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Giuseppe Ferrari Filosofia della rivoluzione IntraText CT - Lettura del testo |
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Capitolo III
LA GUERRA CONTRO IL PRIVILEGIO
L'opera della costituente cadde perchè inviluppò la dichiarazione dei diritti dell'uomo in un triplice equivoco che la paralizzava sui tre punti della religione, della proprietà e del governo. Nella religione la lotta tra l'uomo e Dio era compiutamente dissimulata: l'irreligione proclamava la libertà, ma non proclamava sé stessa: la libertà dei culti non aveva un principio che la giustificasse, restava a mezz'aria, senza base, anzi riducevasi ad una specie di secolarizzazione. Essa stipendiava il clero, lo arrolava al suo servizio; la chiesa, diceva Thouret, è un servizio pubblico. Quindi se ne confessava l'utilità, se ne riconoscevano indirettamente i dogmi. Perchè non ne rimanesse dubbio, la costituzione proclamava l'esistenza di Dio, e Dio proteggeva Cristo; la libertà richiamava gli esuli protestanti, e il richiamo poteva essere inteso come un atto di tolleranza. L'equivoco era sì generale, che il frate Gerle, per iscusare i patrioti accusati d'irreligione, proponeva di far decretare che la religione cattolica sarebbe sempre la religione della Francia. Senza dubbio Gerle era ingenuo; ma che venivagli risposto? dichiarate, se volete, rispondeva Buchotte,che la religione cattolica è la vostra religione: e qual era dunque la religione della rivoluzione? Tutti si tacevano: il detto più audace di Mirabeau si riduce ad una dissimulazione vestita d'insolenza. Mirabeau, levandosi, diceva le celebri parole: vedo la finestra d'onde un re di Francia tirava il primo colpo d'archibugio nella notte di san Bartolomeo. Queste parole trionfavano, ma erano equivoche, ma la libertà de' culti riducevasi a tollerare i protestanti, a proteggerli. Parimenti quando si discute la costituzione civile del clero, gli uomini della Costituente non si dicono cattolici, non si dicono d0altro culto, non si dicono filosofi, dichiarano esser loro intenzione di non regolare se non la disciplina. Dichiarate, dicono i cattolici, che non volete toccare lo spirituale. - Noi dichiariamo, rispose Mirabeau, che non lo abbiamo toccato. Audacissima ritirata che comprovava il proposito deliberato di mantenere l'equivoco, di nascondere il pensiero della rivoluzione, per cui la Francia dominata da un Dio astratto, servito dal clero a spese pubbliche per cui l'irreligione pagava la religione. La legge agraria fermavasi alla confiscazione dei beni del clero e alla soppressione dei diritti feudali: all'abolizione dei vincoli antiquati che soffocavano l'industria. La costituente lasciava tutte le ricchezze nelle mani de' ricchi, riduceva l'eguaglianza promessa a una derisione; altronde, la stessa dichiarazione dei diritti dell'uomo dell'89 garantiva la proprietà, quasi volesse assicurare l'ineguaglianza a priori. Nel governo, l'equivoco della Costituente conciliava la rivoluzione e la monarchia: la costituzione limitavasi a spiegare la monarchia col linguaggio della democrazia; rispettava le persone dell'antico regime, e dava loro nuovi nomi e nuove funzioni. Il popolo diventava sovrano, ma il re era capo dello Stato; il re non era se non il capo della nazione, ma era più che la nazione per l'inviolabilità, pel veto, pel diritto di attraversare ogni progresso, sempre celato dietro la responsabilità de' suoi ministri. Il popolo era onnipotente nei comizi, ma alla condizione di pagare il censo, di partecipare alla ricchezza delle classi privilegiate, alla condizione di non esser popolo. Il triplice equivoco della Costituente si svelò d'un tratto nell'atto della guerra. Luigi XVI dirigeva la guerra: contro chi? Contro i re; e chi era egli? un re. Era nemico del nemico, o tradiva la nazione? Ecco il problema; la guerra mette in pericolo la vita, e provoca rapido il libero esame, e il libero esame discopre che il clero, la nobiltà, il re son congiurati contro la nazione: Robespierre denunzia la congiura al primo nascere: la denunzia prima che la guerra sia dichiarata. Tutti i suoi amici spingevano alla guerra, operavano, declamavano come se le idee dovessero rovesciar sole ogni ostacolo; liberissimi di mente, erano ciechi sui mille ostacoli che loro opponevano l'ineguaglianza, il dominio, l'interesse, e quindi lo stesso ascetismo dell'antico regime. Il solo Robespierre resiste all'idea di dichiarare la guerra. «Esaminiamo,» diceva egli al club dei giacobini, «di qual specie di guerra siam noi minacciati. Trattasi della guerra di una nazione contro altre nazioni? trattasi della