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Giuseppe Ferrari Filosofia della rivoluzione IntraText CT - Lettura del testo |
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Capitolo XII
LA RENDITA
Tra i diversi modi di godere dei beni vi ha quello di cederli a tempo, mediante retribuzione: di là l'affitto delle case, quello delle terre, l'interesse dei capitali, e in generale la rendita. La rendita esprime la vera essenza della dominazione sulla cosa posseduta: prestando la cosa, mutuandola, affittandola, il proprietario non se ne serve, si dispensa da ogni lavoro, resta nell'inazione, ed esige che altri gli paghi il premio dell'inerzia. Chi vive di rendita, vive di ozio, gode il lavoro altrui, è il vero parassito della società: gode di un mero diritto di dominazione regia ed imperiale. È lecito il vivere di rendita? E lecito anche quando altri muore di fame? Pare di no perchè il diritto in tutta la sua estensione non può essere se non l'egida della morale: qual è la morale dell'ozioso? Il diritto non può proteggere se non la virtù: qual è la virtù dell'ozioso? Se il diritto permette il vizio, affinchè la virtù rimanga spontanea, suppone sempre il vizio individuale; innocuo: è individuale il vizio del ricco? No; chi vive di rendita domina sul lavoro, regna sulla miseria, si fa padrone del governo, detta la legge, opprime la società. Posta l'immoralità della rendita o piuttosto del vivere sulla rendita, incontriamo l'obbiezione che sorge dalla proprietà: chi è proprietario ha diritto d'uso; il diritto d'uso è inseparabile dal diritto d'abuso; tolto anche l'abuso, rimane il diritto semplicissimo di godere delle cose in ogni modo possibile: come escludere il mutuo e l'atto? O combattete la proprietà, o rispettate la rendita. Tale è l'antinomia della rendita; contraddizione critica senza soluzione, essendo, da una parte, incontestabile il diritto di proprietà ne' suoi limiti, dall'altra, incontestabile l'iniquità dell'ozio che affama l'industria. La rivelazione del diritto e dell'interesse si sottrae al dilemma: in faccia al ricco la questione deve essere sciolta con ragioni reali e positive. Abbiamo riconosciuta la proprietà nei limiti della necessità, dominata dalla comunanza che la rende morale; e sottoposta all'ideale della legge agraria: riconosciamo quindi il mutuo e l'affitto egualmente sottoposti al diritto di necessità e al progresso della legge agraria. Il male non sta nell'interesse del denaro; e nell'affitto delle terre e delle case; ma nel vivere di rendita, nel vivere d'ozio e di frivolezza. L'interesse, l'affitto sono scambii di servigi, di cose, di valori; sono premii vicendevoli che non suppongono una ineguaglianza, anzi ci presuppongono giuridicamente eguali; chi prende una casa in affitto può esser ricco, e avere altre case che affitta alla volta sua; chi coltiva il campo altrui mediante annuo tributo, può esser proprietario di altri campi; chi mutua l'altrui denaro, può dare in mutuo il proprio. Nel commercio, la catena dei servigi e degli sconti è indefinita; reciproca, continua, nè si potrebbe rompere senza annientare il commercio stesso. Ogni uomo che mi chiede un prestito rimunerandomi, mi priva di un vantaggio, e si ripromette un vantaggio; mi toglie un bene, e si ripromette un bene: vi deve essere compenso. La tirannia della rendita sorge, non dall'interesse, non dall'affitto, ma dalla ineguaglianza delle proprietà. L'interesse, l'affitto sono cause indirette dell'abuso, non sono cause se non subordinate alla proprietà: se vivete di rendita dovete attribuirlo alla vostra fortuna, ai vostri capitali, alle vostre case, ai vostri campi: se le fortune fossero eguali, potreste voi rimanere nell'ozio, darvi ai piaceri, non curarvi del lavoro? potreste rendere tributari dei vostri capricci gli operai, le fabbriche, il commercio? È ancora l'ineguaglianza de' capitali che genera la tirannia dei banchieri: se la banca fosse sociale, se non fosse un monopolio dei più ricchi, se questo monopolio non aumentasse di mille doppi procurandosi i privilegi