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Giuseppe Ferrari
Filosofia della rivoluzione

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  • PARTE SECONDA   DELLA RIVELAZIONE NATURALE
    • SEZIONE SECONDA   LA RIVELAZIONE DELLA VITA
      • Capitolo XV   L'ALIENAZIONE MENTALE
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Capitolo XV

 

L'ALIENAZIONE MENTALE

 

Hannovi alcuni uomini profondamente ridicoli, benchè infelici: sono i dementi. Come il ridicolo, la demenza sta nella discordia tra la rivelazione della vita e la rivelazione degli esseri. Se il ritmo della vita si falsa, se il sistema degli istinti si turba, se le cose insignificanti acquistano per noi un valore smisurato, se trascuriamo le cose che più ci interessano, in breve, se il sistema della vita si sviluppa fuori della realtà, la follìa si dichiara, la mente è perduta.

Essendo la follìa la malattia della vita, non può venire giudicata se non dall'intuizione vitale. Tolta l'intuizione vitale, scorgiamo le circostanze esterne, il fatto materiale o meccanico della follìa, non la stessa follìa; in quel modo che, spogliati di ogni istinto poetico, noi vedremo nell'Iliade il numero dei canti, dei versi, il racconto, il vero, il falso, non mai la poesia di Omero. La scienza medica tende a fermare l'attenzione sui fatti: quindi ha osservato l'alienazione mentale nell'organismo infermo, nell'errore della mente alterata, nel vizio della volontà, che sono le tre uscite esterne e meccaniche della follìa. Di là tre teorie, l'uno fisica, l'altra intellettuale, la terza morale. Ci convien esaminarle per sottrarre la rivelazione della follìa a tre equazioni meccaniche che la travisano per poi travolgerla nelle aberrazioni della metafisica.

La teoria fisica considera la demenza come un'infermità del corpo, e trovasi vinta nell'atto stesso in cui vuol stabilirsi. Qual'è il primo suo debito? Deve caratterizzare la follìa, mostrare in che differisce dallo stato regolare della vita, e la teoria fisica non regge nell'assunto. Quando la follìa si manifesta, chi la riconosce? Non il medico, ma la famiglia, gli amici, i conoscenti dell'infermo. Il medico si limita alle funzioni di testimone, interroga l'infermo, lo giudica dai discorsi, dallo sguardo, dal gesto; il suo giudizio è il giudizio di tutti, nè altro deve fare se non verificare il fatto come officiale di salute. Il fenomeno della malattia sfugge completamente all'osservazione fisiologica. La salute può essere perfetta, il polso regolare, l'organizzazione senza vizio, e in pari tempo l'infermo può essere perduto per sempre. I sintomi patologici che in alcuni individui accompagnano o precedono la malattia, sono sintomi secondari, che rinvengonsi negli ammalati la cui intelligenza non trovasi punto alterata. Il senso leso, le visioni, le allucinazioni, le voci interiori, il gusto e l'odorato falsati, il tatto affievolito, la disadattaggine quasi universale degli alienati, la forza spaventosa dei maniaci, l'eccessivo calore che divora i furiosi, sono fenomeni fisici: spetta solo al fisico, voglio dire solo al medico, il giudicarli; ma possiamo noi confonderli colla pazzia? No, certo; le voci interne, le allucinazioni non la costituiscono; le sensazioni possono essere lese, senza che la ragione sia scossa, il fenomeno della visione si manifesta negli uomini i più fermi; qualche volta apparve nei momenti più solenni della vita dei profeti. Lungi dal traviare, fortificava l'intelligenza dei veggenti. Se la mania moltiplica le forze, la collera, l'ispirazione possono alla loro volta moltiplicarle, nè mai alcun dato fisico separerà la pazzia dalla mente sana.

Impotente nel caratterizzare la follìa, la teoria fisica inciampa di nuovo quando deve indicarne le cause. Che la ragione sia turbata dalle perturbazioni del nostro organismo è cosa patente; l'intelligenza stessa perisce quando il corpo perisce. L'eccesso del freddo, un colpo di sole, la crapula, il libertinaggio, l'epilessia, il disordine dei mestrui, le cadute, le ferite nella testa, le febbri, l'abuso del sonno, e in generale tutte le cause che ledono il corpo ledono pure lo spirito. Sono esse le vere cause dell'alienazione mentale? No; la follìa non è nell'organismo, è altrove, negli istinti, nelle passioni, nella vita. Tra il fremere dell'aria e il suono, tra la luce e la visione havvi un abisso; gli organi dell'amore non ispiegano l'amore, nè il parto spiega la tenerezza della madre per il figlio. Tra lo sconcerto organico e la pazzia che ne consegue, l'abisso è ancora più profondo. Se un orologio cade, ritarderà, avanzerà, sarà guasto. Quale ne è la causa? Per il volgo sarà la caduta; per il meccanico la caduta non è se non l'occasione, di cui non tien conto; per lui la causa starà nelle ruote torte, nelle molle falsate, nelle incastrature peste. La teoria fisica della follìa si ferma alle occasioni rozze ed esterne dello sconcerto intellettuale; non afferra le vere cause che alterano la serie de' congegni nervosi e meccanici dei pazzi. D'indi la doppia impossibilità di spiegare fisicamente la pazzia. In primo luogo, il fenomeno si sottrae all'occhio, si manifesta in un campo non meccanico. In secondo luogo, il meccanismo che corrisponde alle forze della nostra vita interiore si sottrae di nuovo alla nostra osservazione. Le molle, i congegni, i fluidi alterati dalle cause esterne che generano la pazzia, rimangono inaccessibili a tutti gli sforzi della fisica.