guerra di un re contro altri re? No, trattasi della guerra di tutti i nemici della costituzione francese contro la rivoluzione francese. - La guerra,» continuava egli, «è sollecitata dal nemico, e piace al ministero, alla corte, a tutti i seidi dell'aristocrazia. Imparate adunque che il vero nemico è in Francia. Imparate che la guerra è buona per gli officiali militari, per gli ambiziosi, per gli agitatori, essa è buona pei ministri, le opere dei quali essa copre di un velo impenetrabile e quasi sacro; per il potere esecutivo, del quale accresce l'autorità, l'ascendente e l'aura popolare; essa è buona per la nobiltà, per i faccendieri, per i moderati che governano.» L'entusiasmo cresceva, e cercava il nemico alle frontiere. Robespierre insisteva dicendo: «Invece di spacciare con enfasi tanti luoghi comuni sugli effetti miracolosi della dichiarazione dei diritti e sulla conquista della libertà del mondo, fa mestieri ponderar bene le circostanze in cui ci troviamo e gli effetti della nostra costituzione. Non è forse al solo potere esecutivo ch'essa dà il diritto di proporre la guerra, di farne gli apprestamenti, di governarla, di sospenderla, di rallentarla, di affrettarla, di scegliere il momento e di regolare i mezzi per farla? In qual modo spezzerete voi tutti questi ostacoli? Vorreste trarvi dall'impaccio di questa costituzione, voi che sino ad ora non avete potuto mostrare bastevole energia per farla eseguire?» La guerra è dichiarata, Robespierre s'ostina a penetrare nel fondo dell'equivoco, della vuota libertà che lascia regnare gli antichi signori: egli dimanda se i popoli oppressi sono insorti contro i tiranni in favore della Francia: «Non sono insorti,» dice, «perchè la guerra è diretta dalla corte. Che si è fatto per destare, per secondare l'ardore de' patrioti belgi e liegesi? In qual maniera si è risposto alle incalzanti sollecitazioni di coloro che abbiamo veduti tra noi? Perchè, adunque, si è lasciata la stampa inoperosa? Perchè manifesti destinati a sviluppare i diritti del popolo ed i principj della libertà... non sono stati sparsi prima tra il popolo e nell'esercito austriaco? Perchè non si è offerta loro una formale malleveria della condotta che ci proponiamo di tenere, dopo la conquista, nelle cose politiche di quello Stato?» Così Robespierre trasportò per la prima volta il problema della rivoluzione sul campo della coscienza; non ascoltato ne' primi momenti, egli rimase assolutamente solo, a' primi disastri campali la Francia cadde nel suo sistema e la Gironda ne subì l'impero a suo malgrado e senza saperlo. Quando Vergniaud, il capo della Gironda, propone di dichiarare che la patria è in pericolo, Vergniaud altro più non è che un discepolo di Robespierre. Lo copia dopo l'evento; il suo discorso è un'accusa contro la corte, una vera confessione dinanzi alla rivoluzione. Vergniaud confessa che fu richiamato l'esercito del nord quando era vittorioso, confessa che la Francia è minacciata sul Reno, confessa che il re ha rifiutata la sua sanzione a un decreto contro la sedizione cattolica, a un decreto per stabilire un campo tra Parigi e la frontiera. Vergniaud riconosce che il re non difende la Francia, che lo straniero vuol difendere il re, che Coblentz, che il trattato di Pilnitz, che Berlino, che Vienna si collegano contro la rivoluzione, che il nemico marcia su Parigi, che le Tuilleries si armano, che il ministero tradisce; in somma, che la guerra ha messo la patria in pericolo. Vinto era l'equivoco della Costituente che annullava la dichiarazione dei diritti dell'uomo, era palese la differenza tra il re e la nazione, tra il nobile e il funzionario, tra il sacerdote e l'uomo. Il re cadeva, i traditori erano puniti, i tempi di Robespierre erano giunti; ognuno voleva rinnovato il patto sociale, e si convocava la Convenzione. Alla fine la ragione, proclamata dea, destituiva il Cristo; il calendario era mutato, ai santi del cielo erano sostituiti gli eroi della terra. Quattro soli anni bastarono al trionfo dell'irreligione. Se non che, la religione è la teoria della schiavitù, e se l'ineguaglianza sussiste, la religione risorge spontanea nelle idee. La guerra contro l'ineguaglianza fu confidata a Robespierre, e Robespierre cadde come la Costituente, perché avviluppò la dichiarazione dei diritti dell'uomo in un nuovo equivoco. Uomo di guerra, egli pensava che il nemico fosse nel governo: combatteva nell'antico governo il dominio della religione e della proprietà, non voleva risalire più oltre. Indi la sua impotenza. Nella religione Robespierre si ferma a combattere l'influenza degli arcivescovi, dei cardinali, dell'alto clero; non combatte la