Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Giuseppe Ferrari Filosofia della rivoluzione IntraText CT - Lettura del testo |
|
|
Capitolo V
LA DECADENZA DEL CRISTIANESIMO
La rivelazione naturale ha definitivamente condannata la rivelazione cristiana e da tre secoli si manifesta nel mondo una nuova verità, una nuova vita, una nuova morale; triplice manifestazione che distrugge l'antica rivelazione. La natura esplorata dalla fisica più non può essere il teatro della redenzione cristiana. Quell'Eden, quegli alberi della scienza e della vita, quegli angeli dalle spade di fuoco, tutto quel dramma che incomincia nel paradiso terrestre e si svolge attraverso il mondo antidiluviano, la famiglia di Abramo, il popolo ebreo e la nascita di Cristo scompaiono quali vaneggiamenti dell'infanzia umana. La storia dei popoli si ribella contro la tradizione degli Ebrei, ne distrugge gli eroi, le leggende, i miracoli; essa mostra che Cristo è nato più volte prima di sorgere in Gerusalemme, che i dodici apostoli hanno circondato Budda prima di seguire il Redentore, che la Vergine ha visitati i templi dell'India prima di giungere a Betlemme. La rivelazione cristiana si è sviluppata coll'analogia, colla visione, colla finzione. Invano Cristo fu prudente, la scienza gli toglie la favola del testamento antico, l'allucinazione de' patriarchi, gli ossessi del vangelo, l'estasi di Giovanni di Patmos. Il delirio della Bibbia più non inganna. La rivelazione cristiana è talmente sconfitta, che la confutazione ha cessato e oramai noi ammiriamo il cristianesimo: per noi non è più un errore, non è più un inganno; più non ci muove a riso; siamo a tale distanza dal vangelo e dalla chiesa, che vi troviamo la figura della nostra rivoluzione, in quella guisa che scoprivasi nel giudaismo la figura del cristianesimo. Dio padre è il simbolo della fatalità; egli è inesorabile; egli è l'essere che sta nel fondo di tutti gli esseri; egli è la guerra universale con cui la natura ci preme e ci flagella al progresso. Dio figlio è l'umanità; egli deve nascere, deve crescere, deve placare il padre, domare la guerra, consociare gli uomini senza divario di nazione, di origine e di lingua. Egli vive in noi; il suo spirito discende dovunque due o tre persone si uniscono in suo nome, si svela quando l'uomo rivendica la sua ragione, che egli aveva trasportato fuori di sé. E Dio, divenuto la ragione di ogni individuo liberato dalla rivelazione naturale, promette il riscatto, promette la salvezza individuale e universale: l'uomo non è più fuori di sè, l'autorità svanisce, la dominazione scompare, ogni uomo è pontefice e re. Il cielo cristiano è la terra; i beni vaghi e indefiniti promessi da Cristo sono i beni dell'avvenire, che nessuno può nominare. La risurrezione si compirà nella vita, il premio non sarà nella morte: la riconciliazione del sacrifizio sarà un fatto di continuo offerto e inutile; che la solidarietà universale degli interessi provoca la fratellanza, e ne elide il sacrifizio. La fede cristiana è stata il simbolo della nostra fede nell'umanità; essa ci deve sostenere nell'azione, essa ci inspira, essa non aspetta mercede, nè dimanda se il bene sia possibile. La Bibbia è il simbolo della nostra Bibbia, della storia ideale dell'umanità, che trovasi in potenza dovunque havvi una famiglia, che svolgesi identica dovunque scorre il moto dell'umanità, e che conduce all'apocalisse dell'associazione universale. La chiesa rappresentava Cristo, ne perpetuava la vita, la predicazione, la propaganda; amministrava i sacramenti e dispensava la grazia. Noi siamo la nuova chiesa, la rivoluzione è il nuovo Cristo, la nuova umanità: dovunque appare, la sua propaganda si attua colle opere, che si sostituiscono alla figura de' sacramenti. Il nostro battesimo è il battesimo del fuoco; nessuno s'inganna sul giorno e sull'ora in cui lo riceve. La nostra confermazione si attua nell'istante in cui il battesimo è messo alla prova, e in cui dobbiamo richiamarci la fede promessa. La nostra confessione si fa dinanzi