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Giuseppe Ferrari Filosofia della rivoluzione IntraText CT - Lettura del testo |
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Capitolo IX
DIO SOPPRIME IL DOVERE
Le religioni ci rappresentano il destino dell'uomo come un dramma che comincia colla pena del lavoro, e in cui Dio finisce per premiare o per punire: qui, come altrove, il deismo conferma tutte le contraddizioni, esagerandole all'infinito. Dio non poteva imporre una legge senza creare la distinzione del bene e del male; dunque ha creato il male, dunque ha peccato; per malvagità, o per impotenza, poco ci cale; il peccato sarà eterno come Dio; e lo sperare una riparazione o una redenzione sarebbe sperare il bene vedendo il male, o credere che il male possa un giorno conciliarsi col bene, oppure crearlo. Dio, diventando legislatore, deve renderci liberi: dunque ci dà facoltà di ribellarci alla sua legge, di dannarci: e se bisognava un demonio per tentarci, al certo bisognava oltrepassare il genio stesso del male per rendere possibile la vittoria del demonio. Per la libertà, Dio perde una parte della sua previdenza, gli sfuggono le nostre azioni, lascia limitare la sua potenza, e da ultimo pubblica una legislazione a bella posta perchè venga violata. Che se non siamo liberi, se Dio stesso opera nella nostra persona, è Dio che combatte colle nostre armi; i nostri vizi, le nostre virtù, sono i vizi e le sue virtù di Dio, il quale deve solo punire o premiare sè stesso nel dramma che rappresenta sulla terra, seguendo o violando la sua propria legge. Egli è empio nel crearci liberi, empio nel rifiutarci la libertà. Anche ponendo la legge divina e la nostra libertà, il comando di Dio non può obbligarci. Se anche Dio stesso discendesse sulla terra, lo vedessimo co' nostri occhi, ne intendessimo la voce, mancando un principio anteriore d'obbligazione, saremmo sempre liberi di resistere agli ordini suoi. Con qual diritto Dio potrebbe imporci codesti ordini? non trovo questo diritto nella sua potenza, e s'anco fosse infinita non potrebbe creare il diritto: la giustizia consiste appunto nella forza morale per la quale ci opponiamo alle potenze che vogliono incatenarci. Il diritto di Dio non si fonda nemmeno sull'onniscienza. Che importa la superiorità intellettuale dell'autore del mondo? Per comandare vuolsi un titolo, per obbedire, un dovere; nè la scienza è un titolo, nè un dovere l'ignoranza. Non ci corre nemmeno il debito di obbedire a Dio per un motivo di gratitudine. Dio, si dice, ci diede la vita: ma ci consultò egli? Abbiamo noi contratto l'obbligo di obbedire prima di nascere? La riconoscenza potrebbe essere trasformata in dovere giuridico? Molte volte i profeti, maledicendo l'empio dicevano, meglio per lui che non fosse nato. Qual riconoscenza devesi a Dio per aver ricevuto il mal dono di un'esistenza sventurata? Nella presenza di Dio restiamo assolutamente liberi: volendosi obbedito, egli oltrepassa il suo diritto, diventa tiranno; domandandoci omaggio, diventa cupido e vanitoso; sottoponendo il giusto ai patimenti, compiacendosi dell'infortunio de' suoi eletti, sente la gioia di un carnefice improvviso; punendo i ribelli, diventa iniquo; e certamente, se vi ha una legge morale, se ci è dato concepire una lotta dell'uomo contro Dio, non solo la lotta è giusta, ma il delinquente diventa sublime pel coraggio, pel sacrificio, per la fede nel suo diritto. Non a caso la poesia santificava colla magia del bello i Titani che combattevano Giove e le legioni di Lucifero che lottavano contro gli angeli; dal momento che Dio comanda senza diritto, la giustizia s'interverte, il vizio diventa virtù. Abbiamo veduto che la giustizia e la sanzione si escludono vicendevolmente; e in Dio i due termini si escludono con forza infinita. Domandare un sacrifizio, e immediatamente largire una mercede dieci volte, mille volte maggiore, non è atto senza causa e senza moralità? Perchè Dio premia se domanda un sacrifizio? D'altra parte, perchè domanda un sacrifizio se vuol premiare? Intendiamo bene che un governo possa ricompensare; esso onora la virtù senza pagarla, il suo premio non distrugge i pericoli a cui si espone il cittadino; la ricompensa in Dio assolutamente certa non lascia dubbio, annulla il pericolo, sopprime compiutamente il sacrifizio, e lo trasforma in un calcolo interessato, avaro, infallibile, senza generosità, senza moralità. Il premio suppone la pena; come giustificare la pena? Un governo deve punire; costretto a difendersi, deve combattere, atterrire: Dio ha forse