religione immagina di subordinare gli antichi culti al deismo. Quindi impone un Dio che non può dimostrare, che non può manifestarsi, che non può punire, che non può ricompensare e che la stessa metafisica non ha mai rispettato. Non basta: si agita la questione dello stipendio del clero: e il Dio di Robespierre protegge l'evangelio, vi trova una legge di eguaglianza, la paga; nè s'accorge che paga l'eguaglianza nel cielo, che paga la dottrina dell'ineguaglianza sulla terra. V'ha di più. Il deismo di Robespierre denunzia gli atei quai nemici della pubblica moralità, li accusa di tradire la patria, di essere mercenari di Pitt e dell'Austria, li trae al patibolo; Hébert è decapitato, e tutta la reazione europea applaude al supplizio. Si svenava l'uomo che credeva alla propria ragione; a Vienna e altrove credevasi già possibile di aprir negoziati con Robespierre, se l'Essere supremo continuava a regnare, avrebbe potuto benedire un concordato colla chiesa. Lo stesso equivoco si riproduce a proposito della proprietà; Robespierre sente che gli incombe di tentare la rivoluzione del povero. Ecco le sue parole: «La feudalità è distrutta», dice egli; «ma non per i poveri, che non possiedono nulla nelle campagne emancipate; le imposte sono distribuite con maggiore giustizia ma l'alleviamento è quasi insensibile per il povero; l'eguaglianza civile è ristabilita, ma l'educazione e l'istruzione mancano al povero. Qui si tratta della rivoluzione del povero; ma dev'essere «rivoluzione dolce, pacifica, che si compia senza spaventare la proprietà, senza offendere la giustizia.» Conveniva adunque compiere la rivoluzione del povero, e rispettare l'antico riparto della proprietà. Robespierre lo rispetta, non tocca alla divisione delle terre, nè il diritto di eredità; propone l'imposta progressiva, fa adottare la legge sulle sussistenze; sono leggi utilissime, ma esterne, non organiche. Propone l'educazione nazionale di tutti i figli della patria a spese pubbliche; non proclama un diritto immediato, urgente, che diriga un'azione politica, nella quale il povero si trovi sciolto dalle catene dell'antico riparto. L'eguaglianza svaniva in parole, in vuote predicazioni; l'ineguaglianza delle fortune sacrificava il povero al ricco, l'eredità perpetuava la classe degli oziosi, la libertà del plebeo rimaneva oppressa dal ricco, mentre la sua ragione rimaneva alienata in Dio. Da ultimo, il doppio equivoco religioso ed economico si riproduceva nel governo. Robespierre trovavasi alle prese con una sedizione invisibile, sempre rinascente, universale, essa lo assaliva negli eserciti, nelle città, nelle campagne, nel seno stesso della Convenzione: la causa secondaria della sedizione era nell' antico regime, la causa prime era nell'eredità: non erano solo i nobili, i preti e i faccendieri che cospirassero, erano le fortune fondate nell'antico regime. Robespierre è sublime quando denunzia i nemici della patria, mai la morale non ispirò più poderoso pensiero, il delitto impallidiva, la regia cospirazione sentivasi fulminata e avvilita. Pure la morale, staccata dal disegno di una riforma economica, cadeva nel vago, non afferrava i nemici della rivoluzione, ravvisandoli al segno evidentissimo della ricchezza; Robespierre era ridotto ad accusare le intenzioni, a sospettare le tendenze. Voleva incatenare i giornalisti, i mendichi, s'irritava contro la legalità antica che gli sottraeva il nemico, s'irritava contro la legge equivoca da lui stesso voluta, uccideva le persone, lasciava vivere il sistema avverso. Robespierre credeva al popolo, lo voleva armato, gli aveva detto che ogni governo è un commesso, che deve sempre essere sospetto; e non dubitava punto di esser più che un governo, di essere dittatore, di essere l'antico censore, il pontefice antico da lui fulminato. Ma la moltitudine che lo circonda, lo giudica dalle opere, lo vuol dittatore perché denunzia i nemici della patria, il popolo venera l'uomo incorruttibile che vuol verace guerra allo straniero, l'inquisitore giustissimo che invia al patibolo i sediziosi della corte e del clero. Il popolo non vede che Robespierre vuole la rivoluzione del povero, perché non ne vede patente il programma; la metafisica di Rousseau vela Robespierre a tutti, a lui stesso; e quando la patria più non è in pericolo, Robespierre soccombe, non è difeso, non ha più ragione d'essere. Dacchè trattavasi solo di combattere l'antico governo, meno la religione, meno la proprietà, altrettanto valevano i termidoriani e i loro successori, i quali, in quanto risparmiavano il sangue, erano migliori del deputato d'Arras.
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