del fisico, dello storico e del cronichista. La storia si ferma agli effetti meccanici delle grandi idee; la poesia ci svela le forze vitali che hanno disposto degli eventi esterni. In questo senso Omero, Dante e Shakespeare sono i più grandi storici dell'umanità. - Da ultimo, si potrà considerare l'arte sotto l'aspetto di un insegnamento morale, darle lo scopo di appurare le passioni, di perfezionare l'uomo; ma non è di proposito deliberato, non è per una intenzione diretta che il poeta divien moralista. Interprete dell'armonia sociale e pittore del ritmo che anima l'umanità, divien fatalmente l'interprete dell'opera de' profeti e de' legislatori, e non potrà raggiungere il sublime senza seguire la plastica misteriosa dell'ordine che spegne progressivamente coi beni il male, coordinando gli interessi della società. Tutti i misteri dell'arte si spiegano quando si considera l'arte come una rivelazione della vita alla vita stessa. Il primo de' suoi misteri è la bellezza: non possiamo definirla, ma possiamo indicar come appare. Si manifesta all'istante in cui diventiamo spettatori disinteressati delle cose. Il serpente che ci avvelena, il cavallo che ci scavalca non sono nè belli, nè deformi, sono forze, colle quali lottiamo; non pensiamo che al dolore o al piacere, all'essere o al non-essere. Il pericolo svanisce? non isperiamo alcun vantaggio diretto? Allora il serpente, il cavallo, tutti gli esseri appaiono belli o deformi: nessun oggetto si sottrae a questa qualificazione data dalla vita. La rupe, l'onda, il rivo, tutto ci commove: per gli oggetti minimi, l'emozione è minima, impercettibile; e quando si ingrandiscono, si ingrandisce il sentimento che loro corrisponde. Che cosa è dunque la bellezza? È una apparizione corrispondente ai valori: finchè i valori ci attraggono, la vita opera, viviamo; non si pensa al bello, non si contempla: quando cessiamo di agire, e che la vita è in certo modo sospesa, il ritmo ci mostra la vita sotto la forma del bello. Hannovi due sorta di valori per l'uomo in azione; gli uni generali, gli altri speciali. I primi sono quelli determinati a priori dall'istinto e comuni a tutti gli uomini; gli altri presuppongono un sistema sociale, una sintesi di tendenze, di beni, un intreccio d'istinti. Istessamente, perla vita che osserva la vita, hannovi due specie di bellezze, le une generali, umane: gli occhi bastano a discernerle; le altre sono speciali; sono le bellezze istoriche, quelle che si rivelano alla vita, che osserva la vita delle nazioni, dei popoli, delle religioni. Le une sono preliminari, le altre successive. Spetta alla vita il contemplare esteticamente la vita: quindi non è possibile insegnare l'arte del bello. Il bello è una specie di tesi senza prova; possiamo indicarlo, dove si mostra più appariscente; questa è la funzione della critica, dell'analisi letteraria, dell'estetica. Si stralcia un poema, si additano le principali sue bellezze; ma la dimostrazione si riduce a un semplice annotamento. Nessuno dirà mai perchè un sonetto di Petrarca è una meraviglia sì perfetta, che il cambiargli una parola sia un profanarlo. Nessuno dirà neppure perchè una composizione è mediocre, difettosa sotto l'aspetto dell'arte; viene disprezzata, ed è giudicata dalla sola espressione del disprezzo. Non vi hanno regole per l'arte. I precetti dell'arte poetica riduconsi ad alcune generalità estratte da un certo numero di capolavori. Si decompongono i drammi, i poemi; si traducono nei loro elementi più esterni, si cercano le traccie materiali del ritmo che li ha creati; si contano le sillabe del verso, si osserva l'ordine dei canti, l'atteggiamento della finzione, dell'azione, della finalità, e si dettano le regole. Sono regole tutte esterne e fisiche, cadono sulla realtà: esse pretendono d'imporre al poeta le tre unità del dramma, al dramma il sogno e la catastrofe della tragedia antica, alla tragedia un dato numero di personaggi, un dato numero di atti. Il vero poeta segue le regole senza saperle, le crea ignorandole, le viola sorpassandole: dall'altro lato, il cattivo poeta può comporre pessimi poemi, applicando scrupolosamente tutti i precetti dell'arte. La poesia è dunque opera d'imaginazione, non può essere governata, non può essere insegnata, non può essere trasmessa come la scienza. Da ultimo, i poeti debbono chiedere alle religioni il soggetto de' loro poemi. Nel fatto, devono rimanere in un sistema mistico, devono parlare a un sistema, voglio dire, a una patria, a un popolo cui appartengono: una poesia fantastica che volesse mostrare il solo ritmo, ridurrebbesi ad un'insipida pastorale, ad una effeminata elegia; un poeta senza religione, senza dati storici, sarebbe un poeta senza popolo, non apparterrebbe ad alcun'epoca, ad alcuna gente. Canterebbe il verde de' prati, l'onda de' fiumi, sarebbe in estasi dinanzi ai pesci, alle selve, ai fiori; sarebbe un selvaggio. Questa considerazione scioglie il problema del bello assoluto. Che cosa è il bello assoluto? Quello d'un sistema? Non è assoluto, è relativo ad una fase istorica, appartiene alla Grecia, a Roma, all'Europa. Il bello assoluto deve appartenere all'umanità, sarà dunque o il bello istorico del sistema avvenire dell'umanità, o il bello rude e selvaggio che splende sui valori del ritmo, quando sono contemplati e non desiderati.
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