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Giuseppe Ferrari Filosofia della rivoluzione IntraText CT - Lettura del testo |
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Capitolo II
CRITICA DELLE DIMOSTRAZIONI DELL'ESISTENZA DI DIO
Tutte le dimostrazioni dell'esistenza di Dio riduconsi a tre: provasi Dio o per le idee, o per le cause, o per l'ordine della natura. La migliore delle prove, quella che si fonda sulle idee, riducesi al seguente ragionamento: «È possibile di concepire un essere perfetto, e nessuno può rifiutare questa facoltà alla nostra intelligenza. In presenza d'ogni oggetto io concepisco un oggetto superiore in forza, in grandezza, in bellezza; io posso sempre oltrepassare ogni perfezione finita; oltrepassando il finito, posso concepire un essere di cui la perfezione è infinita. Ora l'essere che si suppone perfetto deve riunire tutte le perfezioni; l'esistenza è una perfezione; ed io debbo aggiungere la perfezione dell'esistenza all'essere che concepisco eccelsamente perfetto: dunque l'essere perfetto esiste realmente.» Qui gli ostacoli sono scaltramente schivati. La dimostrazione trova le sue premesse nell'idea della perfezione, nè richiede altro dato che il mio pensiero, vero o falso, e la nozione ipotetica della divinità. Era mestieri di passare dalla idea di Dio all'esistenza di Dio, e il passaggio si attua col mezzo di una equazione. Si dice: io concepisco un essere che riunisce tutte le perfezioni; l'una di esse è l'esistenza, dunque l'essere eminentemente perfetto esiste; dunque al colmo della perfezione si trova l'eguaglianza tra il concetto e l'esistenza, tra il parere e l'essere: dunque, innalzandosi alla più alta perfezione, il pensiero sempre immanente al suo oggetto, senza mai toccarlo, finisce per uscire di sè, per confondersi con la realtà. Esaminiamo questa prova. Essa dipende dall'idea di perfezione, che già contiene il germe di una vasta contraddizione. La perfezione è relativa, si sviluppa in mille sensi opposti, segue tutti i contrari: la bellezza dell'uomo deformerebbe la donna, la perfezione della donna è imperfezione nell'uomo; i meriti diventano difetti, e i difetti meriti secondo gli oggetti. In qual modo imaginare un ente che riunirebbe tutte le perfezioni possibili? Avrebbe la forza dell'uomo, la grazia della donna, le ali dell'aquila, l'agilità della gazzella; sarebbe un mostro, sarebbe l'accozzamento il più contraddittorio di tutte le qualità. Ci vien raccomandato, anzi imposto, di staccarci dall'imaginazione, e di non concepire che la perfezione in astratto, la bellezza, la forza, l'intelligenza, ma la ragione vien meno nello sforzo, e soccombe come l'imaginazione. Io non comprendo la bellezza che non è la bellezza di alcun oggetto; essa si ridurrebbe ad una bellezza vaga, quindi equivoca: nel momento in cui vorrò determinarla, non mancherà di svilupparsi seguendo direzioni opposte. Invano si dirà: «dinanzi ad ogni opera finita, voi concepite la possibilità di un'opera superiore; il Partenone è bello senza essere perfetto; senza oltrepassarlo coll'imaginazione, potete superarlo colla ragione: voi idealizzate gli esseri; se torna inutile il riunire le perfezioni materiali che sono vere imperfezioni, potete sempre riunire le perfezioni ideali, e giungere così all'essere eminentemente perfetto.» Lo ripeto, il lavoro della ragione non serve meglio di quello dell'imaginazione. Se nel mio spirito ogni oggetto cede sempre alla possibilità di un oggetto superiore, se posso sempre concepire un'opera che oltrepassa le opere che mi circondano, se posso ideare l'ente perfetto all'infinito, la mia concezione resta sempre nei limiti dei generi. Io posso supporre un letto perfetto all'infinito, una persona bella all'infinito, un uomo savio all'infinito, e in ogni genere un essere che riassume all'infinito la perfezione del genere. Finchè rimango nel genere idealizzo gli esseri, quando voglio riunire in un solo essere la perfezione di molti generi, le forme si confondono, non vedo che mostri, e se voglio poi riunire le perfezioni di tutti i generi, il mio spirito si turba, la natura cade nel caos, l'essere eminentemente perfetto è si strano, che dispare nell'istante stesso in cui ne parlo, si