Poichè la
carità del natìo loco
mi strinse, raunai le fronde
sparte...
(DANTE,
Inf. XIV).
Uno dei fatti più notevoli al
principio del decimosesto secolo è senza dubbio l'apparire della cortigiana;
figura degna di considerazione e di esame non ebbe pur anco uno storico che di
lei si occupasse scrupolosamente e gelosamente, e, diseppellendo dalle
biblioteche ed archivii i numerosi documenti che la riguardano, dasse compiuta
questa pagina di storia che non è tra le ultime del nostro rinascimento. Il
nome di cortigiana si collega certamente alla storia dell'umanesimo, ma
quando, dove e come ebbe principio? Tale quesito non ha ancora risposta sicura.
Arturo Graf1, che si occupò ultimo della questione con quell'acume di
critica ed abbondanza di erudizione ben note, esita a dare giudizio decisivo,
attendendo pur lui che nuovi studî e documenti traccino via più ampia e sicura
per definire tale punto.
Lo sviluppo della cortigiana
prodotto dalla rivoluzione sociale che si svolgeva nel rinascimento, adattato
al nuovo regime di vita che rese allora meno dure e servili le leggi sul
costume, viene certamente a smentire l'asserzione che il cinquecento fosse l'età
più feconda di turpi vizii, e l'amor patico, nato nelle epoche di maggior
coltura e diffuso su larga scala nel medio evo, trova a combatterlo questo
sviluppo della cortigianeria e le leggi civili di quasi tutti gli stati
italiani, mentre dal pergamo tuona aspra e minacciosa la voce di
S.Bernardino2 e del Savonarola3; l'Ariosto stesso che non ne fu
immune dichiara che nel 1518 il vizio si restringeva a pochi umanisti. Ed
allora si disputa sulla teorica dell'amore che ha forti e strenui campioni;
dell'amore libero tra liberi discorre Speron Speroni nel Dialogo d'amore
ove introduce a parlare la Tullia d'Aragona e Bernardo Tasso, innamorati, e
costretti a separarsi dovendo quest'ultimo andare a Salerno; dell'amor
platonico, primi il Bembo e il Castiglione, il Piccolomini poi, che lo
definisce «un desiderio di possedere con perfetta unione l'animo bello della
cosa amata4» contrastando all'amore che anela il solo possesso del
corpo. All'amore assolutamente libero, per il quale era inutile insistere dopo
il lavorìo dell'Aretino, sono infirmate quasi tutte le liriche di cortigiane
del cinquecento; rispecchiano quelle l'ambiente nel quale furono create, queste
la cortigianeria nei luoghi ove la coltura era più vasta e diffusa: dalla corte
pontificia a quella dei Medici, da Venezia a Siena.
Il rinascimento, rotti gli argini che
opponevansi nel medio evo alla coltura della donna, condusse a due estremi
sostanzialmente diversi che si disputarono il campo per quasi tutto il secolo
decimosesto: la coltura seria e positiva da un lato, la licenza dall'altro:
prodotta quest'ultima da male intesa libertà, condusse poi per inevitabile
antitesi all'educazione claustrale. Di tale antitesi tramandarono documenti il
Castiglione e il Garzoni; il primo, attribuendo al Bembo la dichiarazione
poetica dell'amore e trasportando il lettore nella Corte di Urbino, ove le
lettere e le arti erano tradizione, appalesa per bocca di Giuliano de' Medici,
la cui consorte Filiberta fu cantata modello di femminili virtù, che «la
coltura della donna deve rassomigliare a quella dell'uomo, cui ella è pari. Nei
diversi rami della scienza e dell'arte essa deve possedere la conoscenza
necessaria per parlarne con intelligenza e con senno anche quando queste non
sono professate. La donna deve essere versata in letteratura, aver conoscenza
di belle arti, essere esperta nella danza e nell'arte del vestire, saper
evitare non meno ciò da cui si può supporre vanità e leggerezza, che quanto
palesa mancanza di gusto. Il suo conversare, serio e faceto, dev'essere adatto
alla convenienza de' casi, essa non deve mai parlare ad alta voce e con
iscostumatezza, nè con malizia ed in modo da offendere, deve
corrispon[spon]dere alla sua condizione con modestia e con modi convenienti, a
cui è obbligata, verso quelli che costituiscono abitualmente la sua compagnia.
Nel suo presentarsi e nel contegno sia aggraziata senz'affettazione. Le sue
qualità morali, l'onestà e le virtù domestiche devono essere d'accordo con le
intellettuali. Debb'esser casta, ma cortese: arguta ma discreta; ad ogni parola
libera non dee fare un volto troppo severo. Sappia governar la casa e la
sostanza e guidar l'educazione de' figliuoli. Non tenti d'imitar l'uomo negli
esercizi del corpo, che a lui sono adatti ed a lui si richieggono. In tutto il
suo essere, nel portamento, nell'andare e stare, nel parlare, mostri grazia,
dolcezza femminile e non rassomigli all'uomo». E questi ammaestramenti
seguirono donne d'illustre casata, quali Eleonora d'Aragona, Isabella d'Este,
Ippolita Sforza, Elisabetta Gonzaga, e delle città ove l'elemento borghese
ottenne spesso la supremazia ed il potere, resta il ricordo di Antonia Di Pulci
e Lorenza Tornabuoni.