bisogno di difendersi, di combattere, atterrire? Vogliam noi che la pena sia una espiazione? Il concetto dell'espiazione è atroce; corrisponde alla vendetta, al male gratuito; si riduce ad una forza spietata e divoratrice, il cui primo principio fa inorridire la ragione. Un Dio vendicatore sarà un demone; un Dio che punisce per atterrire coll'esempio sarà un Dio impotente; in ogni modo, la pena che sanziona una legge arbitraria, altro non sarà che il dolore al servizio dell'ingiustizia: la giustizia di Dio sarà una spaventosa tirannia nell'universo. Egli è dunque palese che sotto l'azione della critica la commedia della vita si dissolve in Dio che non può distinguere il bene dal male, nè dare la libertà all'uomo, nè divenir legislatore, nè ricompensare, nè punire. Non si resiste a tanta assurdità se non col principio della fede; anche per noi la fede sarà l'ultima áncora di salvezza, e siamo lungi del negarne la forza creatrice. La fede santifica, ispira; la sua azione è materialmente innegabile; nella famiglia, nello Stato chi è morto alla fede, è morto all'umanità. Ma dinanzi alla logica la fede si riduce alla facoltà di credere; la credenza segue fatalmente la verità; trovasi determinata dalle cose che sono, dalle leggi dell'intelligenza; noi non siamo mai liberi di credere; il dono della fede non può mai dipendere da noi; tocca al vero a determinarla, a informarla. Dunque esigere la fede, torna lo stesso che esigere di credere quando non si crede; torna lo stesso che ammettere un vero che per noi non è il vero. La fede è dunque la credenza all'incredibile, l'ostinazione che resiste all'evidenza, che giustifica il fanatismo, che combatte per l'errore; e si traduce nell'irragionevolezza che si oppone alla ragione. Contraddittoria nella sua essenza, la fede combatte sè stessa nel momento di attuarsi. Se il cristiano ammira la fede di san Paolo, ammiri altresì la fede pagana; essa aveva bene il diritto di rimproverare all'apostolo ch'ei lasciasse la fede de' suoi padri, e disertasse una religione antica quanto il mondo, rinnegandola per seguire la moda. Dinanzi alla fede pagana san Paolo mancava di fede. Contraddittoria nell'essenza, contraddittoria nell'attuarsi, la fede moltiplica tutte le contraddizioni morali se trasportata nei rapporti fra l'uomo e Dio. Senza fermarci a determinare quali possano essere i suoi precetti o i suoi articoli, egli è certo che essa non si manifesta che per oltrepassare l'evidenza. Se Dio, se il cielo, se l'inferno fossero posti innanzi a noi, se potessimo vedere cogli occhi, toccare colle mani, la potenza di Dio, il premio del cielo, le pene dell'inferno, il pensiero di resistere alla legge divina sarebbe sì assurdo, che nessun essere, angelo, uomo o demonio, non vorrebbe mai peccare. La fede sarebbe inutile: la sua missione non comincia che là dove l'evidenza scompare, là dove l'incertezza ci preme. La fede suppone che il cielo e l'inferno non sono certi; che la forza morale identificata con Dio, non è sicura, nè evidente; la fede suppone che il dubbio signoreggi il dramma della vita; in ultima analisi, la fede suppone che Dio abbia steso sull'universo un velo, che abbia voluto farsi indovinare dall'uomo. Qui Dio diventa un legislatore capzioso e feroce; illumina ed inganna; vuol essere obbedito, e ci angustia col dubbio, ci sospende tra il cielo e la terra, si fa giuoco del nostro credere, della nostra certezza; vera sfinge, propone il mistero della eternità, e precipita nel Tartaro i miseri che non possono penetrarlo. Qui, per un'ultima volta, la resistenza a Dio diviene legittima ed eroica diviene la resistenza di Edipo, la lotta dell'uomo che svelle l'ultimo arcano a un Dio sorto dall'inferno per ricacciarlo negli abissi del nulla. Sogliono i moralisti innalzarsi a Dio perchè l'obbligazione morale non trova principio nel mondo; invocano la teodicea per incoronare la morale; tanto varrebbe compiere la teoria morale coll'apologia del vizio. Riassumiamo: il nostro destino si sviluppa pei due termini del sacrifizio e della felicità; sotto l'impero della logica, i due termini, sempre distinti, sempre opposti, ci fanno impossibile la scelta. Si vuole forse obbligarci al sacrifizio in nome del sentimento, della libertà, del vero? l'utile resiste: cerchiamo spiegare il dovere coll'utile? Ci sentiamo migliori del nostro egoismo. La contraddizione tra l'utile ed il giusto si riproduce tra la sanzione e la legge; e se s'invoca Dio, s'impone un tiranno all'universo, l'empio è santificato.
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