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Giuseppe Ferrari
Filosofia della rivoluzione

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  • PARTE TERZA   IL SISTEMA DELL'UMANITA'
    • SEZIONE TERZA   LA RIVOLUZIONE
      • Capitolo VI   IL GOVERNO DELLA LIBERTÀ
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Capitolo VI

 

IL GOVERNO DELLA LIBERTÀ

 

I nostri veri nemici non sono più nè marchesi, nè principi, nè re, ma si chiamano tutti cittadini e sono borghesi che vegliano spietatamente alla difesa della proprietà e della religione. La sera del 24 febbraio Parigi era triste; le vie dei ricchi quartieri erano deserte; la borghesia sentiva che, espulso Luigi Filippo, diveniva imminente la rivoluzione del povero. Volle che la rivoluzione si fermasse, e la fermò immediatamente riducendola alle vaghe generalità che avevano resa impotente la prima repubblica,copiando a disegno una catastrofe. Il suo principio fu la libertà, e cominciò dal parlare un linguaggio, a pubblicare decreti che abbracciavano nella loro generalità la libertà dell'antica e della nuova società. I poveri e i ricchi, il minuto commercio e la banca, i comunisti e i legittimisti, tutte le classi si trovavano provvisoriamente protette dall'equivoco classico della nuova repubblica. Una stupidezza fittizia invade i giornali; ognuno si fa sollecito di favorire il doppio senso della libertà; si evitano tutti i problemi, si differiscono tutte le soluzioni. Qualche volta il governo è costretto a spiegarsi; allora si contraddice a disegno, affinchè la contraddizione apra la via a nuovi equivoci. L'emancipazione del proletario à officialmente promessa, i privilegi dei capitale sono officialmente rassicurati, i repubblicani puri fraternizzano coi banchieri, i gesuiti colla Sorbona, i vescovi benedicono gli alberi della libertà. Il classicismo, il formalismo, quel sistema di generalità indefinite, inaugurato dal Petrarca, sviluppato da Fénélon e da tutti gli uomini che si mettevano tra il medio-evo e il risorgimento, tra il cattolicismo e il protestantismo, tra la monarchia e la rivoluzione, è abbracciato, esagerato dal governo, che ben sceglie il suo nome, e si chiama provvisorio. La sua generalità iperbolica non poteva durare; la corrente degli affari doveva rovesciarlo, il suo formalismo oltrepassava i limiti del possibile. D'indi il suo procedimento e la sua caduta.

Il suo procedere fu semplice: la democrazia fremeva, si rivoltava. Il governo provvisorio la lasciò libera in piazza, nei circoli, al Luxembourg, fuori dell'amministrazione: lecito ad essa di continuare nella pubblica via, nelle fabbriche nazionali, poco importavagli dove, la rivoluzione del povero, purchè non fosse nel governo. In pari tempo l'orleanismo conservò i suoi impieghi, il legittimismo invase l'assemblea nazionale, il bonapartismo s'agitò apertamente: non si torse un capello ad alcuno. Il governo era clemente, generoso, senza occhi, senza orecchi per quella libertà formale ch'era avversa alla giustizia del popolo.

La caduta del governo provvisorio fu semplice come il suo procedere. Il primo giorno in cui fu assalito dalla democrazie si trovò nei campo nemico, la sua libertà era quella della religione, della proprietà, della borghesia; il suo diritto mitragliò la democrazia senza pietà, senza misericordia; in giugno superò mille volte le più nefaste repressioni della monarchia. Allora il governo provvisorio fu congedato; i tre partiti che le generalità classiche della prima repubblica avevano lasciato sopravvivere, si collegarono per fissare e utilizzare le libertà della proprietà e della religione.

Non dobbiamo difendere, dobbiamo combattere la costituzione del 48: essa involge nelle insidiose sue generalità la contraddizione tra la libertà del borghese e quella del popolo, tra la sovranità del ricco e quella del povero. Qual'è il governo che costituisce? È un governo equivoco, la repubblica soggetta a revisione, cioè una repubblica che può egualmente retrocedere alla monarchia o progredire nella rivoluzione.

La costituzione chiama un presidente alla direzione della repubblica; e come non si fonda su alcun dogma, il presidente potrà esser dittatore, il dittatore potrà essere un dittatore democratico o un pretendente, un nuovo Robespierre o un antico re.

Perchè non rimanga dubbio sulla latitudine dell'equivoco, il presidente deve essere eletto direttamente dal suffragio universale; alla sua volta l'assemblea nazionale deve emanare direttamente dal suffragio universale. Qui l'equivoca generalità si apre due uscite, prepara una contraddizione, offre un campo naturale alla guerra tra la rivoluzione e la controrivoluzione. Se la democrazia è padrona dell'assemblea nazionale, la reazione sarà alla presidenza; se la democrazia s'impadronisce della presidenza, la reazione si rifugierà nell'assemblea nazionale. La legge è a doppio senso.

Il diritto all'assistenza è ancora una generalità inutile: si riduce al diritto di necessità supposto da tutte le leggi. Qual'è questa necessità? che reclama la miseria del proletario? che devesi accordare alla rivoluzione del povero? L'assistenza abbraccia egualmente la tassa dei poveri e la legge agraria, il work-house e le fabbriche nazionali.

Sappiamo già qual'è il valore delle tre parole indeterminate, libertà, eguaglianza, fratellanza: sono derisioni se la legge non le rende positive, e nessuna legge le determina. La legge si spiega solo accordando la libertà della stampa, il diritto di riunione, il diritto d'insurrezione, e si direbbe che è difficile il chiedere di più; la legge accorda il diritto di parlare, di cospirare e di combattere. Pure ogni malleveria è anticipatamente subordinata al principio stesso che protegge: quanto è sacro, quanto è inviolabile, è il principio, non la malleveria. Qual'è il principio della costituzione? Esso è equivoco; aristocratico e democratico; quindi il valore della malleveria diviene equivoco; e la malleveria deve difendere, non la libertà, ma l'equivoco della libertà.

Il governo è accusato di aver violata la costituzione; egli è certo che soppresse i circoli, incatenò la stampa; egli è ancor pili certo che il 13 giugno 1849 non rispettò il diritto d'insurrezione: pure se rimaniamo sul terreno del diritto indeterminato saremo eternamente vinti, nessuno ignora che la stampa, i circoli, l'insurrezione sono subordinati alle necessità della guerra: nessuno ignora che la rivoluzione è un combattimento: nessuno ignora che l'immensa maggioranza de costituenti decretava lo stato d'assedio, imponeva la costituzione in un collo stato d'assedio. Era dunque sottinteso che le guarentigie rimanevano subordinate allo spirito generale della costituzione, alla difesa della società, quale l'intendevano i vincitori delle giornate di giugno. In una parola, il formalismo del Petrarca dava ragione ai condottieri; quello del 1848 diede ancor ragione al più forte. Chi combatte sul campo della costituzione lascia smarrire in questioni tecniche, amministrative, politiche il dogma della scienza e dcll'eguaglianza; cade nelle insidie della libertà astratta; cade vittima della libertà dei ricchi.

 

 

 




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