L'ambiente elevato e colto nel quale
visse la cortigiana nel cinquecento non poteva non influire su di essa e
spingerla a gareggiare con le donne oneste, spesso coltissime; troviamo infatti
in tutte le nostre storie letterarie, vicino ai nomi di quelle due grandi che
furono Vittoria Colonna e Veronica Gambara, due cortigiane: Veronica Franco e Tullia
d'Aragona; e se tra loro molto lungi per costumi, non certo per meriti
letterarii. Data questa coltura nella donna onesta doveva alla cortigiana
richiedersi necessariamente di esserle pari se non superiore, avere vivace
ingegno, voce bella e gradita, essere esperta nel suono e nella danza, maestra
insomma in tutte quelle arti che, bramate o volute, erano poi, strano a
considerarsi, altamente biasimate da uomini come l'Aretino e il Garzoni, che
definiscono tali doti atte solo a sedurre ed attrarre. «Onde pensi che nascano
i canti, i suoni, i balli, i giuochi, le feste, le vegghie, i concerti, i
diporti loro, se non da quell'intento di aver l'applauso, il commercio, il
concorso della turba infelice di questi amanti, che rapiti da quelle voci
angeliche e soprane, attratte da quei suoni divini di arpicordi e lauti,
impazziti in quei moti e in quei giri loro tanto attrattivi, consumati in quei
giuochi sfarzevoli, rilegrati in quelle feste giulive, addormentati in quelle
vegghie pellegrine, immersi in quei conviti di Venere, di Bacco, morti nel
mezzo di quei soavi diporti, restino prigioni e servi del lor fallace ed
insidioso amore?5» E dacchè siamo col Garzoni, che lasciò della
cortigianeria la migliore delle testimonianze, non possiamo esimerci dal citare
un altro particolare degno di nota che egli ci offre e riguarda il mezzano,
che, dovendo esser in tutto degno della cortigiana che l'aveva prescelto, serve
a gettare luce in quell'ambiente triste e tuttora oscuro. «Imita il grammatico
nel scrivere le lettere amorose tanto ben messe, e tanto ben apuntate che
rendono stupore, nel dettar politamente, nel spiegar galantemente,
nell'esprimer secretamente il suo pensiero... appare un poeta nel descrivere i
casi acerbi con pietà di parole, i fatti allegri con giubilo di cuore... porta
seco i sonetti del Petrarca, le rime del Cieco d'Ascoli, l'Arcadia del
Sannazaro, i madrigali del Parabosco, il Furioso, l'Amadigi,
l'Anguillara, il Dolce, il Tasso, e sopra tutto i strambotti d'Olimpo da
Sassoferrato, come più facili, sono i suoi divoti per ogni occasione... Si reca
dietro qualche sonetto in seno, un madrigale in mano, una sestina galante, una
canzone polita, con un verso sonoro, con uno stil grave, con parlar fecondo,
con tropi eleganti, con figure eloquenti, con parole terse, con un dir limato,
che par che il Bembo, o il Caro, o il Veniero, o il Gorellini l'abbiano fatto
allora allora; e si mostra alla diva con lettere d'oro, con caratteri preziosi;
si legge con dolcezza, si pronunzia con soavità, si dichiara con modo, si
scopre l'intenzione, si manifesta il senso, e si palesa il fine del poeta...
Con la musica diletta sovente le orecchie delle giovani, mollifica l'animo
d'ogni lascivia, ruina i costumi, disperde l'onestà, infiamma l'alma di cocente
amore, incende i spiriti di concupiscenza carnale; mentre si cantan lamenti,
disperazioni, frottole, stanze e terzetti, canzoni, villanelle, barzellette, e
si tocca la cetra, o il lauto, a una battaglia amorosa, a una bergamasca
gentile, a una fiorentina garbata, a una gagliarda polita, a una moresca
graziosa, e pian piano s'invita ai balli e alle danze, dove i tatti vanno in
volta, i baci si fanno avanti le parole scerete...6». Questo
procuratore di amore non è egli un tipo abbastanza curioso e interessante?
La cortigiana apparisce in
Roma alcuni anni prima del 15007 e come tale è ufficialmente, se così è
lecito dire, riconosciuta in documenti autentici della curia papale. In un
censimento8 compilato d'ordine della suprema autorità di Roma, redatto
certamente nel settennio corso dal 1511 al 1518, ove trovansi numerate case,
botteghe, proprietari ed inquilini, e di tutti o quasi tutti si nota la patria,
condizione ed arte, le cortigiane sono notate in numero esorbitante,
spagnuole e veneziane in massima parte, e distinte in cortesane honeste,
cortesane putane, cortesane da candella, da lume, e de la minor sorte. Una
sola volta, e forse senza alcuna malizia, il compilatore della statistica
dimentica l'aridità del suo lavoro e nota: «La casa di Leonardo Bertini habita
Madonna Smeralda cura 3 figlie piacevoli cortegiane».
Il tipo dell'elegante cortigiana,
dell'Aspasia del cinquecento, è l'Imperia, morta in Roma nel 1511 a soli
ventisei anni,9 ricordata egualmente con ardore da storici e romanzieri,
amata da Angelo del Bufalo e da Agostino Chigi il famoso banchiere10:
celebrata da poeti e letterati, e presso la quale adunavasi il fiore della
romana aristocrazia e convenivano uomini quali il Sadoleto, il Campani, il
Colocci. Ebbe per maestro Domenico Campana detto Strascino. Di altre citansi le
doti singolari: «Lucrezia Porzia, dice l'Aretino, pare un Tullio, e sa tutto il
Petrarca e il Boccaccio a memoria ed infiniti e bei versi di Virgilio, d'Orazio
e d'Ovidio e di molti altri autori11»: la Squarcina conosceva benissimo
il greco: la Nicolosa leggeva i salmi in ebraico, e molte ancora che sarebbe
ozioso il ricordare.