al sommo pontefice della nostra coscienza, all'esempio di Rousseau e di Franklin. L'eucaristia è per noi l'agape, il banchetto; là si comunica materialmente e spiritualmente, là ogni uomo dimentica la sua persona, e vive della vita di tutti e per presentarsi al banchetto convien essere battezzati, confessati, preparati; senza di ciò non si celebra che un'orgia dell'antica società. Il nostro ordine ci vien dato dalla vocazione naturale, dalla nostra ispirazione congiunta colla scienza. Quelli a cui fu accordata la sola ispirazione, la sola carità, non insegneranno; quelli che hanno solo il sapere senza vocazione, non predicheranno; quelli che sono spinti a vociferare dall'ambizione o dalla vanità, non illumineranno alcun uomo. Il nostro matrimonio è reso alla natura; dispone della morale e della vita; debb'essere subordinato alla legge dell'umanità. Cristo lo toglieva al contratto della patria, alla legge della conquista; Cristo, eguagliava i due coniugi dinanzi alla chiesa, predestinandoli prima d'ogni cosa ad un'opera cristiana; noi, rivendicando la nostra ragione che ci era stata involata, sottraendo il matrimonio alla benedizione, vediamo nell'antico sacramento il simbolo della nostra famiglia, che eguaglia i due coniugi dinanzi all'umanità, facendo astrazione, non solo dalla patria, ma da ogni religione. Nessuno ci accusi di eccedere nell'interpretazione e di abusare della metafora; la più grande tra le metafore fu la chiesa. Se non possiamo dare una dimostrazione esatta del senso, delle sue figure, la colpa non è nostra, è nel simbolismo, il quale non parla se non alla vita. Così la rivelazione degli esseri ha condannato per sempre la rivelazione cristiana, che non è più di questo mondo. Interroghiamo la rivelazione della vita; anche qui la rivelazione cristiana riceve una nuova mentita. L'uomo antico è morto cogli antichi dogmi; i patriarchi, i profeti, gli apostoli, nel mezzo della nostra civiltà, non sarebbero se non barbari. Ammiriamo noi Abramo più che Socrate? Davide più che Lutero? Ci crediamo noi gli schiavi degli idoli, qualunque sia la loro natura? Ci sentiamo noi degradati nascendo? Noi ci sentiamo liberi, ragionevoli, signori naturali del mondo; noi abbiam fede nella natura, e questo è il sentimento della nuova vita. Il mondo moderno sorge da questo principio. Paragoniamo Epicuro e Bacone: entrambi sembrano discepoli di una stessa scuola; l'uno rappresenta l'esperienza presso gli antichi, l'altro loro rappresentante presso i moderni; entrambi hanno lo sguardo vòlto verso la natura; entrambi non isperano se non quanto può essere dato dalla natura. Sono essi animati dalla stessa fede? Epicuro diffida, non si crede sicuro in un mondo creato dalla cieca divinità del caso; paventa la fortuna: egli fugge la folla, cerca la solitudine, limita i suoi piaceri; si direbbe ch'egli vuole annichilarsi per cercare la felicità: la sua fisica non tende ad altro, che a liberarlo dal timore degli Dei; e quando siffatto scopo è raggiunto, egli si addormenta nella pace del nulla. Nella vita Epicuro cerca la solitudine per togliersi al caso degli atomi, nella morte la cerca ancora per togliersi al caso degli Dei. Veggasi Bacone: egli si ferma nella materia, ma la scorge animata e ragionevole, la studia per chiederle i prodigi dell'arte; il suo metodo naturale promette i doni dello spirito santo a tutti gli uomini; la sua scienza, restringendosi alla terra, vi crea un nuovo mondo, il paradiso dell'umanità. Quindi l'utopia di Bacone che si propaga ed ingrandisce, la nuova vita scintillante nell'occhio de' suoi discepoli, quindi le invenzioni e le scoperte traboccano per tramutare la terra La distanza che separa Epicuro da Bacone, separa il mondo antico dal mondo moderno, e si ripete ogniqualvolta paragoniamo i filosofi della nostra era cogli uomini dell'antichità. Il commercio e l'industria sono l'opera dei nostri istinti; vivono direttamente sotto il regno della natura, s'avanzano sempre verso l'ignoto; non si sa mai quale sarà la scoperta, quali prodigi