nega da sé nell'atto stesso in cui lo affermo. Chi potrà dire che cosa è l'essere eminentemente perfetto in tutti i generi, in tutti i contrari, nel bene e nel male, nella forza e nella debolezza, nella bellezza e nella laidezza, nella grandezza e nella piccolezza? Ci vien risposto che il male, la debolezza, la laidezza, la piccolezza sono imperfezioni; le si vogliono soppresse, ci si impone di non riunire se non le perfezioni. Or bene cederemo, eviteremo l'imperfezione, purchè ci sia data la regola per distinguerla dalla perfezione. Dov'è dunque la perfezione? dov'è il bene? nel fatto della natura o nella intenzione dell'uomo? La natura sacrifica l'uomo alle sue razze animali, alla sua sfrenata vegetazione; l'uomo sacrifica le razze animali, le vegetazioni, la natura al suo proprio destino. Alcuni popoli adorano divinità le quali sono veri demoni per altri popoli: i pagani si prosternavano dinanzi a Venere, i cristiani dinanzi alla Vergine; quale sarà la vera perfezione? - L'accozzamento di tutte le perfezioni in un essere è un'opera grossolana, un'ipotesi si assurda, che viene abbandonata da quelli stessi da cui viene proposta. Dopo di avere dimostrato che Dio esiste, i teologi debbono scolparlo di tutte le imperfezioni che trovansi nel mondo; queste imperfezioni, dicono essi, sono necessarie; il meglio è nemico del bene; sorpassandosi Dio sarebbe stato imperfetto; fecerat ille minus si non peccasset. L'imperfezione sorge adunque dal seno stesso della perfezione. Concessa la possibilità di un essere perfetto, siamo pregati di aggiungervi la nuova perfezione dell'esistenza. L'esistenza è dessa una perfezione? Per sè è nulla: l'essere e il non-essere sono due nozioni vuote e indeterminate, le quali si respingono reciprocamente. L'essere non diventa preferibile al non-essere se non allorchè attribuito a qualche cosa. Io preferisco di essere felice, ma se si tratta d'infelicità preferisco il non-essere, non voglio essere infelice. Ci vien dunque imposto un equivoco quando ci si impone di considerare l'essere come una perfezione; anche qui la perfezione, sempre equivoca, abbraccia l'essere e il non-essere, si sviluppa in due sensi opposti, e ci conduce alla contraddizione. Passiam oltre: attribuiamo l'esistenza ad un essere eminentemente perfetto, ne consegue forse ch'egli esista realmente? La sua esistenza resta sempre un mio concetto: dicendo che Dio esiste io non esco da me stesso, rimango co' miei propri pensieri, mi limito a concepire, ad affermare l'esistenza di un essere perfetto; tra il pensiero dell'essere e l'essere non havvi nè identità, nè equazione, nè sillogismo. La conclusione della prova riproduce la contraddizione. Esiste un essere perfetto: questo è il risultato della nostra peregrinazione a traverso tutte le possibilità le più felici. Ma l'essere e la perfezione sono due cose distinte. L'essere è il genere di tutti generi, abbraccia indistintamente tutti gli esseri, e indifferente al bene e al male, rimane sempre impassibile. La perfezione, al contrario, si sviluppa per preferenze; sceglie il bene, raffina tutte le nozioni, idealizza ogni cosa. L'essere è un genere come l'uomo che contiene tutti gli uomini, fatta astrazione dalla bellezza, dalla sapienza, dalla virtù degli uomini migliori; se non contenesse che uomini belli, savi, virtuosi non sarebbe un genere. All'opposto, la perfezione segue solo la bellezza, la sapienza; se rimane nella generalità del genere, non è piu' la perfezione. Dunque l'essere assoluto e l'essere perfetto sono due enti distinti: riuniamoli, è d'uopo riunirli poichè affermasi un essere assoluto e una perfezione assoluta; questa riunione ravvicina due termini che si escludono, un Dio impassibile e un Dio benefico, un Dio generico e un Dio provvidenziale, un ente come la sostanza di Spinosa, e un verbo generatore come il logos di Platone. - La dimostrazione dell'esistenza di Dio per mezzo delle idee, a prima vista sì semplice, sì rigorosa, dà per ultima conseguenza la cieca agglomerazione di tutte le tesi le più opposte della teologia. Il termine medio della perfezione si riduce ad un grossolano espediente; il sillogismo si sviluppa in due sensi in un modo contraddittorio; e la conclusione, lungi