Malgrado tutto ciò la cortigiana del
cinquecento era pur sempre quella del medio evo: tolta dall'ambiente che
l'avvinceva, costringendola a piegarsi al rinascimento classico, rimaneva di
essa la donna nella quale si alternavano tutti quei bassi sentimenti che erano
diretta conseguenza della vita che conduceva. Però qualche barlume di affetto
vero, potente, trovasi pur nella storia della cortigianeria: il Molza ed il
Bandello non erano alieni dal credere che la cortigiana potesse veramente
amare, noi, più scettici, crediamo con riserva a questo amore che poteva esser
cagionato da interessi troppo palesi e reali, dubitiamo che la cortigiana
avesse il cuore al di sopra della ragione, mentre accettiamo senza dubbio
alcuno il fatto che nella prostituta di più bassa specie si rinvenisse l'amore
nelle più forti sue manifestazioni. È questo un fatto che si ripete
continuamente anche ai nostri giorni, e se discutibile dal lato psicologico,
non cessa per questo di essere men vero. Ricordasi l'Aragona innamorata del
Varchi e del Manelli: Camilla pisana dello Strozzi; Marietta Mirtilla del
Brocardo, ed una certa Medea che in morte di Ludovico dell'Armi veniva
consolata per lettera dall'Aretino; ma vogliamo proprio credere sul serio
all'amore ispirato alla cortigiana da letterati? Questi erano allora come
adesso, e come forse disgraziatamente lo saranno sempre, più ricchi d'ingegno,
di madrigali, di epistole che di quattrini, esaltavano le cortigiane,
dedicavano loro libri e capitoli e col sacrificio dell'amor proprio
ricambiavano i favori lor concessi: Antonio Brocardo scrisse un'orazione in
lode loro, il Muzio, il Tasso, il Varchi esaltarono l'Aragona: il Molza,
Beatrice spagnola: Michelangelo Buonarroti, Faustina Mancina: Niccolò Martelli
l'onorata madonna Salterella; e le cortigiane si abbarbicavano a questi
letterati perchè da essi dipendeva in massima parte la rinomanza loro12.
La Tullia d'Aragona è quella che nelle sue rime lascia maggiormente scorgere
l'influenza dei letterati, sino a dubitare che alcune di esse siano opera del
Varchi stesso, e dà in pari tempo la figura spiccata della strisciante
cortigianeria che avviluppava anche allora i più minuscoli principi. L'antitesi
è in Veronica Franco della quale daremo in breve le rime, divenute di
meravigliosa rarità, desiderio ardente e inappagato di bibliofili senza numero,
orgoglio di alcuni pochissimi più venturati13: essa è l'incarnazione
della donna libera del cinquecento ed è l'unica che canti liberamente i suoi
amori: non s'informa a platonismo o castità irrisori, ama per amare e
soddisfare i sensi, e i suoi liberi amplessi, dice il buon P. Giovanni degli
Agostini «con tal'arte seppe dipingerli e con tal frase adornarli che servono
agl'incauti di vigoroso solletico alla concupiscenza14». Tale non può
essere oggi il parere di coloro che si occupano seriamente della nostra
letteratura: ogni pagina, bella o brutta, sana o impura, che venga a chiarire
la nostra rinascenza, non è che contributo a lavoro maggiore, e come tale spero
vorrà essere accolta questa mia debole fatica.
*
* *
Della Tullia d'Aragona parecchi si
occuparono, in questi ultimi tempi: forse ne parlerà ancora il Bongi nel
seguito de' suoi Annali del Giolito de' Ferrari, editi dal Ministero
della Pubblica Istruzione; certamente poi il Biagi in altra edizione di un suo
scritto apparso nella Nuova Antologia del 1886; ma stimo che la
biografia della poetessa poco abbia più da offrire a così insistenti e dotti
ricercatori, perchè la sua vita è quasi tutta delineata, e molto nettamente per
l'epoca nella quale visse e la vita nomade che ebbe a condurre. In ogni modo
augurando sempre nuova luce, basta al mio assunto ritrarre in poche linee la
vita della Tullia, servendomi anche di documenti finora non messi a profitto
dai due egregi scrittori.
Il Crescimbeni15, il
Quadrio16, il Mazzuchelli17, il Tafurri18, e ultimo
ancora Pietro Vigo19 credettero la Tullia napolitana; lo
Zilioli20 seguito dal Canestrini21 e dal Labruzzi22 la
dissero romana a ciò confortati, prima che altre testimonianze venissero a
luce, dalle precise dichiarazioni che Girolamo Muzio fa nell'egloga Tirrenia
a lei dedicata23. Infatti la Tullia nacque in Roma da Giulia Campana
ferrarese24 e dal cardinale Luigi d'Aragona25. L'anno di sua
nascita è ignoto: il Labruzzi e poi il Biagi26 considerando che nel
1519 il padre di lei era già morto e che nel 1527 ella era già nota nel mondo
galante, pongono la nascita circa il 1505, basando anche tale congettura sulla
novella VII degli Ecatommiti di Giovanni Battista Giraldi. Sta infatti
che il Giraldi finge sia raccontata la novella di Nana e Saulo nel 1527 al
tempo del sacco di Roma, ma vuolsi proprio accettare quella data senza dubbio
alcuno e su di essa basare deduzioni storiche, quando nella stessa opera
rinvengonsi altri episodi che forse non reggerebbero ad una severa critica e
sono falsati nelle date come quelli di Celio Calcagnini e del Giovio? Non
potrebbe il Giraldi aver fatto risalire la partenza della Tullia al 1527 per
acconciarvi quella pur strana e sudicia novella, scritta molti e molti anni dopo
il sacco di Roma e che vide la luce, se non erriamo, solo nel 1565? A noi il
Giraldi non prova nulla; più fiduciosi in un passo dei Ragionamenti
dell'Aretino che rivelano come l'anno 1519 la Giulia ferrarese partisse da Roma
per Siena con la sua picciola figliuola, siamo stimolati a credere
essere la Tullia nata sullo scorcio del primo decennio del decimosesto secolo.