L'autopsia de' pazzi conferma l'impotenza della teoria fisica. Ecco i risultati dell'anatomia quali trovansi formulati da Esquirol: «1° I vizi della conformazione del cranio rinvengonsi solo negli imbecilli; 2° le lesioni organiche dell'encefalo e de' suoi viluppi non si osservano se non negli alienati, la cui follìa complicavasi colla paralisìa, colle convulsioni e coll'epilessia; 3° tutte le lesioni organiche osservate negli alienati rinvengonsi in altri individui, che non hanno mai delirato; 4° molti alienati non offrono alterazione alcuna; 5° la patologia ci mostra ogni parte dell'organo encefalico alterata, suppurata, distrutta, senza lesione dell'intelletto.» Ecco adunque le lesioni senza pazzia, e la pazzia senza lesioni. Supponiamo che la pazzia corrompa realmente le diverse parti del cervello; supponiamo che la malattia si dichiari nelle parti corrotte; ammettiamo che tutti i nostri istinti, tutte le nostre facoltà si possano localizzare nei diversi compartimenti del cervello. Le cause della pazzia sarebbero scoperte coll'autopsia? No; vedendo la lesione organica potremmo scorgere la sede della malattia, le cause meccaniche corrispondenti alla vita falsata; ma il falso stesso della vitalità alienata ci sfuggirebbe ancora. - Del resto, la pazzia si palesa il più delle volte come l'effetto di cause morali: in qual modo la fisica potrebbe oltrepassare l'ispezione dei muscoli e dei nervi per afferrare l'influenza d'un fatto su di una passione? La malattia viene destata dalla collera, dall'amore, dall'imitazione, dal piacere, dal dolore; ed anche dopo avere esplorate tutte le cause fisiche, il fisico dovrebbe rinunciare alla spiegazione della metà dei fenomeni della alienazione mentale, in cui la malattia si trasmette dalla vita alla vita.

Se la teoria fisica non può determinare nè i caratteri, nè le cause della follìa, non è guari più felice nella cura dell'infermo. Qui l'impotenza dei farmaci è confessata dai medici più illustri: ne' manicomj si curano le malattie accessorie, o si conserva la salute dell'alienato co' mezzi suggeriti dall'igiene; ma non si diminuisce con alcuna medicina il disordine della mente. Dunque la realtà fisica non può nè determinare la linea di separazione che divide la pazzia dallo stato regolare della vita, nè scoprire le cause del male, nè rendere la ragione all'infermo. Ciecamente empirica ne suoi tentativi, la teoria fisica rimane sempre esterna al problema della follìa.

La teoria intellettuale aspira a discoprire nell'intelligenza il secreto dell'alienazione mentale: la sua pretensione sembra ragionevole; il pazzo ragiona, s'inganna, si crede principe, re, Dio: chi giudicherà questo disordine intellettuale, se non l'intelligenza? Ma l'intelligenza è muta sulle rivelazioni della vita; non conosce che il sì, il no, il vero, il falso, l'essere, il non-essere; non sa determinare l'istante in cui la ragione cessa di essere ragionevole, e quando la teoria intellettuale vuol determinare i caratteri della follìa, trovasi inferiore alla stessa teoria fisica. Almeno la teoria fisica può mostrare alcuni sintomi; il furore, l'allucinazione, uno sconcerto organico; la teoria intellettuale non trova alcun dato nell'intelligenza, eccetto il vero e il falso, ed è ridotta a confondere la follìa coll'errore. Ma se l'errore è una follìa, chi non è pazzo? Limiteremo noi la pazzia a quegli errori che oppongono una cieca resistenza ad ogni dimostrazione? Non havvi religione che non resista ciecamente colla sola forza del sistema mistico; la follìa non è la fede, nè la fermezza, nè l'ostinazione. Sta forse negli errori condannati dal senso comune? In questo caso non havvi follìa che non sia stata adorata sugli altari; la metà della filosofia si sviluppa con teorie in opposizione alle credenze universali del genere umano. Porremo noi tra le malattie della mente gli errori funesti all'individuo o alla società? In tal caso sottometteremo alle nostre idee le opinioni sulla felicità e sull'infelicità, sulla moralità e sull'immoralità; i nostri dogmi giudicheranno gli errori funesti, imprigioneremo come pazzi i màrtiri, i profeti delle religioni che noi non professiamo; confonderemo i viziosi coi dementi, gli scellerati coi pazzi. Nè si può opporci l'enormità degli errori del pazzo. Nel manicomio l'uno si chiama imperatore, l'altro si crede Dio; un altro è trasportato dal furore dell'omicidio; ma pur l'intelligenza considera queste aberrazioni, benchè mostruose, come meri errori, meri inganni, e non altro. Ora, la follìa è più che un errore, più che un'illusione. Volete caratterizzarla? Dimostrate l'istante in cui l'errore divien malattia, in cui l'illusione diviene l'alienazione mentale; dimostratelo colla sola intelligenza, e l'intelligenza avrà sciolto il problema. Se questa dimostrazione manca, la teoria è annullata.