contiene l'industria del momento; solo è noto ch'essa modificherà il mezzo in cui viviamo, che ci trasporterà in un mondo rinnovato, che ivi sorgeranno altre passioni, altre volontà, e che ivi un nuovo lavoro ricomincerà per sospingerci anch'esso verso una nuova rivoluzione. L'antichità applaudiva forse all'azione dell'industria e del commercio? No, la combatteva con un odio sistematico. Atene e Roma la disprezzavano; Sparta la sopprimeva; Platone, il gran discepolo di Socrate, voleva fondare la sua repubblica lungi da ogni consorzio, lungi dal mare, perchè il commercio e la navigazione fossero impossibili. Lo stesso pregiudizio governa il medio-evo; il commercio, l'industria sono sospetti e disprezzati, il pregiudizio riappare nel risorgimento; e non si cessa di ripetere che la ricchezza genera il lusso, e che il lusso corrompe la società. Tutta la saggezza antica lottava contro l'industria e il commercio; essa aborriva la libertà dell'artigiano invocata dai moderni; i proletari dell'antichità dimandavano il diritto all'ozio, panem et circenses; l'operaio moderno vuol vivere lavorando, o morire combattendo. Gli antichi non credevano neppure all'intelligenza dell'uomo. In loro sentenza l'umanità era decaduta, e pendeva al male, predestinata alla guerra ed alla infelicità. La riabilitazione era opera eccezionale, non si attuava se non per mezzo della casta o dell'individuo. La casta e l'individuo supponevano la moltitudine eternamente incapace di governarsi, eternamente confidava alla tutela dei legislatori. D'indi le funzioni distribuite, fissate; ogni industria confidata ad una tribù; le magistrature confinate nella casta privilegiata, dove la famiglia, l'eredità, l'educazione continuavano e perpetuavano il secreto della redenzione eccezionale. Quando la casta si scioglie, la riabilitazione rimane un privilegio individuale: essa s'inviluppa nelle tenebre dei sacri misteri; Pitagora esige dall'iniziato un silenzio di cinque anni; dappertutto la verità prende il velo dell'allegoria; essa è un secreto che non devesi comunicare al profano, al popolo. Nessuno crede alla forza dei principj. Platone traccia il disegno di una repubblica, e dichiara anticipatamente che il volgo non lo intenderà; non ispera che il suo concetto possa attuarsi; il disegno stesso della repubblica suppone che il popolo non sappia mai governarsi. Se Platone spera, spera in favore della casta cui affida la sua repubblica; se attende l'attuazione del suo disegno non l'attende se non da un tiranno, che il caso renderà filosofo. Stabilita la repubblica, Platone non spera di vederla durare, malgrado l'esperimento della felicità. Egli ci dice in qual modo la sua repubblica si corromperà, prima di dirci come nascerà. Platone, Aristotele, gli stoici, tutti gli uomini dell'antichità disprezzavano talmente il volgo, disperavano della verità a tal punto, che accordavano al savio il diritto di mentire, di imaginar religioni, d'inventar favole, d'imporle colla forza: diritto, d'altronde, supposto dalla distinzione che separa l'insegnamento esoterico dall'insegnamento exoterico, per cui gli antichi disprezzavano in privato quella religione che rispettavano in pubblico, non credendo possibile di vincerla. Da ultimo, per gli antichi innovare era sinonimo di corrompere. La censura antica si sgomenta quando vede rimutarsi la musica e la danza. Licurgo si fa promettere che nessuno toccherà le sue leggi prima del suo ritorno, e muore in esilio per legare l'immortalità alla patria. Caronda comanda al cittadino che propone una nuova legge di presentarsi in senato colla corda al collo, e vuole strozzato il novatore se la legge non è ammessa. Una tetra pedagogia incatena tutti gli atti del cittadino perchè la città, opera di una sapienza eccezionale, possa durare. Per noi, al contrario, l'innovare è sinonimo del migliorare, l'immobilità è sinonimo di corruzione e la storia moderna comincia coll'innovazione: innova la geografia raddoppiandola; scopre l'artiglieria. la stampa, e i primi tra gli uomini