Della giovinezza della nostra
poetessa poche notizie giunsero sino a noi; forse visse in Firenze circa il
1517 e 151827, indi a Siena, ove «imparò a parlare sanese» poi «vedendo
la madre che costei haveva di virtù principio grande considerò che Roma è terra
da donne, e massime che ella sapea l'usanza della corte e così l'ha fatta
cortigiana28». E questo principio grande di virtù era infatti
posseduto dalla Tullia, alla quale gli agî procuratile dal cardinale d'Aragona
avevano permesso di addestrarsi in tutte le arti della seduzione, vivendo tra
le delizie e le comodità d'una onorata fortuna che l'amorevolezza del padre le
aveva lasciata tendendo agli studi nei quali fece tanto profitto che non senza
stupore degli uomini dotti fu sentita in età ancor fanciullesca disputare e
scrivere nel latino e nell'italiano cose degne di ogni maggior letterato, onde
arrivando al fine dell'età e accompagnando alla sapienza e virtù sua
un'isquisita delicatezza di maniere e di costumi, si acquistò il nome di
compitissima sopra ogni altra donna del tempo suo. Compariva con tanta
leggiadria in pubblico e con tanta venustà ed affabilità d'aspetto che aggiungendovisi
la pompa e l'adornamento degli abiti lascivi, pareva non potersi ritrovare cosa
nè più gentile nè più polita di lei. Toccava gli strumenti musicali con
dolcezza tale e maneggiava la voce cantando così soavemente che i primi
professori degli esercizi ne restavano meravigliati. Parlava con grazia ed
eloquenza rarissime, sì che o scherzando o trattando davvero, allettava e
rapiva a sè, come un'altra Cleopatra, gli animi degli ascoltanti e non
mancavano sul volto suo sempre vago e sempre giocondo quelle grazie maggiori
che in un bel viso per lusingar gli occhi degli uomini sensevoli sogliono
essere desiderate29.
La Tullia tornata in Roma certamente
poco dopo la morte del padre vi rimase, secondo ogni probabilità, e magari
contro il malevolo Giraldi, sino al 1531, e in questo stesso anno si recò a
Ferrara ove conobbe Girolamo Muzio. L'autore degli Ecatommiti dà alla
partenza da Roma della Tullia, una ragione abbastanza disonorevole. Egli narra,
come convenendo in casa dell'Aragona parecchi giovani romani, uno di questi,
che chiama Saulo, invaghitosene al sommo, molto spendesse e si adoperasse
perchè a lei nulla venisse a mancare delle agiatezze nelle quali era cresciuta.
Dimorava nella stessa epoca in Roma un tedesco, detto Gianni, uomo ricchissimo,
ma così sudicio e pieno di lordura che faceva nausea a solo vederlo; costui
innamorato della Tullia, tanto insistette che ottenne di essere compiaciuto di
lei per una settimana di seguito al prezzo di cento scudi per notte. La Tullia
acconsentì; non resse però che una sola notte tanto era il puzzo che esalava
quel ricco tedesco. Risaputosi ciò da Saulo e da' suoi amici, ne furono
sdegnati, e mai più vollero metter piede in casa dell'Aragona; talchè ella
vedendosi disprezzata e sfuggita, se ne partì da Roma. Il Tiraboschi cita una
satira di Pasquino contro di lei30, dalla quale parrebbe che si fosse
diretta a Bologna, ma se veramente vi andasse, e certo dopo il 1531, non si
conosce, come del pari rimase sinora ignota la satira summentovata.
Che l'Aragona fosse in Roma nell'anno
suddetto è chiaramente provato da una lettera che Francesco Vettori scriveva da
Firenze a Filippo Strozzi li 14 Febbraio 1531. Questi chiamato in Roma da
Clemente VII sotto pretesto di rivedere alcuni conti, ma in realtà per aiutarlo
a introdurre in Firenze «un governo o vogliamo chiamarlo stato, nel quale i
magistrati della città governino in nome suo, in fatti il Duca governò in
tutto,31» scriveva al Vettori richiamandolo di aiuto e consiglio; e
questi rispondendo conchiudeva: «E perchè mi scrivete con la Tullia accanto,
non vorrei la leggessi similmente con essa accanto, perchè amandola voi come
femmina che ha spirito, perchè per bellezza non lo merita, non vorrei mi
potesse nuocere con qualcuno di quelli ch'io nomino. Io non sono per ammonire
Filippo Strozzi, ancorachè, se le ammonizioni ricorregghino, non avete aver per
male essere ammonito, ma ho inteso di non so che cartelli e di sfide andate a
torno che mi hanno dato fastidio pensando che un par vostro, uomo di 43 anni,
voglia combattere per una femmina, e benchè io creda sareste così atto all'arme
come siete alle lettere ed a ogni altra cosa dove ponete la fantasia, non
vorrei di presente vi metteste a questo pericolo di voler combattere per causa
tanto leggiera; e vi ricordo che degli uomini come voi ne nascono pochi per
secolo; e questo non dico per adulazione. Assettate le faccende vostre e poi
tornate a rivederci». Pare che il consiglio del Vettori riuscisse caro e
salutare allo Strozzi: in un cartello di sfida che conservasi in un codice
Rinucciniano, ed è di quell'anno stesso in vano si cercherebbe il suo nome tra
i sei campioni della Tullia32.
Partita da Roma, la Tullia si recò
certamente a Ferrara, ed ivi reduce di Francia capitava poco dopo il Muzio; nel
1535 era a Venezia ove nacque la sorella Penelope33, e nel 1537
nuovamente a Ferrara seguendo di pochi giorni l'arrivo in questa città della
marchesa di Pescara. Conobbe certamente allora il sanese Bernardo Ochino che
appunto nella quaresima avea predicato ivi con mirabile fervore, e gli diresse
il sonetto XXXV trattandolo poco cortesemente, e chiamandolo arrogante, perchè
avea dal pergamo fulminato «le finte apparenze, e il ballo, e il suono», dono
fatto da Dio agli uomini «ne la primiera stanza». Nello stesso anno le accadde
una strana avventura, narrata da un Apollo novellista alla marchesa Isabella
d'Este con lettera dei 13 giugno34, e tale avventura servì mirabilmente
per porla in buona vista, formare quella reputazione di onesta che la fama e le
pasquinate avevano molto deteriorata, radunarle intorno un'eletta schiera di
poeti e gentiluomini che adulandola, corteggiandola, facessero dimenticare il
suo passato poco onorevole per riconoscere solo in lei la poetessa, la letterata,
la discendente di sangue reale: e riuscì in massima parte; il Muzio e il
Bentivoglio le profusero lodi e adulazioni in rima e in prosa, e la Tullia era
posta al di sopra di Vittoria Colonna. Ancora una volta la cortigiana
trionfava.