accordati dal governo, diventando unico, legale nelle banche dello Stato; insomma, se l'ineguaglianza non fosse nel principio, non sarebbe nei profitti, non diventerebbe un vizio, nè una tirannia nelle conseguenze. Sia stabilita l'eguaglianza delle fortune; il mutuo, l'affitto diventano scambievoli, facili; quanto si guadagna, altrettanto si perde; le differenze rimangono minime; non rappresentano se non il fato della materia, l'intervento del caso, inevitabile in ogni atto della vita. La missione della rivoluzione non è di combattere direttamente l'interesse del denaro o l'affitto dei campi e delle case, ma bensì di combattere direttamente l'ineguaglianza primitiva dei beni, il riparto attuale delle fortune sociali, la distribuzione vigente delle ricchezze. Supponiamo che si voglia muover guerra alla rendita, che si chieda senz'altro la gratuità del credito estesa ad ogni cosa mutuata. Supponiamo soppressa la rendita, teniamoci nell'ipotesi rigorosa di questa soppressione; non consideriamola qual preludio di nuova rivoluzione, che debba poi sopprimere l'ineguaglianza delle ricchezze. La nostra ipotesi sarebbe allora riassunta dall'editto seguente: 1° la rendita è abolita; 2° i fittaiuoli sono dispensati dal pagare i padroni: 3° i locatori sono dispensati dal pagare l'affitto; 4° i mutuatari sono sciolti dall'obbligo di pagare gli interessi de' capitali mutuati. Qual sarebbe la conseguenza dell'editto? I proprietari della terra rientrerebbero ne' loro campi, lascerebbero la terra incolta, le messi abbandonate: i fittaiuoli sarebbero espulsi: se nessun operaio si offrisse di lavorare la terra, a dispetto della legge, la terra rimarrebbe desolata. I proprietari delle case imiterebbero quelli dei campi: darebbero congedo ai locatari, abiterebbero gli appartamenti vuoti, preferirebbero di conservare le case, al vederle invase da cittadini, i quali, occupandole, negherebbero in principio il diritto di proprietà. Da ultimo, i capitalisti ritirando i capitali, li spenderebbero a caso, li seppellirebbero, preferendo ogni partito a quello di lasciarli avventurati in mano di debitori incerti e probabilmente nemici. I proprietari e i capitalisti sarebbero danneggiati, non v'ha dubbio: ma il popolo? rimarrebbe senza case, senza campi, senza danari. Le case, i campi, il denaro, le fabbriche, gli istromenti del lavoro resterebbero nelle mani de' proprietari; quindi l'agricoltura, l'industria ed il commercio sarebbero immediatamente esercitati dai proprietari; mentre il proletario sarebbe sbandito, non solo dalla proprietà, ma dall'agricoltura, dall'industria e dal commercio. In una parola, la lotta contro la rendita oppone un popolo di nudi a un popolo di ricchi, una falange inerme ad una falange armata: di chi sarà la vittoria? Si dirà: «Se i proprietari e i capitalisti si collegano contro il popolo, sono perduti; al certo, una mano di oziosi non potrà ridurre alla disperazione l'immensa maggioranza della nazione. Si torranno al ricco le terre, le case, il denaro: dove troverà chi lo difenda?» L'obbiezione è forte, ma che prova? Prova che la rivoluzione deve oltrepassare la discussione sulla rendita per combattere il riparto attuale della proprietà: prova che torna vana ogni lotta contro la rendita, se non si risale alle proprietà; prova, da ultimo, che, vinta la lotta sul riparto delle proprietà, torna inutile ogni lotta sulla rendita. Tanto vale il lasciarla libera. Il ricco è solo contro tutti: lo sappiamo, non lo dimentichiamo; voi dimandate chi lo difenderà: chi? Voi, se riducete il problema della rivoluzione a un problema di. sconto: posto il vostro programma: imprigionata la rivoluzione nel vostro programma; impegnati voi a difenderla nella misura della gratuità del credito; dovrete difendere il proprietario nella sua libertà di proprietario; tolta la rendita, dovrete accusare di spogliazione chi oltrepassa il limite da voi posto, dovrete combattere a profitto della proprietà. La vostra rivoluzione si ridurrà ad un assalto di scherma, poi sarà reazione mascherata di parole temerariamente