nuovi chiedono alla filosofia l'arte di fare nuove invenzioni. Credono che si potrà apprendere la facoltà inventiva come si apprende a leggere ed a scrivere. Raimondo Lullo vuole colla sua grand'arte dare il genio ad ogni uomo: Bacone rinnova la stessa promessa. «Il nostro metodo, l'invenzione», dice egli, «lascia poco alla penetrazione ed al vigore delle menti: anzi si può affermare che eguaglia le capacità; che abolisce la superiorità in quella guisa che se si tratta di tracciare un circolo, il compasso rende eguali i più inabili ai più esercitati». Anche Campanella pretendeva che la sua filosofia, sostituendo le parole alle cose, la realtà alle astrazioni, dovesse moltiplicare le scoperte. Descartes attribuiva al suo metodo tutte le sue scoperte nelle matematiche. Quando l'esagerazione dei metodi scompare presso i filosofi del secolo decimottavo, più non si parla se non di mutar l'uomo, di rifarlo, d'innovare la educazione, le leggi, i governi, la società; e la stampa si affatica nel celebrare gli inventori, nè si stanca di esaltare i novatori. Così la sapienza antica trovasi intervertita, la nostra saggezza non vuol censori, non inquisitori; la nostra vita si affida al principio della libera concorrenza degli istinti, riposa sull'ipotesi che, lasciato l'uomo al suo pendio, lasciata l'industria alla sua libertà, abbandonata la discussione a sè stessa, si giunga naturalmente al vero, al bene, al giusto: ogni nostro lavoro, ogni nostra invenzione, ogni nostra instituzione non tende se non a raddoppiare il moto già celere che ci avvia nella libera carriera tracciata dagli istinti, dalle idee, dalle vocazioni. Ora la vita moderna, qual si rivela nella nostra società, respinge con disdegno la religione di Cristo. Se guardiamo gli astri, la via lattea, Sirio, i gruppi delle nebulose svolgono dinanzi a noi l'universo in una sì sterminata vastità, che la redenzione di Cristo vi rimane perduta sovra un atomo di sabbia. Se guardiamo alle nostre istituzioni, il sacerdote cristiano ci ricorda la censura degli antichi; in ogni modo la rivelazione della vita si congiunge colla rivelazione degli esseri per pronunziare la decadenza del cristianesimo. Fin qui abbiam consultato il vero, abbiamo ascoltata la voce della vita: havvi di più; dobbiamo intendere la voce della giustizia. Primo dogma del cristianesimo è la caduta dell'uomo; il cristianesimo ci vuole tutti perversi e delinquenti nell'atto stesso del nascere; ci nega il diritto e la possibilità di esser liberi, di governarci da noi; ci vuol servi e maledetti. I cristiani adorano un Dio nemico del genere umano. Jehovah punisce tutti gli uomini per la colpa di un uomo; Jehovah fa la natura nemica dell'uomo; Jehovah impone il lavoro qual pena servile; Jehovah separa gli Ebrei da tutte le genti, comanda la guerra, promette la conquista di Canaan. Jehovah è la natura ostile, a cui l'umanità sfugge per la tangente delle grandi conquiste; Jehovah ordinava la schiavitù del mondo antico, la voleva atroce, si pasceva di stragi, chiedeva vittime umane sugli altari di Jefte e di Samuele. Ogni nostro progresso è vera lotta contro di lui. Il secondo dogma del cristianesimo, la redenzione, è un privilegio odioso quanto la caduta; noi rifiutiamo il patto di Abramo, noi ripudiamo il sangue di Cristo; appaghi esso l'immane Jehovah; noi non offriamo, non invochiamo il prezzo di alcuna vita umana; comunque s'interpreti, Cristo conferma, compie l'antica legge; si rimane nell'antica servitù. Egli crede alla caduta, non combatte il Dio della maledizione, resta sommesso, è figlio, e imagina di placarlo e di soddisfarlo facendosi schiavo, facendosi uccidere dal popolo eletto. Il padre aggradisce l'offerta, lo uccide, lo fa crocifiggere dal popolo eletto, poi punisce il suo stesso popolo per aver compito il voluto parricidio; ed è questo il pegno dell'èra nuova: la maledizione antica deve cessare perchè Jehovah ha oltrepassato la propria ingiustizia punendo il figlio innocente, quasi fosse l'uno de' figli innocenti di Adamo. La maledizione