Da Ferrara la Tullia ritornò forse a
Venezia, almeno così il Dialogo dello Speroni fa credere; poi a Siena
ove si accasò nel 154335. I documenti senesi che riguardano la Tullia
dànno a conoscere una circostanza abbastanza seria per non essere lasciata
senza esame e cioè che ella era, legalmente almeno, figlia di Costanzo Palmieri
d'Aragona; ed infatti nell'atto di matrimonio è detta Tullia Palmeria de
Aragonia, ed in altro documento ancor più chiaramente «Filia quondam
Constantii de Palmeriis de Aragona». In base a tali documenti, eliminando
del tutto l'ipotesi che ella fosse stata adottata da un Palmieri, conviene
credere ad un matrimonio della Giulia Ferrarese, al quale non possiamo dare,
neppure per approssimazione, una data qualsiasi. L'Aretino, il Domenichi, il Franco
che citano la Giulia e ne parlano spesso diffusamente, mentre dànno particolari
su altri amanti tacciono affatto di tale matrimonio; neppure un barlume ne
apparisce nelle rime della Tullia e nelle lettere che di lei ci pervennero;
parlando della propria famiglia dice mia madre, mia sorella, ed io; tace
il Muzio, che, pur dando la paternità del cardinale d'Aragona alla Tullia,
nulla impediva potesse parlarne nell'egloga dedicata alla Penelope nata molti
anni dopo; ne tacciono assolutamente tutti i biografi. Ed apparisce del pari
per la prima volta, almeno così ci consta, una casata Palmieri che abbia
aggiunto il nome d'Aragona al proprio; rimangono tracce dei
Piccolomini-Aragona, dei Tagliavia-Aragonia, dei de Aragonia, romani, ma
nessuna dei Palmieri-Aragona. Questa casata non viene poi più a luce nè sulla
tomba della Penelope che porta solo il nome di Aragona, nè nel testamento della
Tullia ove non sono più mentovati nè padre, nè madre, nè marito. Una volta
ancora, innanzi all'arida autenticità dei documenti, si oppone la tradizione,
ferma, costante; essa vuole la Tullia figlia del cardinale d'Aragona e nel
fatto nulla varrà a scemarla. Su questo padre più o meno putativo, che
apparisce quasi per sua disgrazia, molte sarebbero le supposizioni a farsi; era
forse un familiare del cardinale d'Aragona che acconsentì a sposare la Giulia
Campana a prezzo d'oro, o qualche vanitoso che a scapito del suo amor proprio
con l'acquisto della Tullia aggiunse al suo il casato degli Aragonesi? in ogni
modo è assolutamente da escludere che quel de Aragonia stia lì per
fissaril luogo natio di quel buon Palmieri. Non ci peritiamo rispondere a
quesìti così ardui ed anche inutili; bastano per noi tutte le testimonianze dei
contemporanei a stabilite che la poetessa fu, pure illegittimamente, del sangue
d'Aragona.
Sembra che in Siena ella fosse
perseguita da malevoli che l'accusarono agli Esecutori Generali di Gabella di
vestire e portare ornamenti vietati alle meretrici dagli statuti del Comune; fu
agitato per ciò un processo nel febbraio del 1544, dal quale constando la vita
onesta e morigerata della Tullia, le fu permesso di vestire ed abitare al pari
di altre persone nobili ed oneste36. Non cessò per questo la malevolenza contro la Tullia e
nell'agosto dello stesso anno37 fu ancora denunciata per aver portato
la sbernia il giorno di Pasqua, e tra i denunziatori apparisce Ottaviano Tondi,
novesco, causa di torbidi in Siena per avere ucciso uno di parte
popolare38, e che la Tullia pianse morto un anno appresso in un sonetto
diretto al fratello Emilio39. Certo ella ignorava il servizio che il
buon novesco aveva tentato di renderle.
Sullo scorcio del 1545 la Tullia se
ne venne a Firenze ove contrasse stretta amicizia col Varchi, col Martelli e
parecchi altri, dei quali ci rimasero testimonianze nelle rime e nelle lettere
di lui edite dal Biagi e dal Bongi40. E qui ancora doveva essere
perseguitata dalle severe leggi sui costumi e sugli ornamenti et habiti
degli huomini e delle donne. Il 19 ottobre 1546 il Duca Cosimo promulgava
una di quelle leggi41, ma la Tullia che credeva oramai per la fama di
poetessa di non essere più compresa nel ruolo delle cortigiane, non se ne diè
per intesa, sin che nell'aprile dell'anno appresso fu invitata dal Magistrato
ad ottemperare alla legge mettendo sul vestito qual cosa di giallo che
doveva servire a distinguerla dalle oneste gentildonne. La Tullia ricorse a D.
Pietro di Toledo nipote della duchessa Eleonora, che la consigliò presentare
alla Duchessa una supplica unita ai sonetti a lei scritti da illustri
letterati, a significare l'errore del magistrato di giustizia nell'annoverarla
tra le cortigiane. Per correggere la supplica, se non per averla bell'e fatta
ricorse la Tullia al Varchi42, ed il dabben uomo volentieri si prestò a
tanto urgente favore, e della Tullia non è forse nel seguente documento che il
nome solamente.
«Ill.ma ed Ecc.ma Sig.ra Duchessa,
«Tullia Aragona, umilissima
servitrice di V. E. Ill.ma, essendo rifugiata a Firenze per l'ultima mutazione
di Siena, e non facendo i portamenti che l'altre fanno anzi non uscendo quasi
mai da una camera non che di casa, per trovarsi male disposta così dell'animo
come del corpo, prega V. E. affine che non sia costretta a partirsi, che si
degni d'impetrare tanto di grazia dall'Eccell.mo ed Ill.mo S.or Duca suo
consorte, che ella possa se non servirsi di quei pochi panni che le sono rimasi
per suo uso, come supplica nel suo capitolo, almeno che non sia tenuta
all'osservanza del velo giallo. Ed ella, ponendo questo con gli altri obblighi
molti e grandissimi che ha con S. E., pregherà Dio che la conservi sana e
felice».