L'intelligenza sembra distinguere la fillìa dall'alienazione mentale; quando l'alienato opera senza ragione, senza motivo, quando sragiona di continuo trasportato dal moto della sua propria parola: allora parla, ride, i suoi periodi non possono compiersi, la sua attenzione non può fermarsi, i suoi scritti non hanno senso; il fato ha vinto l'intelligenza. Qui, dov'è la follìa? nell'intelligenza? No; l'alienato è caduto in una specie d'idiotismo animato, ciarliero, è un morto che parla, l'intelligenza è interamente svanita. D'altronde, se havvi la mania del disordine, havvi altresì la mania che chiamasi raziocinante. I medici non si stancano di lodarne gli sforzi, l'imaginazione, la destrezza, l'astuzia. Pinel parla di un infermo che costruiva ingegnosissime macchine cercando il moto perpetuo. Vi sono alienati in cui la mente si leva ad un'altezza che reca meraviglia. «L'uno di essi» dice Pinel, «ne' suoi accessi parlava dei fatti della rivoluzione colla forza, la dignità e la purezza della parola che appena potevasi attendere dall'uomo più profondamente istrutto, e dal più sano giudizio. Ne' suoi lucidi intervalli era un uomo ordinario.» Un altro alienato, rendendo conto della malattia da cui era guarito, dichiara che negli accessi la sua mente otteneva il dono di una felicità straordinaria. «Tutto m'era facile», dice egli; «nei momenti d'accesso nessun ostacolo mi fermava, nè in teoria, nè in pratica. La mia memoria acquistava d'un tratto una singolar percezione, ma richiamava lunghe pagine d'autori latini: d'ordinano trovo a fatica le rime; allora scriveva il verso rapido come la prosa.» Nella monomania l'ammalato gode della sua intelligenza, può essere dotato di un raro ingegno; la pazzia cade su di un concetto unico. Qui ancora spiega un mirabile intendimento. Il monomane credesi perseguitato da nemici imaginari, teme che i suoi alimenti siano avvelenati; se si tenta di confutarlo, le sue risposte ci rendono attoniti. Da ultimo in molti individui la malattia è visibilmente nella volontà, la ragione è perfetta, sanno giudicare sè stessi; conoscono le conseguenze delle loro azioni, eppure non possono dominarsi. Gli uni non sanno togliersi ad un'invincibile pigrizia, rifiutano di vestirsi, di passeggiare; gli altri non possono contenere gli accessi di frenesia che, con loro terrore, sentono imminenti. Una madre spinta dalla mania ad uccidere i figli, ebbe appena il tempo di gettare dalla finestra la chiave della loro stanza; molti, nel momento dell'accesso, sollecitano i loro amici alla fuga, li pregano di sottrarsi agli indomabili loro impeti. Vedesi adunque che ora l'intelligenza è straniera alla follìa, ora la serve; e se essa serve egualmente la salute e la malattia, come mai potrebbe caratterizzare l'alienazione mentale?

Non si può nemmeno rinvenire nell'intelligenza alcuna causa della follìa. Gli istinti falsano le idee, la follìa può viziare tutti i pensieri, travisarli, intervertirli, associarli in mille modi: ma la causa dell'alienazione mentale non è mai nell'intelligenza: se non havvi concetto che possa gettarci nel delirio; a più forte ragione non havvi verità che possa spegnere l'intelligenza. Deploriamo i medici che accusano la democrazia di moltiplicare il numero dei dementi. Facciano il numero dei pazzi del cattolicismo; sorpassano le mille volte quelli della rivoluzione, che almeno non dà corpo alle ombre, e non celebra qual miracolo il morbo dell'allucinazione. In sostanza, le idee sono la materia della follìa, la follìa è altrove, nella paura, nello spavento, nell'ambizione, nella collera. Una volta eccitata la follìa aderisce indifferentemente a tutti i principj, alla religione e alla filosofia, all'assolutismo e alla democrazia; può combinarsi colle più volgari idee, colle più sublimi verità.

