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Giuseppe Ferrari Filosofia della rivoluzione IntraText CT - Lettura del testo |
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Capitolo V
LA MONARCHIA IN FRANCIA
I Borboni furono imposti dall'Europa; ma nè Luigi XVIII, nè Carlo X, nè Luigi Filippo non sono mai stati re. Il re è un capo la cui l'autorità è incontestata, il cui principio è sacro: il re è il padre del popolo, l'anima della nazione, l'uomo indispensabile, a cui nulla può supplire se non la pubblica ragione. Dopo Luigi XVI, dopo il 93, la Francia non ebbe più re. I Borboni del 1815 furono accettati quali dittatori. Nel fatto i Borboni regnarono sempre assediati dalle cospirazioni, poi in tre giorni furono sbanditi; il loro governo era dunque provvisorio, forzato, effimero: dunque la rivoluzione non era vinta, dunque il dato vitale di Voltaire e di Rousseau sussisteva, ed era mestieri appagarlo. Tutti i re lo riconoscevano, e credevano necessaria in Francia quella costituzione che rifiutavano ai propri popoli; mentre imponevano i Borboni, i re transigevano colla Francia; la loro vittoria riceveva il limite della carta. Ora la carta accordava una libertà rifiutata da Napoleone, e il fatto non consentito ma risultante dalla carta, era che cessava la dittatura di Robespierre in un con quella di Napoleone. Entrambi rifiutavano al popolo il diritto alla propria ragione, ch'era trasportata in Dio; entrambi dominavano la religione del popolo; entrambi stabilivano il regno di una ragione di Stato, metafisica presso Robespierre, politica presso Napoleone; entrambi erano semidei, e regnavano sugli Dei e sugli uomini; entrambi si facevano giuoco de' pontefici, e pagavano religioni e cui non credevano; entrambi organizzavano il regno dell'impostura. Ora, colla carta la Francia ebbe un capo dell'antica legge, e ciò meglio valeva, non In diritto, lo ripeto, ma in fatto. Il genio che presiedeva alle iniziazioni della Francia accolse la corte come si accoglievano gli iloti al banchetto di Sparta per ubbriacarli e per istudiarli: i re, i vescovi, i conti, i marchesi avevano vinto, ed erano accolti, e patto di lasciarsi sindacare in pubblico. Il primo atto del nuovo dittatore fu di considerare la libertà delta carta qual dono che proveniva unicamente da un atto della sua regia volontà: la carta era concessa. L'ilota dovette ricredersi, e la carta veniva dominata dalla rivoluzione; la libertàera superiore al re, e i re rispettavano più la Francia che non i Borboni. In secondo luogo, tutti gli uomini della ristaurazione imitarono in ogni modo la costituzione inglese; condannati ad esser liberi, volevano esserlo come gli Inglesi. Affettavano di considerare il re, i Pari, la camera, il censo elettorale quali instituzioni sacre poste fuori di dubbio; pensavano che la discussione non cadrebbe se non sugli affari correnti del regno. S'ingannavano: per fondare il regime inglese, per fondare la reazione, discutevano per l'appunto quella rivoluzione di cui non volevano parlare; la lotta parlamentaria diventando rivoluzionaria, che rendeva dubbia ad ogni passo la dittatura de' Borboni. Predicavisi necessaria un'autorità; e sembrava che il secolo decimottavo, la storia stessa della rivoluzione dessero ragione agli apologisti dell'autorità. Voltaire e Rousseau non riconoscevano forse che i popoli erano sempre stati preda dei tiranni, dei conquistatori o almeno dei legislatori? Come mai riscattare dal dominio dei re e dei pontefici la moltitudine che vuol obbedire ai pontefici, ai re, ai capi, qualunque sia la loro denominazione? Non era evidente che se il movimento liberatore partiva, dall'alto, conduceva alla tirannia, che il tiranno invocato da Platone avrebbe fondato, non la repubblica, ma la teocrazia? La scienza storica della Germania rivela una risposta imprevista, e ci mostra che ogni pontefice non ha regnato se non alla condizione di rappresentare gli interessi e la fede di un popolo: qual interesse rappresentavano i Borboni? Quello dello straniero: qual era la loro fede? Il cristianesimo era vinto, non era più altro che la meccanica di un'ineguaghanza voluta, imposta colle baionette dell'Europa. La fede, gli interessi della Francia scacciavano i rappresentanti della cristianità; e si svelava il moto storico per cui i pontefici vincono i pontefici, e per cui ogni dogma soprannaturale deve finire. Nei minuti particolari la discussione che speravasi inglese era un tormento continuo, una vera insurrezione: la derisione, l'invettiva, l'odio contro l'antiquata commedia