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Giuseppe Ferrari
Filosofia della rivoluzione

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  • PARTE SECONDA   DELLA RIVELAZIONE NATURALE
    • SEZIONE TERZA   LA RIVELAZIONE MORALE
      • Capitolo XI   DELLA SCHIAVITÙ
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Capitolo XI

 

DELLA SCHIAVITÙ

 

Lo scambio dei valori, lo scambio dei beni, questa doppia condizione del contratto, si applica al dominio dell'uomo sull'uomo. Questo è il fatto che combattiamo; pure non si saprebbe determinare quando debba cessare se non si sa quando cominci.

Messa in disparte ogni idea di diritto e di dovere, l'influenza dell'uomo sull'uomo è un fatto continuo e universale. Gli uomini si lasciano dominare dall'intelligenza, dalla parola, dal sentimento, dalla forza; agli uni manca il coraggio di resistere, agli altri manca la volontà; vi sono dominazioni accettate col tripudio della frenesia. La forza dell'animo, quella della mente, la ricchezza, l'astuzia, si traducono nel mondo esterno in vere forze fisiche, e la manifestazione della forza fisica determina fatalmente un sentimento di deferenza nella rivelazione della vita. Il più forte è naturalmente superbo; il più debole è involontariamente servile; il contegno, il verbo, il gesto di un personaggio importante non moverebbero a riso in un uomo senza autorità? La bellezza della donna è una forza, s'impone coll'amore: e che è l'amore? È adorare, servire. Perchè il governo monarchico è forte, rapido nell'azione, difficile a vincersi? Dovrebbe essere il più debole, il più lento; ma il prestigio del potere spinge alla bassezza, fa inorgoglire la viltà, esalta la servilità, e tutto cede al più forte che regnerà sempre, qualunque sia la natura della sua forza: se l'uomo non fosse timido, sarebbe indomabile, insociabile. L'ascendente della forza può forse giungere fino alla dominazione assoluta dell'uomo sull'uomo? Sì; lo schiavo, dice Aristotele, perde nei ferri persino il desiderio d'infrangerli, ama la sua servitù. Il più forte non è mai abbastanza forte per esser sempre padrone, se non trasforma la forza in diritto, e l'obbedienza in dovere; e per mala sorte la stessa natura s'incarica di operare questa trasformazione. «Non è l'uomo che domina sugli altri uomini,» dice Epitteto, «ma la morte, ma la vita, ma il piacere, ma il dolore: tolte queste considerazioni, mi si conduca innanzi all'imperatore, e si vedrà come starò ritto.» Il triste scambio della schiavitù può dunque trasformarsi in contratto; la sventura può avvilire, togliere ogni coraggio, annullare il sentimento giuridico della dignità perduta. Lo schiavo si abitua all'irresponsabilità, all'imprevidenza, all'indigenza, all'annientamento della sua persona. Si forma una nuova morale, quella della schiavitù. Riceve qualche benefizio? Allora rinasce alla vita, ama il padrone, s'identifica col suo onore; nelle colonie la sua devozione sorpassa l'abnegazione dell'amicizia, diventa eroica, e la schiavitù può essere accettata, può creare 'eroismo della schiavitù. Dall'altro lato, il padrone inbaldanzisce col signoreggiare, l'assenza d'ogni ostacolo gli dà un ardire che le sole forze dell'animo suo non potrebbero ispirargli; l'abitudine del comando trasforma il comando in diritto, fa nascere quella dignità, quell'istinto politico, quella previdenza, quella forza d'animo che ammiriamo negli antichi. Nelle società antiche gli uomini liberi erano, per così dire, principi e generali, ogni senato era una vera assemblea di re, e l'orgoglio della signoria col crearsi la sua morale, creava il suo eroismo, che opponevasi all'eroismo della schiavitù. Quindi lo schiavo perde la metà della sua ragione, ed è il padrone che se ne insignorisce; lo schiavo perde la metà della sua coscienza d'uomo, il padrone, profittandone, s'innalza al disopra dell'umanità. Se nelle nostre leggi la schiavitù è un delitto, se nella rivelazione che ci illumina il padrone è infame, la schiavitù nondimeno può essere istoricarnente intesa come uno scambio possibile, come un contratto implicito ed anche esplicito. Concesso poi istoricamente, esso diviene valido come gli altri contratti; finchè dura la rivelazione sotto la quale fu stipulata, l'obbligazione dello schiavo rimane consacrata.

Il problema della schiavitù fu da noi posto per determinare il momento della rescissione del contratto. Il patto della schiavitù è perento nell'istante in cui si manifesta in noi un'obbligazione superiore, vale a dire, un nuovo interesse sostenuto da un nuovo sentimento. Quando l'uomo nasce, lo schiavo scompare, nella misura determinata dalla necessità materiale di obbedire ad una legge morale. Se il padrone è in pari tempo sacerdote e signore come in Russia, lo schiavo dovrà osservare il contratto; se Abramo crede che Dio gli imponga di svenare Isacco, egli deve svenarlo. Sia lo schiavo istruito, sia distrutta la religione che lo inganna, la realtà si muta, una nuova necessità si manifesta; lo schiavo non può obbedire senza mentire a sè stesso; la sua collera prorompe, lo emancipa. Dov'è il principio liberatore? Nelle idee, nel sistema dei valori, degli interessi che risvegliano una nuova morale. Non v'ha mezzo per liberare chi è schiavo di mente; se infrange i suoi ceppi, cade preda di altro padrone, e non muta stato. E la schiavitù è infinita nelle mille forme che assume; qui è un giuramento che obbliga ad uccidere il fratello, là è uno scrupolo che strazia sul letto di morte, altrove prende le sembianze dell'amore che vincola alla famiglia: resiste all'aguzzino, ma teme il sacerdote; odia il sacerdote, il pontefice, l'imperatore, poi legge avidamente la Bibbia, interroga l'oracolo dell'evangelio, non crede alla giustizia, rimane schiavo di Dio, e tosto incontra chi sa fare le sue veci in terra.

 

 




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