La cura della pazzia mostra il vuoto della teoria intellettuale. Possiamo noi confutare i pazzi? possiamo convincerli colla forza del sillogismo? No; la cura intellettuale spesso applicata ai dementi consiste nel servirsi de' loro errori per fingere una catastrofe in cui l'alienato trova la salute nella propria mistificazione. Un alienato credevasi morto, rifiutava di nutrirsi; gli fu provato che i morti mangiano, e allora si decise a mangiare. Un monomane credeva di aver due corna sulla fronte, il medico finse di amputargliele; il pazzo guarì immediatamente. Qualche volta si fecero comparire le ombre, si fece parlar Dio, la Vergine, i santi, e colle rappresentazioni teatrali si è ottenuta qualche guarigione. È questa una cura intellettuale? è una prova forse che l'alienazione sia nell'intelligenza? No; le rappresentazioni teatrali possono rendere la libertà allo infermo, ma il sistema delle sue idee rimane sempre leso, relativamente al suo proprio passato; le sue azioni sono ragionate, la sua monomania è momentaneamente staccata dalla vita pratica, ma sussiste intera nella sua mente. Al minimo accidente si riproduce di nuovo nell'azione e la ricaduta diventa incurabile. Spesso le rappresentazioni teatrali dello spedale non fanno che spostare la pazzia. Ciò perchè l'errore non è se non la materia della follìa; la leggerezza, la foga, il fato della follìa, si aprono un'uscita afferrando un'idea; e se ci limitiamo a vincere l'errore, la pazzia non mancherà di cercare un'altra uscita in una nuova serie di concetti. Qualche volta le rappresentazioni teatrali raggiungono lo scopo; allora il medico è il caso; la cura è un colpo di fortuna: il pazzo non è persuaso, è scosso; non è confutato, è commosso, e trova il suo equilibrio nella scossa. Un incendio nell'ospizio, una caduta felice avrebbero prodotto lo stesso effetto. Così la teoria intellettuale non tocca all'essenza, non alla causa della follìa, e se agisce sul male, lo deve alla fortuna.

Ci rimane d'esaminare la teoria morale. Ivi la follìa deve essere un vizio, un delitto e il carattere dell'alienazione deve esser determinato o dalla forza dei nostri istinti, o dal sistema delle nostre idee. Analizziamo i due casi. Se il carattere della pazzia viene determinato dalle forze de' nostri istinti, devonsi enumerare gli istinti, considerando ogni demenza come l'eccesso o il difetto di una forza istintiva. Allora la pazzia sarà la melanconia che resiste a tutte le distrazioni, l'orgoglio che sfida il mondo, la superstizione che uccide l'infermo, la collera che gli rende impossibile di vivere co' suoi simili; isolata in un istinto, la follìa riducesi ad una forza anormale. In qual modo determinare il difetto e l'eccesso dell'istinto? Nessuno può dirlo; il grado della passione esteriormente misurato ammette una latitudine indefinitamente più grande di quella lasciata dal ritmo interno: essa varia colla situazione, colle idee, colla civiltà: molti pazzi per ambizione sono meno ambiziosi di Cesare; molti dementi per amore amano meno di Eloisa. L'ostia consacrata è un tesoro per il cattolico, per l'istinto isolato non ha alcun valore. Isolarsi nell'istinto e misurarlo sono due cose egualmente impossibili: quando noi affermiamo colla maggior sicurezza, che un infermo è pazzo di amore, di collera, di vanità, di superstizione, non è l'istinto isolato che noi consideriamo, non è la forza dell'azione che noi misuriamo; giudichiamo il demente col ritmo de' nostri sentimenti, e lo troviamo sì traviato, talmente fuori della natura, che gli è impossibile di vivere, che convien vegliare sopra di lui, che dobbiamo togliergli la libertà, che, in una parola, lo sentiamo pazzo, non per l'eccesso o per il difetto, ma per il disordine della sua ispirazione. Non potendo caratterizzare la follìa dell'istinto isolato, la teoria morale non può dunque giudicarlo se non prendendo l'istinto quale si sviluppa colle idee, voglio dire colla realtà, col sistema delle nostre credenze, e allora ricadiamo necessariamente nella teoria intellettuale. Qui giudichiamo la follìa colle nostre idee: la follìa si confonde coll'errore e col delitto; noi confondiamo il delinquente col mártire, l'alienato di mente col profeta, la pazzia coll'ispirazione, l'entusiasmo coll'alienazione mentale; e i caratteri che separano la follìa dallo stato regolare della vita ci sfuggono di nuovo.

La indecisione della teoria morale si riproduce quando vuol determinare le cause della follìa. Classificare gli alienati secondo le passioni, imputare alla collera o all'amore il disordine della mente, penetrare nel labirinto degli istinti, nel caos della vita, che varia d'epoca in epoca, che presenta un numero indefinito di fasi correlative alla varietà delle cose, che risvegliano la rivelazione interiore, è un fermarsi ad indicazioni empiriche, assolutamente spoglie d'ogni valore scientifico. In quella guisa che l'arida nomenclatura degli istinti non spiega alcun eroe nella storia, alcun uomo nella società, non ispiega neppure il disordine indefinitamente variato che si manifesta nelle malattie della vita. Possiamo forse dominare Luigi XIV colla teoria frenologica delle passioni? No; convien vederlo sul trono di Francia nel decimosettimo secolo, conviene interrogarne le idee allora s'intende l'uomo. Per una conseguenza naturale gli istinti non rendono ragione della follìa, conviene interrogare le idee del demente, e allora si ricade nella teoria intellettuale.