dall'evitare le contraddizioni del mondo, trasporta tutti i contrari nell'idea di Dio. Non potrebbesi comprendere la fortuna di questa dimostrazione che sedusse Descartes e Leibniz se le più grandi arditezze della metafisica non fossero in fondo veri atti di disperazione. La seconda prova dell'esistenza di Dio trae la sua forza dalla idea di causa, e prende il suo punto di partenza nella natura. «Ogni oggetto,» si dice, «suppone una causa; ogni causa suppone alla sua volta una causa anteriore, e si risale così di causa in causa senza che mai si possa trovare un termine al regresso. Ma essendo impossibile che si dia una serie infinita di cause finite, è necessario di supporre una causa infinita, Dio, che chiude la serie delle cause finite.» Appena possiamo dire che la prova per le cause abbia la forma della dimostrazione: essa si fonda su un'assurdità, e la riproduce in intero limitandosi a spostarla. Se trovasi assurdo di ammettere la riunione del finito e dell'infinito, se credesi contraddittorio di supporre che un numero di cause finite sia infinito, non è forse egualmente assurdo il mettere in presenza Dio e la natura, una causa infinita ed effetti finiti, in altri termini, l'infinito e il finito personificati in due esseri? Il finito e l'infinito si suppongono contemporanei, indivisibili nel mio pensiero; io li vedo uniti nel tempo, nello spazio, in tutta la natura: finchè mi limito ad osservarli e concepirli, io verifico un fatto materialmente vero, benchè logicamente impossibile: ma quando io separo i due termini, il mio atto è arbitrario, la separazione ipotetica, e sono addotto a raddoppiare la contraddizione primitiva perchè la logica mette nuovamente in guerra l'infinito col finito opponendo Dio colla natura. Separiamo noi Dio dalla natura? non vi sarà rapporto tra l'uno e l'altra: Dio cesserà d'essere la causa del mondo, non sarà più che un ente ozioso ed inutile; quindi la prova di Dio sarà fallita poichè non aveva altro scopo che di cercare una causa prima e infinita alla serie degli effetti naturali e finiti. Si suppone, all'opposto, che Dio sia in relazione colla natura? Allora Dio crea il mondo, lo conserva, lo governa: l'infinito tocca il finito su tutti i punti dell'universo, e la contraddizione si presenta di nuovo più forte che mai. Così Dio, che non ha forma, genererà ogni forma; Dio, che è immobile, sarà la causa del moto; Dio, che non può vivere, sarà la causa della vita; Dio, che non è nè pensiero, nè luce, nè materia, sarà la causa del pensiero, della luce, della materia; quindi il pensiero, la luce, la materia procederanno da ciò che non è nè pensiero, nè luce, nè materia; il mondo sarà creato dalla contraddizione. La nozione stessa della causa, come fu detto, soccombe alla critica, poichè l'effetto e la causa non esprimono che i momenti dell'alterazione: tra i due termini non vi ha identità, nè equazione, nè deduzione; si riducono a due apparenze che la natura unisce e che la critica separa. Separandosi, la causa e l'effetto cadono allo stesso livello; l'una cessa d'essere la condizione dell'altro; la causa non può più dominare l'effetto. Anzi nelle interversioni della psicologia, l'effetto domina la causa: la causa è conosciuta dopo l'effetto, l'effetto la precede, e può pretendere di essere la causa della causa. Secondo l'apparenza esteriore, Dio sarà la condizione del mondo; secondo l'apparenza interiore che passa dagli effetti alle cause, si passerà dalla natura a Dio; io potrò essere la causa e la condizione dell'esistenza stessa di Dio. E che? voi direte, è forse l'uomo il creatore di Dio? io lo ignoro; solo io so che non costa più alla logica il dedurre il riposo dal moto, che il dedurre il moto da un motore immobile: l'origine del pensiero, della luce e della materia posta in Dio è contraddittoria, quanto l'origine di Dio attribuita alla luce, alla materia, al pensiero. So d'altronde, ed è certissimo, che i due termini della causa e dell'effetto son distinti, che sono egualmente validi, che si escludono a vicenda; e quando si parla di Dio e della natura, l'opposizione dell'infinito e del finito aggiunge nuova forza a questa reciproca esclusione. Io so finalmente che due termini contrari