incendiarie. Il problema della rivoluzione è più vasto e le mille volte più profondo del problema del credito. Questo si restringe nella circolazione della ricchezza, vede nella rendita un diritto di pedaggio prelevato dal ricco sull'industria; vede nel frutto del capitale, nell'affitto delle terre e delle case una tassa prelevata sull'operaio, sul trafficante, sul merciaiuolo: vede ogni industria dipendente da un capitale, tributaria della proprietà. Vuole adunque abolito il pedaggio, soppresso il tributo e sostituito il credito reciproco, il credito gratuito alla spinosa circolazione, che deve traversare le rôcche e le cittadelle della ricchezza prima di animare l'industria e di compensare l'operaio. Ma non iscorgesi evidente l'impossibilità di ogni equa reciprocità nei crediti, nei prestiti, nelle anticipazioni, nei salari, finchè la ricchezza trovasi radicalmente viziata nell'origine e nello scopo, voglio dire al punto di partenza e al punto d'arrivo? In primo luogo, la ricchezza è viziata nel punto di partenza. L'ineguaglianza non è forse presupposta da ogni atto economico? ogni atto economico non emana forse dal riparto attuale delle fortune? Il riparto attuale non è forse un riparto di forze e di potenze stabilito a priori in favore del ricco? Il ricco possiede le terre, i capitali, le case; senza il suo consenso non si può disporne; nè l'industria può lottare contro l'inerte egoismo del ricco. In secondo luogo, la ricchezza è viziata nel suo scopo finale: chi ordina all'operaio di porsi al lavoro? chi comanda alle fabbriche di tessere i drappi, le stoffe, gli addobbi? In una parola, chi consuma i valori prodotti? È ancora il ricco, il suo lusso stipendia l'industria, egli condanna l'operaio a renderlo felice o a morir di fame. Le cose sono ordinate in modo, che nel circolo della economia politica, dominato quasi tutto dal ricco, il povero non occupa se non un segmento, quasi fosse un caso della ricchezza, un'accessione del capitale. Così il popolo si compone di uomini da nulla, la casta dei ricchi si compone di personaggi; costituisce il bel mondo, gli uomini della società il gran mondo, opposto al popolo minuto. Ma come riformare la società e far sorgere un raggio di giustIzia se tutto ci circoscrive alla riforma della circolazione? come riformare la circolazione quando trovasi viziata alla fonte e alla foce? come dirigere l'acqua quando non si áltera l'inclinazione del piano? come ridurre la rivoluzione all'inane sforzo di lottare contro un torrente che trabocca da ogni lato, mentre il diritto delle necessità ci mostra la rivoluzione più facile e più vasta ad un tempo nell'opera dell'eguaglianza e della comunanza? Se siamo eguali, se ogni uomo lavora sulla base di una stessa fortuna, allora la circolazione sarà giuridica, l'eguaglianza delle rendite sarà l'effetto dell'eguaglianza delle fortune; quindi il mutuo, lo sconto, lo scambio, il credito, tutti gli atti della circolazione, interessati o gratuiti, scorreranno naturali. Il sistema che assale la rendita è legittimo, se assale in pari tempo l'ineguaglianza sociale; È legittimo nell'impressione che produce sulla massa, la quale passa rapida col pensiero dalla rendita al fonte stesso della rendita, il quale sta nelle ricchezze accumulate in mano di alcuni privilegiati: qui si mette in dubbio il riparto delle ricchezze, si chiede ai proprietari di render ragione della loro proprietà innanzi alla comunanza dello Stato, nella misura del diritto di necessità. Ma la polemica contro la rendita si fa giuoco della rivoluzione, e divien retrograda nell'istante in cui si ferma all'interesse, agli affitti, per colpire il riparto attuale delle fortune in modo obliquo. La teoria del credito gratuito è una vera metafisica sociale: venne formulata da Proudhon col proposito di vincere con essa e di oltrepassare la contraddizione eterna della proprietà e della comunanza. Proudhon diceva: tra la proprietà e la comunanza costruirò un mondo. Non è mestieri costruirlo, è già costrutto da lungo tempo. Ogni riparto della ricchezza