La cura della follìa nella teoria morale è naturalmente dettata dal principio astratto dell'ordine morale. Che sono, per questa teoria, gli istinti? Sono forze di cui essa misura gli effetti meccanici; essa si preoccupa di coordinarle, di evitar l'urto, di sopprimere il male; essa è morale, e pertanto considera la follìa come un vizio, che devesi reprimere con mezzi meccanici. Gli antichi manicomj erano vere prigioni, ove incatenavansi gli ammalati, battevansi, punivansi della follìa, quasi fosse un peccato. L'idea di reprimere la follìa è forse scomparsa? Regna ancora. Qualunque siano le intenzioni del medico, l'umanità dei costumi, le teorie sull'alienazione mentale, il sentimento è più forte del pensiero; e l'uomo che governa i pazzi è trascinato dalla forza stessa del linguaggio ad ammonirli come orfani. Nei guardiani l'istinto è più forte del dovere; essi malmenano gli alienati, oppongono risolutamente l'ordine al disordine, il bene al male; e il direttore del manicomio può appena mitigare l'inevivitabile brutalità della repressione. Insomma, l'alienato è prigioniero. Questa cura è benefica? È inevitabile, ben diretta, è utile, ma per ragioni affatto estranee alla teoria morale della pazzia. Perchè reprimere il demente? per qual ragione la repressione può ricondurlo alla misura del senso comune? La teoria morale lo ignora.

Abbiamo mostrato l'impossibilità di spiegare la follìa colla fisica, coll'intelligenza e colla morale. Se cercasi l'origine negli organi, non si trova: se cercasi nella mente, la pazzia è un mero errore; se cercasi astrattamente nell'istinto, è il difetto o l'eccesso di una forza che non può essere misurata. Le tre teorie sono egualmente impotenti nel determinare i caratteri, la causa e la cura della follìa; la loro impotenza è tale, che non ci venne fatto di scoprirle nella purezza loro filosofica, in alcun scritto di medicina: i medici sono troppo preoccupati della pratica per lasciarsi traviare dai tre principj astratti, quindi avanzano a caso, confondendo i tre principj; costanti solo nel non veder mai la malattia della vita là dove si trova. Ma se i medici non sono esatti, i filodofi lo sono; e se i filosofi rifuggono quasi tutti dall'affrontare il problema della follìa, la logica lo vuole sciolto dai loro sistemi meccanici colle tre soluzioni indicate, che noi crediamo istoricamente più vere che non la storia stessa della scienza. Ebbene, poichè abbiamo dato alle tre teorie un'espressione rigorosa, spingiamole alla loro ultima conseguenza; esse condurranno a tre metafisiche distinte.

La teoria fisica, se vuol essere completa, dovrà transire dal disordine organico al disordine mistico; se essa vuole la pazzia nel corpo, dovrà mostrarla nel corpo, dovrà dare la mano alla metafisica materialista, che rende eguale il pensiero ad una secrezione cerebrale, al contrarsi dei nervi, ad altri fatti stabiliti come apparenze prime, e quindi dominatrici. A che s'impegna una simile teoria? S'impegna a trovare la ragione per cui il fisico divien morale, per cui il cervello divien pazzia, per cui una sostanza diviene una data qualità. In altri termini, la teoria fisica si trova impegnata a sciogliere la contraddizione eterna del fisico e del morale, che può tradursi nell'altra contraddizione della qualità e della sostanza, e che si traduce nell'ultima contraddizione, nella quale noi troviamo la follìa in pari tempo fisica e non fisica.

Lo stesso si dica della teoria intellettuale; se ne trovano traccie in Malebranche, in Locke e in altri: benchè i congegni e gli espedienti siano variati, tutti fan capo al problema seguente. In qual modo l'errore prende l'apparenza della follìa? In qual modo si transisce dal falso al morboso? Qui l'errore è l'apparenza prima; deve dominare le altre apparenze, deve darci la transizione alla follìa. Ne nasce che la follìa diventa per gli uni un'associazione invincibile di idee, per gli altri una sventurata associazione; poi come l'ultimo che, il quale separa l'errore dalla demenza, non è mai nell'errore, siamo condotti finalmente dinanzi all'eterna contraddizione, per la quale la follìa è un errore senza essere un errore, contraddizione che erasi presa per un problema.

Dobbiamo ripetere lo stesso della teoria morale. Per la teoria morale una volontà è inferma, convien quindi transire dalla volontà alla sua infermità: per esempio, dalla malinconia allo invincibile spleen dell'alienato: la volontà diviene dunque apparenza prima, deve dominare tutte le altre apparenze, generare logicamente quanto oltrepassa la volontà stessa, quanto la fa essere morbosa, traviata, ammalata. Ora, la transizione non è guari possibile. La volontà resta la volontà; ogni istinto resta quello che è; nè può alterarsi per opporre a sè stesso la propria degenerazione. Che ne nasce? la teoria morale s'identifica con un dogma, autorizza il fanatismo; e vediam medici sagaci nella pratica, avventati nella teoria, chiedersi sul serio se i loro avversari in politica e in religione meritano di essere rinchiusi nell'ospedale de' pazzi: se gli errori che combattono non sono l'effetto di una volontà pervertita e morbosa. Poi ci troviamo dinanzi a questa contraddizione eterna, che la follìa è nella volontà senza essere nella volontà; e così troviamo la teoria morale trasformata in uno sforzo per aprire un'uscita alla terza antinomia dell'alienazione mentale.