costituiscono sempre un dilemma inevitabile, e che il dilemma di Dio e della natura ci dispera quanto le altre alternative create dalla discordia degli elementi che compongono le cose e i pensieri. Dunque da un lato Dio domina, tiene il mondo in suo potere; egli è l'eterna condizione di tutto quanto esiste; ci governa, ci costituisce, ci annichila: dall'altro lato, Dio non è che l'essere spogliato di tutte le qualità, non è alcun oggetto, alcun pensiero, e per conseguenza gli oggetti ed i pensieri possono credersi superiori a lui, e dominarlo in forza della loro esistenza positiva e determinata. A Gerusalemme il miglior discepolo di Socrate, l'uomo che meglio conosceva la propria natura, poteva chiamarsi figlio di Dio; nelle scuole della Germania l'uomo che sapeva meglio addentrarsi nel mistero della sua propria esistenza, Fichte, si dichiarò l'autore della natura, il padre di Dio. Nelle tradizioni di tutti i popoli Dio fu sempre l'autore della natura, l'artista del mondo; nella filosofia di Hegel l'essere indeterminato fu eguale al nulla, e il vero Dio si conosce e si costituisce nel pensiero dell'uomo il più illuminato. In ultima analisi, la causa prima dell'universo si ridurrebbe ad un incognita, la quale sarebbe posta e supposta all'origine della serie de' fenomeni: sarebbe come l'X dell'algebra, che precederebbe A, B, C, tutti i fenomeni conosciuti: eguale a zero o eguale a mille, la incognita X non altererebbe alcuna proporzione, lascerebbe le cose quali sono, non aggiungerebbe, non toglierebbe nulla alle nostre cognizioni. Se l'insieme di tutti gli astri e di tutti i pianeti fosse spostato di una lega nello spazio o di un'ora nel tempo, non si vedrebbe diverso da quello che appare; i fenomeni sarebbero studiati come se lo spostamento non avesse avuto luogo: nella stessa guisa, dato che Dio fosse causa, tutte le cause e tutti gli effetti sarebbero quali sono; egli non avrebbe nulla tolto alla contraddizione universale, ed anzi vi avrebbe aggiunto le sue proprie contraddizioni. L'ultima dimostrazione dell'esistenza di Dio viene suggerita dall'ordine della natura, essa ci presenta il mondo come un'opera che suppone un autore onnipotente. La prova per le cause si fondava sull'esistenza stessa del mondo; le bastava che il mondo esistesse perchè fossimo costretti a credere ad una causa infinita: ordinato o disordinato, il mondo supponeva sempre un Dio. La dimostrazione per l'ordine dimentica il mistero delle origini; se occorre, concede che il mondo è eterno, trascurata la causa si occupa dello scopo e l'ordine della natura le fa supporre un Dio. La prima dimostrazione, che dipendeva dalle nostre idee, fu concetta dalla filosofia cristiana; quella che si sviluppa per le cause, era proposta dalla filosofia pagana; il genere umano fu l'inventore dell'esistenza di Dio per l'ordine. Le religioni non sono che immense teleologie in cui la natura viene studiata per indovinare le intenzioni di Dio. Questa dimostrazione sarebbe dessa la migliore? È la più insufficiente, e quasi tutte le scuole moderne ne riconoscono unanimemente la debolezza. L'autore del mondo dev'essere condannato al lavoro di un operaio; bisogna supporgli le passioni, le facoltà, le intenzioni dell'uomo, e forse bisogna dargli gli stromenti necessari al suo lavoro. Egli dispone della pioggia, del sole, per fecondare la terra; la sua missione è di fare che le diverse cose cospirino verso uno stesso scopo; e quando la sua missione materiale è compita, si riposa o piuttosto scompare. Non domandiamogli alcuna verità, alcuna certezza; egli non ci promette di toglierci all'alterazione, al rapporto, alle antinomie della causa e dell'effetto, della sostanza e della qualità, del finito e dell'infinito. Egli ignora i misteri della logica, non li sospetta, benchè lo investano e s'egli si voltasse a guardarli sarebbe fatto statua come la moglie di Loth, svanirebbe annichilato come gli altri esseri dalla natura. Metafisicamente insignificante, il Dio dell'ordine non può mettersi d'accordo colla natura fisica; non è che sia stranissimo l'imaginare l'esistenza di genii viventi ed invisibili; riconoscerò, se si vuole, l'esistenza degli angeli e degli arcangeli, pure la supposizione di un Dio