La cortigiana ottenne favore presso
la duchessa; Cosimo scrisse di suo pugno sull'istanza «Fasseli gratia per
poetessa»; e queste parole sono autenticate dalla soscrizione di Lelio
Torelli, ministro del granduca. I luogotenenti del duca rilasciarono quindi
all'Aragona, in data 1 maggio 1547, copia della deliberazione nella quale
riconoscendo «la rara scientia di poesia e filosofia che si ritrova con piacere
di pregiati ingegni la detta Tullia Aragona venga fatta esente da tutto quello
a che ell'è obbligata quanto al suo abito, vestire e portamento43». Un
anno appresso, e precisamente nell'ottobre, scriveva al Varchi annunziandogli
la sua partenza, gli mandava in dono un paio di colombi, due fiaschi d'acqua
ed uno di malvagia, una saliera di alabastro, e da lui toglieva commiato
per sempre con lettera che il Varchi avrà certamente preso per buona moneta;
partiva quindi per Roma, dove il primo di febbraio del 1547 veniva a morte la
sorella Penelope, seguita poco appresso dalla madre. La Tullia abitava in Campo
Marzio nel palazzo Carpi, e nel libro della Tassa fatta alle cortigiane per
la reparatione del ponte (Rotto)44 consta che ella pagava di
pigione 40 scudi (in ragione tassata per scudi quattro) ed è una delle
cortigiane che pagava di più; poche giungono ai cinquanta scudi, rare quelle
che superano tal somma: evidentemente le condizioni finanziarie della Tullia
non erano troppo rilassate, e non crediamo, come dubita il Bongi, che il poco
profitto da lei ritratto in Firenze ed il desiderio di far esordire la Penelope
nella più vasta e ricca scena di Roma fosse causa della sua dipartita di colà;
nulla accenna pertanto avere la Penelope esordito nella triste carriera, anzi
l'essere ella morta non ancora quattordicenne fa credere, magari con un poco
d'ottimismo, che il desiderio della Giulia Campana forse più che della Tullia,
se esistito, non rimase che semplice desiderio.
La Tullia visse certamente in Roma
sino all'epoca di sua morte, che avvenne il 12 o 13 marzo del 1556. Era andata
ad abitare nel rione Trastevere, in casa dell'oste Matteo Moretti da Parma, ed
ivi il 2 marzo dello stesso anno dettava le sue ultime volontà al notaio
Virgilio Grandinelli45. Morta la Tullia ed apertone il testamento alli
14 di marzo, Pietro Ciocca in suo nome e per gli esecutori testamentari mons.
Antonio Trivulzio vescovo di Tolone e Mario Frangipane, chiese all'auditore
della Camera Apostolica un tutore per il giovinetto Celio. Tale ufficio fu
conferito a D. Orazio Marchiani chierico pistoiese. Redatto l'inventario della
roba lasciata dalla Tullia si procede alla vendita secondo le sue volontà; gli
ori e le gioie furono acquistati dagli orafi Pompeo Fanetti a Santa Lucia della
Chiavica, Maurizio Grana piemontese e Francesco Alarçon spagnolo al Pellegrino;
la mobilia da Giovanni Battista della Valle fiorentino e Francino Francini
d'Arezzo rigattiere a Monte Giordano. A quest'ultimo toccò in un con gli arnesi
di cucina «una cassa vecchia nella quale c'erano trentacinque libri tra volgari
e latini di più et diverse sorte, et tredici di musica tra usati, vecci, et
stracciati et diverse altre carte et libri già stracciati». Ai singoli legati fu
adempiuto con rogiti speciali; in uno di questi Celio non solo herede
della Tullia ma figliuolo è chiamato. Di questo Celio e del Marchiani
nessuna notizia giunse sino a noi; forse lasciarono Roma, ed il tutore,
pistoiese, riedendo alla nativa citta, avrà menato seco il fanciullo: è certo
che di essi perdesi la traccia dopo la morte della Tullia, nè le carte
dell'archivio romano, esaminate dal cav. Corvisieri, ci possono dire quale sia
stata la sorte del fanciullo. Che il padre fosse lo stesso Ciocca come altri
supposero, non crediamo, parendoci allora superflua la nomina di un tutore, e
dovendo in tal caso ammettere che il Celio fosse nato in Roma dopo il 1547,
cosa molto improbabile e per le condizioni fisiche della Tullia e per
l'appellativo di giovinetto che viene dato al Celio, come ancora non lo
supponiamo figliuolo del Guicciardi. L'Aragona conobbe forse il Ciocca in
Venezia, essendo questo al servizio del Cornaro, ma a tale epoca non può
risalire la nascita di Celio; dubitiamo anzi, sempre però su deduzioni, che la
nascita di questo fanciullo fosse causa della dipartita dell'Aragona da
Firenze.
La Tullia era di alta statura, non
bella ma piacevole46, gli occhi bellissimi e splendidissimi, e «nei
movimenti loro una certa forza vivace che parea gittassero fuoco negli altrui
cuori», forza provata dal Muzio che cantava:
.....occhi
belli,
occhi leggiadri, occhi amorosi e
cari,
più che le stelle belli e più che il
sole,
i capelli finissimi di un biondo oro, esaltati spesso
da' suoi ammiratori, tra i quali il cardinale Ippolito de' Medici, al quale la
porpora non impediva di bruciare innanzi alla bella Aragonese il suo granello
d'incenso cantando:
se 'l dolce folgorar de i bei crini
d'oro,
e 'l fiammeggiar de i begli occhi
lucenti,
e 'l far dolce acquetar per l'aria i
venti
co 'l riso, ond'io m'incendio e mi
scoloro . . .
Nella pinacoteca Tosio di Brescia è conservato il
ritratto della poetessa dipinto da Alessandro Bonvicino detto il Moretto,
altri due veggonsi nell'edizione delle Rime fatta dal Bolifon e nel vol.
XII del Parnaso italiano. Di questi ultimi quale sia il valore non
possiamo certo dire.