fu sempre un mezzo tra la proprietà e la comunanza; e la proprietà assoluta non ha mai esistito; essa non sarebbe possibile se non nella solitudine, e nella solitudine svanisce ogni diritto. Istessamente la comunanza assoluta non ha mai esistito, non è possibile; la comunanza del convento è vera proprietà in faccia allo Stato. Le caste, il patriziato, le feudalità esprimevano un riparto di beni, nel quale la proprietà, moderata dalla necessità, conciliavasi colla comunanza. La nostra proprietà determinata dal che dice è anch'essa limitata dall'imposta, dall'utilità pubblica, da mille servitù prediali, che rappresentano il diritto della comunanza. Il credito gratuito non dà una conciliazione metafisicamente più valida di quella data dal codice francese o dalle leggi di Manou. È un nuovo trovato, vero o falso, ma senza nesso colla contraddizione eterna della proprietà e della comunanza. La contraddizione critica non si vince, non si scioglie, non si concilia; la sua sintesi riesce sempre allo statu quo, perchè mette sempre capo nel fatto. Così la sintesi della contraddizione del moto, è il moto; la conciliazione della antinomia dell'alterazione, è l'alterazione; e in generale ogni fatto è la sintesi delle sue proprie contraddizioni. Promettete voi la sintesi delle contraddizioni critiche della società? È fatta, trovasi nel fatto, nelle instituzioni sociali, e convien riconoscere che viviamo nel migliore de' mondi possibili. Per trovare un'uscita, Proudhon è forzato di tramutare l'antinomia della proprietà e della comunanza nelle antinomie della rendita, emergenti da una serie di antinomie economiche. Quali sono le nuove contraddizioni sostituite alle prime? Sono antinomie astratte. Eccone alcuni esempi: la divisione del lavoro fu utile, perfezionò l'industria; ora opprime l'operaio, lo condanna all'idiotismo di una funzione unica: dunque la divisione del lavoro è utile e dannosa. L'invenzione delle macchine fu un soccorso portentoso dato al braccio dell'uomo, ora rende inutile l'operaio, lo caccia dalle fabbriche, lo getta sulla via: dunque l'invenzione delle macchine è utile e malefica. La banca fu il felice trovato che semplificava e facilitava la circolazione, ora è privilegio di pochi, è monopolio di alcuni banchieri, ferma la circolazione: dunque la banca è utile e tirannica. Così di ogni trovato. Che ne deriva? Che Proudhon scambia le vere antinomie della proprietà e della comunanza con antinomie astratte, artificiali, non afferrate nella realtà, non emergenti dal fondo delle cose. Proudhon fa dell'uso della macchina un'essere imaginario; quest'uso è utile al proprietario della macchina, nocivo all'operaio; benefico per voi, malefico per me: quindi Proudhon chiama l'uso utile e dannoso, benefico e malefico, contraddittorio: istessamente conclude che le banche, che la divisione del lavoro sono buone e cattive: ciò accade altresì dell'uso della spada, del cannone, del vino, del pane, d'ogni cosa, sempre utile a chi ne usa, dannosa a chi ne abusa. Queste sono contraddizioni puerili; sono le contraddizioni che Platone deride nell'Eutidemo. A è più grande di B e più piccolo di C; dunque diremo noi che A è grande e piccolo ad un tempo? Perchè no? Ma a che serve? E se si cerca una soluzione? e se la soluzione si chiama sintesi?... Tale è il procedere di Proudhon; vuol la sintesi della proprietà e della comunanza; e la sintesi rimane nel fatto, non conduce a nulla. Proudhon cerca un'uscita; trasporta l'antinomia sul piano di una contraddizione artificiale; e qui la metafisica svanisce nel nulla; ma si può almeno affermare utile la rendita nel passato e dannosa nel presente, donde la conseguenza che deve essere abolita. Si accordi la conseguenza; non è sintesi, è soppressione di un male, non concilia alcuna antinomia, fa cessare la rendita; il che può esser discusso senza discutere nè le antinomie reali, nè le antinomie astratte. La nostra conclusione è nota; combattere la rendita è combattere un episodio della rivoluzione.
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