autore dell'ordine e re dell'universo, deve essere autorizzata dall'esperienza; poichè si rinunzia alla certezza assoluta, si devono seguire le verosimiglianze, le probabilità; poichè si rinunzia alla metafisica, conviene che la fisica sia interrogata. Ora la verosimiglianza, la probabilità, l'esperienza ci rifiutano ogni dato per risalire dall'ordine al Dio invisibile che governa la macchina dell'universo. Tra il fatto e l'induzione v'ha una distanza indefinita, senza che una traccia qualsiasi ci guidi nell'attribuire i diversi modi della natura a un essere vivente. Che più? Il fatto stesso dell'ordine universale è gratuitamente asserito. Dove prendiamo noi l'idea dell'ordine? In noi. Noi trasformiamo le cose per subordinarle ad uno scopo nostro, le sotto-mettiamo ai nostri pensieri, alle nostre intenzioni; e se il corso delle cose obbedisce alla nostra volontà, allora lo dichiariamo ordinato. V'ha l'ordine nell'esercito quando ogni cosa è disposta per la vittoria; vi ha l'ordine nello Stato quando ogni forza concorre al ben essere generale. Possiamo noi trasportare l'idea dell'ordine fuori di noi? Possiamo noi applicarla ai fiumi, al sole, alle cose della natura? Ogni essere è desso predestinato a sostenere una parte nella creazione? Qual'è la parte de' leoni, de' serpenti, delle rondini? Tutto è mistero. Fuori di noi ogni cosa diventa a vicenda scopo e mezzo. L'acqua del mare sembra evaporarsi per nutrire la vegetazione della terra; il vapore sembra non aver altro scopo, che di condensarsi per cadere in pioggia e scorrere pei fiumi al mare. La terra è dessa fatta per l'uomo, o l'uomo per la terra? L'animale deve essere sacrificato all'uomo, o l'uomo all'animale? L'ordine e il disordine appaiono, spariscono, si alternano a vicenda negli stessi oggetti secondo la nostra maniera di vedere; Interroghiamo l'insieme della creazione. La serie delle cause e degli effetti che si svolge dinanzi a noi presenta il triplice aspetto contraddittorio del progresso, del regresso e del circolo. Da un lato sembra che tutto sia in progresso; la vita esce dalla morte, lotta contro l'inerzia mortale della materia, toglie al riposo le cose inanimate, le trascina nel suo movimento, e pare che ogni atomo di polve attenda il giorno della sua risurrezione; pare che le creazioni succedendosi si affinino. Dall'altro lato, sembra che la natura declini, la terra si raffreddi, il sole si spenga, la vita cessi; l'inerzia, l'immobilità, il riposo della morte appaiono come lo scopo, al quale tendono tutti gli esseri dell'universo. Per una terza apparenza la natura si presenta sottoposta alla cieca fatalità di un moto circolare. I pianeti girano intorno al sole senza stancarsi, il corso delle stagioni è periodico; gli esseri animati passano dalla veglia al sonno, dall'azione al riposo, dalla vita alla morte; e ogni oggetto posto tra il diventare ed il perire, trovasi disposto in modo di aggirarsi in circolo eterno. Qual'è dunque l'intenzione della natura? Quale è lo scopo dell'universo? Ignorasi compiutamente; ignorasi dunque tanto l'ordine, come il disordine dell'universo. La rozza analogia che passa dall'opera all'autore dell'opera, lungi dall'innalzarci a Dio, c'induce a supporre la pluralità degli Dei. La natura non è dessa multipla nelle sue opere? Le intenzioni che presiedono alle diverse regioni della vita e del moto, non sono forse opposte le une alle altre? Non havvi forse la guerra tra le razze viventi? E la guerra non si riproduce forse tra gli elementi? La discordia non è forse nel fondo di ogni cosa? No, uno stesso Dio non potrebbe essere autore dell'ordine e del disordine, della vita e della morte, della luce e delle tenebre; la prova di Dio per l'ordine non è che la prova dell'antico politeismo. Il padre Kirker annoverava seimila prove della divinità, scoprendo seimila volte l'ordine nei diversi oggetti della natura; la ammetteremo, ma esigendo che vi siano seimila Dei o trentamila, secondo l'autorità più antica di Varrone. E fosse pure unico l'ordine dell'universo, fosse subordinato ad un pensiero unico e noto, perchè non sarebbe esso il risultato della collaborazione delle seimila o trentamila divinità? Molti autori possono comporre un dramma, molti