Tra i molti adoratori che ebbe a
vantare la Tullia, Girolamo Muzio fu certo uno dei più costanti e veritieri, e
benchè quando fu preso d'amore avesse oltrepassati i quarant'anni, si sente
dalle sue rime che quell'affetto era serio e sincero, e che i versi esprimevano
molto meno di quel che il cuore sentiva; dedica alla Tullia le sue egloghe Amorose
che in realtà parlano assolutamente di lei sola, e del suo amore non cela nè
gli ardenti desideri nè le bramate conquiste. Con un verismo poco desiato certo
da qualsiasi donna, anche abituata alla rilassatezza della vita di Ferrara,
egli diceva alla Tullia:
Vien, Ninfa bella, e fra le molli
braccia
raccogli quel che con le braccia
aperte,
disioso t'aspetta, e nel tuo grembo
ricevi lieta l'infocato amante;
stringi e 'l bramoso amante, e
strette aggiungi
le labbra a le sue labbra, e 'l vivo
spirto
suggi de l'alma amata, e del tuo spirto
il vivo fiore ispira a le sue brame.
Le belle membra tue, morbide e
bianche,
ad Amor le consacra; ed al tuo
amante,
qual vite ad olmo avviticchiata e
stretta,
con lui cogli d'amore i dolci frutti.
Ma ben presto il Muzio recatosi a Milano
in missione per il Duca Ercole d'Este, fu obliato, almeno per del tempo, e
sostituito dal Bentivoglio; passata poi la Tullia da Ferrara a Venezia,
Bernardo Tasso prese il posto dei precedenti, almeno così ci lascia credere lo
Speroni che nel suo Dialogo la introduce «a far l'amore con lui,
presenti ed accettanti Nicolò Grazia e un altro spasimante Francesco Maria
Molza»; indi a Firenze variò tra il Varchi, Ippolito de' Medici, il Tolomei, il
Fracastoro, il Martelli, il Lasca, il Mannelli e lo Strozzi.
Vario e non sempre imparziale fu il
giudizio dei contemporanei e dei posteri verso l'Aragona; aspro e satirico
spesso sino a dare diritto di vilipenderla all'Aretino47 e al
Razzi48; buono e cortese ancora, come le testimonianze del Nardi e del
Muzio. Il Nardi, tradotta in lingua toscana un'orazione di M. T. Cicerone
(Venezia 1536) ne indirizzava un esemplare a Gian Francesco della Stufa con
incarico di presentarlo alla Tullia che per sè stessa oggi dirittamente da
ogni uomo è giudicata unica e vera erede così del nome e di tutta la tulliana
eloquenza; Girolamo Muzio che si consolò del matrimonio della Tullia
sposando circa il 1550 una damigella d'onore di Vittoria Farnese duchessa
d'Urbino, nella lettera dedicatoria premessa al Trattato del matrimonio,
scriveva: Già avviso di vedere in voi quella donna la grazia della cui
vergogna, come si legge nell'Ecclesiastico49, è più che oro preciosa...
Tale avviso che dovete esser voi facendo in tal guisa al mondo manifesto che
della vostra passata vita ne è stata cagione necessità, et di questa la vostra
libera volontà: che nel passato vi ha trasportata fortuna e che hor vi governa
la vostra virtù.
Frutto d'amore, ella visse sacra
all'amore e nulla varrebbe a scusarla della poca onestà della sua vita; ma se è
pur vero che gli abbietti trionfando della loro caduta trovano i buoni che li
ricoprono, concediamo a lei le attenuanti dell'esempio: e di esempio ne ebbe a
sufficienza, e per l'ambiente viziato nel quale nacque e visse, e nella stessa
madre che allegramente dava alla luce figliuoli sino al 1535 e con la massima
indifferenza li intitolava d'Aragona dopo sedici anni che il povero cardinale
era andato all'altro mondo.
*
* *
Tenuto conto delle condizioni in cui
svolgevasi la poesia nel XVI secolo, le rime dell'Aragona non mancano certo di
pregio; quantunque ancor essa che «volle avere il suo canzoniere50» non
eviti quella freddezza che nasce da ogni ripetizione, quella noia che
s'ingenera dalla descrizione di una passione misurata su i precetti rettorici e
smentita dal fatto e dai costumi. La Tullia fu petrarchista della miglior
acqua, e non poteva certo essere altrimenti; il Petrarca era l'idolo al quale
si prostesero quasi tutti i rimatori del cinquecento ed il modello su cui si formarono,
ricavando stima maggiore chi imitasse più servilmente il cantore di Laura,
rubandone al tempo stesso il pensiero e la forma. Tutte le cortigiane letterate
del cinquecento furono petrarchiste, se per altri il Petrarca era l'oracolo del
purismo, per esse non rappresentava che la teorica dell'amore; quest'amore
ideale o platonico, di Venere celeste, era cantato su tutti i toni, salvo poi
ad avere, di altro amore, una più ampia e sicura conoscenza, e tale influenza,
per donne quali l'Aragona, la Franco, la Stampa è spiegata dalla stessa
relazione del petrarchismo con la cortigianeria. Un Petrarchino di piccolo
formato, di edizione elegante era indispensabile al cortigiano effeminato e
strisciante, i leggiadri cavalieri di Roma mostravansi per via «andando soavi
soavi co' loro famigli a la staffa, su la quale tenevano solamente la punta del
piede, col Petrarchino in mano, cantando con vezzi51», ed i vagheggini
più aridi e stucchevoli, appena ricevuto un sorriso della donna amata correvano
«a casa a comporre una sestina, un madrigaletto, dove il cieco d'Adria non
s'accorge che la mariuola gli ha furfato in versi, senza essere discoverta da
nessuno». Dell'amore teoretico il Petrarca era il gran maestro per pratica e
per scienza; il suo canzoniere si allontana da quell'amore pratico del
cinquecento che si svolge in brutale sensualità, e in una brama di appetiti
animali trascinarono la società nella più completa dissolutezza, nelle forme
più sozze delle aberrazioni e del vizio; esso risponde all'amore intellettuale,
richiesto dall'umanesimo, che veniva considerato quale anello di congiunzione
con l'amore divino, e della cui infinità tratta l'Aragona in un suo
dialogo52.