La follìa sfugge alle sue antinomie e alla metafisica che la travisa, se si domina coll'organo che la percepisce, voglio dire coll'intuizione della vita. Noi non possiamo descriverla, non possiamo trovarle una formola meccanica, per la stessa ragione che non possiamo descrivere nè l'arte, nè il ridicolo. Pure noi sentiamo la pazzia come si sente il ridicolo; e il momento in cui la pazzia si dichiara, è quello in cui la rivelazione interiore cessa di corrispondere alla rivelazione esteriore. L'uomo che ride, che piange, che ama, che odia senza motivo, senza proposito, l'uomo orgoglioso o umile, temerario o tremante, giulivo o mesto, senza che l'ambiente in cui vive giustifichi il ritmo delle sue passioni, senza che nessuno in sua vece possa provare gli stessi sentimenti, si trova fuori del senso comune, è alienato. La pazzia è una specie di travestimento, una maschera, in cui si mette in contraddizione la vita colle cose; essa è ridicola come tutti i travestimenti, in cui trovasi quell'aspettativa fallita, quella subita indecenza, quella mancanza di misura esterna che desta il sentimento comico. Chi giudicherà dunque la follìa? Noi stessi, ogni uomo; basta esser uomo per indicare la linea che separa la vita regolare dalla demenza; basta consultare il nostro intimo senso per intuire il senso leso, fatta astrazione da ogni dogma, da ogni religione, dall'immensa varietà de' sistemi che rendono gli uomini non riconoscibili gli uni agli altri. A prima giunta, quando ci decidiamo ad imprigionare il demente, sembra che facciamo atto d'intelligenza. Il nostro discorso, sempre esterno, spiega il nostro ritmo vitale colle cose esterne. Giudicando il pazzo, ripetiamo le sue parole, le sue azioni, raccontiamo le sue stravaganze, insistiamo sugli errori suoi, sulle sue visioni; crediamo di dominarlo colla verità. È un inganno. Gli errori e le stravaganze del demente possono trovarsi nella vita regolare: si può attendere un Messia, o credersi Dio senza essere infermo di mente: tutto può essere giustificato; la saggezza può sembrar pazzia, la pazzia saggezza. Ma la rivelazione interiore scansa l'astratta possibilità del vero e del falso, del bene e del male, e ci mostra nel discorso del pazzo il disordine del ritmo vitale. Mille volte prodighiamo l'epiteto di pazzo; or bene, le manie che ci rendono attoniti, la pazzia delle passioni, la breve follìa dell'ira (furor brevis), non sono giudicati se non dal ritmo naturale dei nostri istinti. Così, in tutte le sue fasi la follìa non si definisce, sentesi come il bello e il brutto, come il serio e il ridicolo, non si dimostra mai, è tutta nella poesia della vita. L'errore non è nemmeno necessario a costituire la follìa; basta che l'uomo sia soggiogato da un'inerzia, da una tristezza invincibili; basta che il furore lo trasporti suo malgrado, che sia spinto all'assassinio da una frenesia in cui appare un fato irresistibile, e la malattia si palesa evidente per la mancanza di correlazione tra la vita e le cose. Che l'inerzia, il furore, l'omicidio abbiano i loro motivi in relazione colle cose, vedremo il vizio, il delitto; il furore, la follìa svaniranno.

I diversi fenomeni che si osservano nella pazzia, ce la mostrano sempre nella rivelazione della vita. Quasi tutti gli alienati cambiano d'affezioni; il demente aborre le persone che loro erano più care; per guarirlo bisogna toglierlo alla famiglia: ecco l'interversione degli istinti. Può ricevere un'altra spiegazione; fu osservato che gli sforzi della famiglia per contenere l'infermo devono irritarlo, estinguere le sue affezioni. È vero: la resistenza lo cambia; ma il suo cambiarsi segue la legge della vita; tolto lo sviluppo diretto della passione, si ha lo sviluppo inverso, compresso il bene, il bene intervertito diventa il male. D'indi l'odio, il furore, la mania del male, e tutti i germi dell'ordine intervertiti nel pazzo.

Tra i fenomeni della pazzia si osserva la facilità di far meravigliare il pazzo, di distrarlo, d'impressionarlo: ciò debb'essere: egli vive fuori dalla realtà, in un mondo imaginario; ogni scossa lo richiama presso di noi, ed è sorpreso di quanto accade nel mondo reale, nuovo per lui, consueto per noi. E quando divien difficile guarir la pazzia? Quando il demente trovasi confinato nel suo mondo imaginario dalle circostanze stesse che accompagnano la pazzia. Così l'allucinazione è funesta, perchè usurpando il luogo della realtà, mantiene il falso ritmo; e una falsa realtà tien viva di continuo una falsa vita.

Riesce difficile il guarire la mania raziocinante, quella che s'ingolfa nelle materie religiose e filosofiche: ed è che in essa la realtà, l'evidenza del fatto manca; il pazzo non trova ostacoli per trascorrere negli abissi dell'errore, la rivelazione degli esseri non può rettificare il falso sviluppo della rivelazione vitale.