architetti possono tracciare il disegno di un palazzo, alcune centinaia di dottori e di vescovi riuniti in un concilio possono formare una religione unica; perchè un concilio olimpico non avrebbe potuto presiedere alla costruzione dell'universo? Se si parla seguendo l'analogia dell'opera e dell'operaio, della cosa e del suo fattore, nessuno potrà contestare l'esattezza della mia induzione. Non basta: voglio che gli Dei siano materiali per agire sulla materia; voglio che mangino, che bevano, che dormano, che si combattano; perchè no? l'analogia dell'opera e del suo operaio lo vuole. Eccoci in piena mitologia. Se s'innalza una statua per la dea del matrimonio, un'altra per la Venere eslege, io ne domando una terza per la filosofia prezzolata: è dessa un'opera e suppone il suo autore. Che gli uomini del mondo primitivo abbiano attribuito le opere visibili della terra a' genii invisibili del cielo, che abbiano spiegata la guerra degli esseri con una guerra supposta tra gli Dei, figli stessi della discordia elementare, l'errore era naturale, l'analogia legittima; sanzionata dall'ignara esperienza di que' tempi senza dubbi e senza pretensioni intorno alla consistenza logica delle cose. Il Dio moderno vuol vinta la logica, vuol essere assoluto; volete fondarlo sull'idea dell'ordine? Voi fonderete l'assoluto sopra un ordine che si riduce ad una congettura, sopra un ordine di cui ignorate il primo pensiero; l'ordine dipenderà dalla vostra maniera di vedere, potrete intervertirlo cambiando il punto di vista, potrete fargli subire tutte le interversioni che subisce l'idea della perfezione, e il Dio dell'ordine sarà l'idolo iperbolico della vostra imaginazione. Si tenta di avvalorare questa prova si misera dell'ordine dell'universo, sviluppandola come la conseguenza della dimostrazione dell'esistenza di Dio per mezzo delle cause. Si confessa che lo spettacolo della natura attesta piuttosto la pluralità degli Dei, che la esistenza di un solo Dio; ma si spera che, in forza della dimostrazione che prova l'unità di una causa infinita, debbasi stabilire l'unità di un Dio autore dell'ordine universale. Il tentativo è inutile. Noi lo ripetiamo, le due dimostrazioni sono distintissime, quella delle cause valuta l'esistenza dell'universo; le basta che il mondo sia, per supporre una causa infinita. La prova che risale dall'ordine della natura all'esistenza di Dio, guarda all'ordine, e suppone un Dio potentissimo e non infinito; suppone gli Dei e in nessun modo un Dio. Ora raccogliete i risultati delle due dimostrazioni; avrete, da una parte, un essere infinito, dall'altra gli Dei viventi e finiti; da un parte avrete l'essere indeterminato eguale al nulla, il Brama degli Indiani, a cui non si dirige alcuna preghiera e di cui è impossibile di parlare; dall'altra parte troverete gli Dei della religione, la Trimurti, il politeismo, l'incarnazione. La lotta tra Dio e la natura trovasi così trasportata in cielo; lungi dall'avvalorarsi a vicenda le due prove per le cause e per l'ordine, si distruggono mutuamente, organizzando nel mondo invisibile la lotta tra un sol essere inalterabile e la pluralità degli Dei. Concludiamo; dalla sua origine la filosofia si mise in traccia di un Dio per togliersi alla contraddizione universale, ma tutti i suoi sforzi concentrati in tre grandi prove non hanno fatto che spostare le contraddizioni. La dimostrazione più antica e più popolare, che inganna i teologi coll'ordine della natura, non giunge nemmeno ad afferrare l'idea di Dio, e si perde in mezzo ai genii del paganesimo. La seconda prova che invoca un Dio infinito per isfuggire all'assurdità di una serie infinita di cause finite, si trova sempre al suo punto di partenza, sempre nella lotta del finito e dell'infinito. La prova più dotta accolta da Descartes e da Leibniz, si risolve in un doppio equivoco sull'idea dell'esistenza e su quella della perfezione. Da ultimo, Dio si svolge fatalmente ne' suoi attributi infiniti: e le pompose metafore dell'onniscienza, della giustizia infinita, e della misericordia senza limiti, portano la discordia nel seno dello Eterno, e finiscono per rendere incomprensibile l'opera della teologia.
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