della monarchia aumentavano ad ogni passo; e giungevasi a questa conseguenza, proclamata letteralmente dagli stessi conservatori, dagli stessi ministri di Carlo X, ch'egli era cosa impossibile il governare colla libertà della stampa. D'indi le ordinanze di Polignac, d'indi le tre giornate di luglio, e il regno di Luigi Filippo. Anche Luigi Filippo fu dittatore, e non altro; la carta toglievagli la sovranità, lo sostituiva a Carlo X, che aveva violato la libertà della stampa; era adunque inteso che dovesse rispettare la libertà dei pensiero, che ogni sua resistenza dovesse fondarsi sulla ragione, che la sua parte fosse di mostrare gli ostacoli opposti alla rivoluzione dal fato. La dittatura di Luigi Filippo fu la dittatura della discussione. La tribuna, la stampa, la letteratura non furono mai più fiorenti, né più imperiose; si entrò nell' éra delle gradazioni, delle ingegnose tergiversazioni, dei sapientissimi inganni. Per sua sventura Luigi Filippo doveva resistere ai diritti dell'uomo che rivendicano la ragione e l'eguaglianza. Luigi Filippo difende la religione a nome della ragione; s'impadronisce del Dio di Robespierre, e senza professarlo, senza crederlo giusto, l'introduce nell'università, gli apre le porte dell'Instituto. Nello stesso mentre paga a tre cleri, al cattolico, al protestante, all'ebreo, il rispettivo salario; e re di quattro religioni distinte e contrarie, vuol ricostituire il dominio napoleonico sulle idee religiose. S'insegna nelle cattedre come i dogmi hanno fine, s'insegna nei templi che la fede risorge; ed ecco il governo che deve difendere le religioni discutendo ad alta voce quanto in altri tempi susurravasi arcanamente all'orecchio. Perchè tanto rispetto per il papa, per Lutero, per la sinagoga? Si risponde che abbisogna una religione per il popolo, un cielo al povero, una qualsiasi illusione per mansuefare la plebe diseredata. E perchè una religione all'Istituto e alla Sorbona? Per conservare l'errore del popolo. Quindi il Dio di Robespierre assale e rispetta, disprezza e venera tutte le religioni: poi s'inchina alla Bibbia, e destituisce il filosofo; vuol la verità subordinata all'errore, la storia alla favola; insegna che il vero progresso si sviluppa con misura, con circospezione, con destrezza. Ed ecco che sorge la morale della disinvoltura; il governo è inteso a scegliere i ministri dell'occasione, della circostanza, dell'opportunità; gli uomini che sappiano librarsi nel giusto mezzo tra il vero ed il falso, tra il giusto e l'ingiusto: si fa astrazione da ogni principio, da ogni diritto, da ogni morale. Quindi ognuno inteso a farsi aggradare come uomo possibile ognuno inteso a farsi via alla fortuna, rimovendo da sè l'impossibile, cioè la ragione integra e pura. Quindi il successo divien regola, divien legge; il re-ostacolo, sta col fatto, colla forza; resiste, e sempre discutendo, ad ogni fatto che vuol compiersi; resiste al diventare, al sorgere, al nascere, alla vita; la sua ragione combatte la ragione. Difende forse la chiesa, i re? No; il fatto solo del suo governo è un insulto all'antico regime; egli si dice un giusto mezzo; e qui ancora la ricerca del giusto mezzo deve esser fatta in pubblico, innanzi alla rivoluzione ed alla chiesa: indi nuova difficoltà; il giusto mezzo è accusato dalla chiesa di esser voltèriano, dalla rivoluzione di esser cattolico; il giusto mezzo non può difendersi, è senza coscienza, è come Napoleone nel momento della grandezza, religioso e irreligioso, empio innanzi ad ogni coscienza, unicamente sostenuto dalla malizia, dagli espedienti e definitivamente dalla cupidigia regale, che cerca la lega di tutti i culti contro il culto della verità. Sotto Luigi Filippo, la scienza officiale s'insterilisce a disegno, sopprime le proprie conseguenze, si rivolta contro la sincera scienza; il governo ordisce in seno alla nazione la santa alleanza di tutti gli errori. La resistenza è la stessa contro l'eguaglianza: la carta riconosce l'eguaglianza di tutti i cittadini innanzi alla legge, ma Luigi Filippo è il re de' ricchi; dimostra che i soli proprietari sono sapienti, sono degni di governare; che l'immensa maggioranza della nazione non ha tanto discernimento che basti ad eleggere un deputato; che la virtù è incarnata nei milionari, ne' venturieri. Poi accusa i democratici d'essere dementi, perchè vogliono l'eguaglianza; accusa gli operai di essere cupidi perchè non vogliono morir di fame; professa che i savi, i moderati sono i banchieri, i monopolisti, gli sfaccendati, i sofisti che comentano Platone e