cessa, ma negli eletti; cessa, ma la giustizia è grazia, favore; cessa, ma la libertà degli eletti è ordinata nel vuoto de' cieli; cessa, ma l'eletto vive di martirio sulla terra, vive nemico di sè, imitatore del supplizio di Cristo, carnefice d'ogni suo istinto; e se per un istante si ricorda d'esser uomo, è perduto per sempre, è vittima di Jehovah e di Cristo, unanimi nel furore e nella vendetta. Cristo deserta la causa degli oppressi nell'atto stesso che la difende: lascia la terra a Cesare, ai conquistatori, ai barbari; non offre altro al povero che la derisione del pane eucaristico; lo santifica, ma lo abbandona affamato alle porte de' palazzi; gli dà a bevere il proprio sangue versato dal padre, perchè lasci versare il suo sangue da ogni tiranno. Se Cristo è luce, la sua luce sorge per illuminare l'ingiustizia della terra, senza toglierla, senza alterarla. Quindi i primi cristiani vivono nell'aspettativa del millennio, s'attendono alla fine del mondo, alla risurrezione dei corpi; non pensano ad altro. Quindi i Padri della chiesa son intesi a combattere il lusso, la ricchezza, la potenza, la scienza; muovono guerra indistintamente, confusamente a tutte le cose della terra; vogliono che si viva imitando il suicidio di Cristo. Quindi le virtù monacali de' primi tempi; perpetuate poscia nei conventi, nel celibato; virtù da insensati, che abbandonano la causa degli oppressi per lasciare più liberi gli oppressori. La chiesa non apporta nel mondo alcun principio liberatore, abbandona tutto al caso, non sa ordinare sè stessa senza copiare il mondo antico. Il clero imita le caste, fonda la chiesa opponendola all'istinto delle moltitudini; il sacerdote imita il legislatore antico il sacerdote regna di continuo diffidando de' profani; risuscitando la censura romana, e diffida di ogni innovazione. Poi la chiesa copia il mondo romano: essa nomina i suoi proconsoli, i vescovi; riunisce i suoi senati, i sinodi; elegge il suo imperatore, il papa; invia i suoi diplomatici, i legati; riproduce il diritto romano nel diritto canonico; poi copia la società feudale, poi copia tutto, eccetto la libertà. Cristiani! non vi combattiamo perchè siate nell'errore, non vi combattiamo perchè siate illusi ma vi combattiamo perchè adorate Dio padre parricida, Dio figlio che consacra il parricidio voluto: raccontando i delitti de' vostri Dei, voi scandalizzate ogni uomo che nasce. Ci pretendete ebbri e furenti se cessiamo di credere al miracolo di un'autorità soprannaturale; e quest'errore vi fa parlare il linguaggio dei bonzi, dei lami, degli allucinati dell'Oriente; ci credete predestinati all'obbedienza, e il vostro errore protegge i conquistatori, i re, i princiopi, i figli dei crociati, gli eredi dei signori e dei banchieri: ogni vostro errore si traduce in ingiuria, voi siete i difensori di ogni pontefice, che nega il diritto della scienza, voi difendete ogni condottiere, che nega il diritto alla vera comunione del pane, e non del sangue, della terra, e non del cielo. Dall'89 in poi avete sentito che ogni religione era reazione, che ogni dominatore, turco o russo; difendeva il miracolo, e avete ordinato la santa alleanza di tutte le religioni a difesa di tutte le dominazioni. Or bene, giunta è l'ora; voi commettete in terra il delitto che avete supposto in cielo, ogni vizio invoca la religione, ogni religione mette capo in Cristo. Nel temop degli schiavi il vostro Cristo era liberatore, nella leggenda divenne: mito: nella verità è capo di una religione, e perciò stesso ci carpisce la nostra ragione, la nostra coscienza; ci rende alienati di mente. alienati di cuore; non ci lascia aperto se non il regno della morte, lo scampo che l'antico vincitore lasciava alla disperazione del vinto. Ma noi non disperiamo, e il sorriso della derisione che vi sbigottì, trionferà della ragion di Stato che vi riunisce: il cristiano è morto, l'uomo deve nascere, è nato, ha già respinto dallo Stato gli apostoli e la Chiesa.
|
Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License |