Anche la follìa determinata dalle cause organiche, dai vizi della conformazione del cranio o da un organismo generatore di accessi intermittenti, è malagevole a guarire: nel fatto, in qual modo rettificare un ritmo mistico radicalmente falsato nel suo apparecchio organico?

Qualche volta la pazzia eccita le facoltà, e presta al demente alcune doti che svaniscono quando risana. Nulla di più naturale. Il genio non è nell'intelligenza, dipende dall'ispirazione, dalla poesia, dagli istinti, dall'irradiazione della vita interiore. L'irritazione del sistema mistico potrà dunque produrre i fenomeni che simulano i caratteri del genio. D'indi le astuzie dei maniaci, la sagacia de' monomani, la momentanea elevazione d'alcuni alienati; il ritmo vive, sopravvive nel pazzo: è falsato, corrisponde ad un mondo che non è il nostro, ma corrisponde ad una realtà fantastica in cui si riproducono travisati tutti i fenomeni del mondo reale. L'intelligenza serve dunque alla follìa come serve alla vita regolare: sempre dominata, senza mai dominare, si sviluppa invariabile nel suo procedere, attuando l'istinto, sia desso integro o leso. Del resto, il talento del pazzo è un immagine del vero talento, nè lo spedale de' pazzi ha dato alcuna invenzione, alcun concetto che potesse guidare l'umanità. Prima tra le condizioni del genio si è la correlazione del ritmo mistico colla rivelazione degli esseri, e se questa condizione manca, l'uomo non pensa per questo mondo.

Se la follìa è nella vita, nella vita dovremo trovare tutte le cause della follìa. Le cause fisiche, cioè le disposizioni ereditarie, l'eccesso del caldo o del freddo, gettano nel delirio, disordinando l'apparecchio fisico del nostro sistema ritmico. L'apparecchio si sottrae alla vista, pure esiste, lo si vede nelle funzioni più rozze, nei nervi, nel cervello; e pertanto, disordinata la macchina delle passioni, il ritmo della vita deve essere falsato.

Le cause morali conducono alla pazzia, turbando le proporzioni interne e inesplicabili della vita; un fallimento, una sciagura mutano di repente l'ambiente in cui viviamo, e il mutamento esterno potrà falsare la vita. Una passione irritata, l'eccesso dell'amore, dell'ambizione, alterano già i valori delle cose, ci fanno vivere, non nel mondo, ma in una parte del mondo; e la minima catastrofe ci mette in disaccordo colla realtà esterna, presa nel senso più alto e ci spinge fatalmente sul pendio del delirio.

Vi sono alcune cause da cui la follìa può essere artificialmente generata. Quali sono? Precisamente quelle che falsano la correlazione tra la vita e le cose. Si imiti la pazzia, sia simulata per qualche mese; la mimica, che áltera volontariamente il rapporto della vita colle cose, finirà per traviare la ragione: spesso i prigionieri, volendo sfuggire alla pena, fingonsi pazzi, poi cadono nella pazzia. - Si coabiti coi pazzi; l'espressione esterna della follìa prima offende, poi disordina il ritmo della vita. Il perchè i custodi de' pazzi sono esposti ad eccessi di pazzia. - L'abitudine dell'ubriachezza produce lo stesso effetto; l'ebbrezza è il delirio momentaneo spesso ripetuto; falsa il ritmo e la correlazione della vita colle cose. Lo stesso si dica dell'isolamento de' prigionieri; qui la realtà esteriore è scemata, lo spettacolo della vita è soppresso, l'uomo rimane colla sua propria ispirazione, senza correlazione, senza punto d'appoggio, senza che l'esempio rettifichi le sue abitudini, e la pazzia invade il prigioniero.

I caratteri predisposti alla pazzia sono quelli in cui il ritmo trovasi sul pendio del disordine. L'eccessiva leggerezza, la bizzarria, l'esaltazione puerile, non possono dominare il sistema meccanico della realtà; inconsistenti, si lasciano dominare dalle cose; in essi il valore degli oggetti trovasi già falsato, le attrazioni naturali che fissano gli istinti trovansi già alterate; il ridicolo, questo fatale indizio della follìa, si palesa; e al minimo urto il sistema della vita rimane scosso.

Il genio stesso non si preserva dalla pazzia; è noto il proverbio: nullum magnum ingenium sine dementia. Il genio non è nell'intelligenza, ma nell'ispirazione: privilegiata nel genio, originale nel poeta, essa può passare alla follìa facilmente, come si passa dal sublime al ridicolo. La transizione è facile quando il genio è inventore, e quando l'invenzione lo trasporta in un nuovo mondo per farlo vivere nel mezzo della sua utopia. Le sue idee possono allora fare le veci dell'allucinazione, falsare la correlazione del sentimento colle cose: una sventura, un'ingiustizia subita, una catastrofe, disordinano la ragione; ed è allora che il genio conduce alla follìa.