fanno l'elogio dei ricchi. Rimaneva a Luigi Filippo di esser la providenza dell'industria e del commercio; ivi poteva trovare le ragioni per farsi necessario: ma qui una nuova fatalità lo attende. Il povero pensa alla sua rivoluzione; Rousseau, Robespierre non l'avevano sperata; vedevano che l'industria diffonde l'agiatezza, che nutre i popoli, che la sorte del mondo è vincolata ai destini dell' industria; e volendo lottare, si smarrivano nel paradosso che raccomanda una indeterminata virtù. Fourier e Saint-Simon uscivano dal paradosso cercando la rivoluzione del povero precisamente nell'industria, che sembrava renderla impossibile. Verso il 1806, nel momento stesso in cui la libera concorrenza all'interno faceva sentire i suoi benefizi, essi ne scoprivano i vizi; l'accusavano d'arricchire i ricchi e d'impoverire i poveri, scorgevano la miseria crescente dell' operaio, e il principio di una rivoluzione crescente all'infinito. L'esercito del proletario s'arma nel 1830, ha le sue legioni a Parigi, a Lyon, a Lille, dappertutto dove il capitale ingrassa immolando la libertà, il lavoro, la salute del povero. Era oramai aggiunto all'antica rivoluzione un nuovo dato vitale. Fourier e Saint-Simon rappresentano una nuova èra colla dualità dell'interesse e della giustizia; Fourier è l'interprete della nuova vita, la svolge nella iperbole del falanstero, deride la civiltà, gli inciviliti, gli equivoci della commedia umana travolta nell'impossibile della metafisica e della religione. Fourier vuole l'interesse, dimentica il dovere, è facile alla transazione, è il Voltaire del proletario, gli assomiglia per la facilità, per l'ironia e per la critica. Saint-Simon sente meglio la giustizia, rammenta Rousseau, è paradossale, ma spietato nell'assalto e irresistibile nella, censura. Che fa Luigi Filippo? Difende l'ineguaglianza a nome dell'eguaglianza; si fonda sul principio della libertà individuale per proteggere e fomentare i vizi della libera concorrenza; vuol profittarne, vuol trarne la perpetuità della sua dinastia. Volge il medio ceto contro il popolo, ordina una nuova nobiltà di arricchiti, mostra l'urgenza di combattere la rivoluzione del povero col ferro, col fuoco; non vuol nemmeno che sia discussa all'università, all'Instituto; appone a delitto il parlarne. La politica di Luigi Filippo è consentanea alla resistenza, sistematica contro la ragione e l'eguaglianza degli uomini. La rivoluzione parte dal principio della sovranità del popolo, e reclama per conseguenza la sovranità dei popoli; essa isola la Francia per opporla alla cristianità. Pure v'ha un capo, v'ha un limite; è necessario questo limite? Convien discutere, si discute. Ecco il problema della guerra e della pace; e sorge a proposito della santa sede che la rivoluzione vuol abbattuta e che il capo della Francia vuoi salva. Si giunge a una transazione, il principio del non intervento è proclamato, non vi sarà adunque né la lega dei popoli, nè quella dei re: ogni nazione s'isolerà, camminerà sola, giungerà alla libertà, se vorrà, se saprà conquistarla.. Tale è l'utopia del 1830; bastava alla libertà di tutti; lasciava togliere l'Italia al papa e all'imperatore, lasciava liberare la Spagna, vivere indipendente il Belgio, democratizzarsi la Germania. Ma l'inazione è impossibile, ma il non intervento è assurdo, ma la libertà isolata d'ogni popolo è finzione giuridica: tutti i popoli si collegano coll'industria, col commercio, colla religione o coll'irreligione. Che farà Luigi Filippo? Segue inversamente la politica di Napoleone; vien detto il Napoleone della pace, e per sua sventura deve spiegarsi pubblicamente, sfoggiare alla tribuna la sua sapienza, confessare il suo secreto, già indovinato da tutti. Egli lusinga i popoli ed i re, rispetta ogni fatto compito, ogni successo felice; è il re dell'occasione, della circostanza, dell'opportunità; concilia, tergiversa, transige, ma pubblicamente, dinanzi a tutti, e trovasi esecrato dai popoli, sospetto ai re; progredisce alla sua maniera, or cedendo alt' Inghilterra, ora ingannandola, ora minacciando, ora disarmando, Luigi Filippo regna diciotto anni: evita con massima cura i falli de' tre monarchi destituiti dalla rivoluzione: non tradisce come Luigi XVI; non s'avventura colla guerra, come Napoleone; non viola la carta, come Carlo X. Fino all'ultimo momento discute, sostiene la parte del regio ilota; e cade fulminato dalla rivoluzione del disprezzo, cade d'improvviso senza saper come. Era dittatore, e credevasi re.
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