Le migliori cure della pazzia sono quelle che pervengono a ristabilire il rapporto regolare tra il ritmo della vita e la rivelazione esterna imponendo rigidamente all'infermo il fatto della realtà. L'uomo che applica con maggior successo questa cura, M. Leuret, si fonda su di una falsa teoria; parte da un dato intellettuale; ripone la salute nel complesso ragionato delle nostre idee, confonde la pazzia coll'errore. Quando cerca la linea che separa la mente sana dalla demenza, non la trova; e dimanda se sia demenza l'aspettare il Messia: ripone Ezechiele, Mosè e santa Teresa fra gli allucinati; ne trova alla Salpetrière i tipi corrispondenti: e non avremmo che a dedurre le ultime conseguenze di questa teoria per rilegare alla Salpetrière Hegel, Malebranche e Platone; che dico? l'umanità tutt'intera che ammirava Ezechiele, Mosè e santa Teresa, o profeti più allucinati. M. Leuret non afferra la teoria, pure la sua pratica devesi approvare; la sua cura consiste nell'assalire direttamente la pazzia, opprimendola sotto il peso del senso comune. Egli sforza l'alienato a imitare meccanicamente il senso comune; lo scuote ne' suoi capricci, gli applica le doccie per costringerlo a rinnegare i propri errori; lo ricompensa, lo incoraggia al primo passo verso la verità. M. Leuret non vuole che s'impieghino le rappresentazioni teatrali; in esse il medico, dice egli, si lascia dominare, si lascia sedurre (il se laisse prendre); la pazzia signoreggia la realtà, la malattia si fortifica. Invece egli applica la confutazione diretta colla parola, colla derisione, d'animo freddo, e da ultimo colla doccia. Il suo scopo è di rompere il sonnambulismo dell'ammalato. Appena l'ammalato comincia ad ondeggiare tra il sogno e la realtà, la guarigione è facile, il medico ha solo a compiere la conversione, la realtà riprende il suo ascendente naturale, e l'infermo è liberato nel momento in cui la realtà non ha più bisogno dei mezzi artificiali dell'ospizio per dominarlo. Che fa, in ultima analisi, questa cura? Colla repressione rettifica il ritmo della vita, ne assale esternamente le deviazioni; poi, quando l'ammalato dubita, quando sospetta la realtà, o piuttosto quando vacilla tra le valutazioni fittizie della follìa e le valutazioni ordinarie della vita, quando la vita comincia a diventare accessibile alla vita, allora la derisione, il consiglio, la natura compiono la guarigione. In qual modo si determina l'istante della guarigione? colla realtà? No, coll'intuizione del sistema mistico, perchè quando trattasi della poesia dalla vita non si definisce la salute meglio della malattia.

Ho parlato del pazzo per parlare dell'uomo sano di mente: la scienza dei contrari è sempre la stessa; chi conosce la malattia, conosce la salute. Che cosa è dunque l'uomo non alienato di mente? È l'uomo in cui la vita non è viziata; in altri termini, l'uomo che gode del senso comune. Dunque si determina il senso comune colla vita, e non coll'intelligenza. La stessa denominazione di senso comune, di sentimento universale, ci indica che nella vita devesi cercare la salute intellettuale, La perfezione del senso comune chiamasi buon senso, cioè sentimento retto, vita sicura, e naturalmente bene ispirata. Il senso comune ed il buon senso non sono negli assiomi, dove la scuola di Reid voleva cercarli. L'intelligenza, gli assiomi, la ragione, sono gli istromenti della vita, del senso comune, del buon senso, del sistema mistico. Trovansi egualmente dominati dal pazzo e dal savio: il pazzo ragiona, accetta gli assiomi, è sottile, ingegnoso, può essere sublime; quanto gli manca si è la rettitudine del senso interiore, la regolarità della rivelazione vitale. I suoi istinti sono falsati, egli falsa tutti gli interessi, tutti i valori: la falsificazione lo getta in un mondo imaginario; non può più intenderci; le comunicazioni tra i due mondi sono intercette, non dall'errore, non dall'intenzione perversa, ma da un che d'inevitabile e di fatale nella vita. Istessamente noi abbiamo la nostra ragione; perchè? Non possiam dirlo. Noi saremo Buddisti, Mussulmani, Cristiani; crederemo ai dogmi più opposti, ai principj più contraddittorj; pure ci riconosciamo tutti vicendevolmente il senso comune, ogni qualvolta noi riconosciamo la realtà del ritmo vitale. Talora la regolarità ci sfugge velata dalla nostra ignoranza. Se raccogliamo le stravaganze religiose di tutti i popoli, riprovate dalla nostra maniera di giudicare, negheremo il buon senso al genere umano. Non conoscendo l'insieme di ogni religione, i suoi motivi, le sue necessità, i dogmi smembrati ci sembreranno l'opera di menti inferme. Tale fu considerata nel secolo decimottavo la storia delle religioni. Rendete alla storia tutti i suoi elementi, non mutilate alcun dogma; la follìa svanisce; e noi sentiamo la vita universale che ci anima, e che ci fa appartenere ad una stessa specie, non ostante l'estrema dissonanza dei dogmi.





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