Al contrario della Franco che canta
l'amore dei sensi, l'Aragona è tutto ideale, tutto spiritualismo; i suoi
affetti vogliono rasentare il cielo, e solo raramente trovasi qualche accenno
alla triste sua vita; è invasa dalla manìa di passare ai posteri insieme ai
letterati che ella canta, cerca ogni maniera di ricoprire la cortigiana con la
poetessa, ed eleva i suoi canti indistintamente a tutti, principi e cardinali,
letterati e soldati, uomini serii e burloni quali il Lasca; per lei l'uomo,
essere animato, è nulla: la fama di un uomo, il tutto; il solo affetto per il
giovane Mannelli si può credere sincero, tutte le altre proteste che inficiano
le rime e quei sonetti che cambiato indirizzo, giravano d'adoratore in
adoratore in edizioni stereotipe e consolavano tanto il Muzio che il
Martelli53, fanno a buon diritto dubitare di tutte queste espansioni
cantate così altamente e serenamente. E la manìa dell'Aragona è anche
spiegabile in altro senso. Cessate le seduzioni della bellezza tentava con
l'arte di riunire la compagine di quegli adoratori che si venivano
allontanando, e con la musica, il canto, le lettere cercare di sostenere i
bisogni della casa: le sue rime sono spesso forzate, e la eco dell'onda
classica da Orazio a Virgilio, da Dante a Petrarca viene spesso ad alimentare
l'agonia di una vita finita.
Delle imitazioni al Petrarca,
evidentissime e nel pensiero e nello stile, ne citeremo solo alcune poche a
titolo di saggio54.
Sonetto X, v. 12-15:
E se quassù giungesser gli occhi
vostri,
vedendo fatto me novo angeletto
qui bramareste, e non vedermi in
terra.
(PETRARCA, Madrigale III, v. 1-2).
Sonetto XXXI, v. 7-9:
E l'alto Iddio lodar ben spesso
suole,
dopo l'aspra fortuna,
spaventato nocchiero al porto
intorno.
(PETRARCA, Sonetto C, v. 1-2).
Sonetto XXXVIII, v. 12-14:
Non contenda rea sorte il bel desìo,
che pria che l'alma del corporeo velo
si scioglia, sazierò forse mia brama.
(PETRARCA, Sonetto IX, v. 12-14).
Sonetto XLII.
S'io 'l feci unqua, che mai non
giunga a riva
l'interno duol, che il cuor lasso
sostiene;
s'io 'l feci, che perduta ogni mia
spene,
in guerra eterna di vostr'occhi viva.
(PETRARCA, Canzone XV)
Sonetto XLIV, v. 13-14:
...volgendo a Roma 'l viso e a lei le
spalle,
se vuol l'alma trovar col corpo
unita.
(PETRARCA, Sonetto LXXXI, v. 3-4).
Sonetto LI, v. 12-14:
Benchè vostro valor eterna fama
per sè vi acquisti, caro mio signore,
quanto 'l sole gira e Battro
abbraccia e Tile.
(PETRARCA, Sonetto XCVI, v. 9-11).
Della Tullia giunsero a noi un Dialogo
dell'infinità di amore55, giudicato «uno dei dialoghi più vivi che
noi abbiamo, nell'ordine più basso degli scritti letterari del secolo
decimosesto . . . . . per una certa franchezza e disinvoltura, e anche talvolta
per una certa saporita fiorentinità ch'ella attinse per avventura dal suo
consorzio coi fiorentini e singolarmente col Varchi», ed un poema in ottava
rima: il Meschino e il Guerino56. Il Crescimbeni fa di questo
poema elogi sperticati, dicendo che «nella tessitura può paragonarsi all'Odissea
di Omero57», esso però è così inverosimile e contrario tanto alla
storia, alla cronologia, alla geografia, e con buona pace dell'ottimo abate,
anche al buon senso, che non sappiamo invero trovarvi alcuna analogia con
l'opera dell'Omero; lo stile ne è trascurato, e spesso conviene lavorare di
serio proposito per raccapezzare il senso di qualche ottava, i canti, trentasei
in tutto, appaiono disordinati e spesso senza nesso tra loro. La Tullia avverte
che trasse il poema da un vecchio romanzo spagnuolo in prosa, ma certamente
ella si servì di una traduzione e non del testo originale che vuolsi scritto in
italiano58. L'Aragona nella prefazione di questo poema si scaglia
contro il Boccaccio, e mentre lo compassiona perchè non seppe eleggere il verso
a forma del Decamerone, lo accusa che tante sue scellerate
novelle scritte con altrettante scellerate parole, servendo solo a
demoralizzare e rendere ridicoli i più santi vincoli della società, siano
impossibili a leggersi, senza frutti nocivi, da maritate e nubili, vedove e
monache, e persino cortigiane. Questi scrupoli che parrebbero curiosi nella
Tullia, sono da ella medesima spiegati, non essendo cosa nuova che ad una donna
per necessità o per altra mala ventura sua sia avvenuto di cadere in errore del
corpo suo e tuttavia si disconvenga non men forse a lei che alle altre l'essere
disoneste e sconcie nel parlare e nelle altre cose; ed ella, contrariamente al
Boccaccio, vuole scrivere per tutti, il suo poema potrà essere dato in mano
alla più pudica donzella senza alcun pericolo, volendo con esso porre un debole
argine a quell'invadente corruttela che ogni dì spandeasi con maggior forza e
brutalità, e pur sempre per opera dei letterati ed anche degli umanisti.
L'idea della Tullia, se togliesi quella sfuriata contro l'umanismo che proprio
non aveva a che fare, non era cattiva e sinceramente credette averla attuata
col suo Guerino; dichiarandosi di tutto debitrice a Dio solo «dal quale
solo viene ogni bene e da cui solo io riconosco questa gran grazia d'avermi in
questa mia età non ancor soverchiamente matura, ma giovenile e fresca, dato
lume di ridurmi col cuore a lui e di desiderare e operare quanto posso che il
medesimo facciano tutti gli altri così uomini e donne». Ma Dio non aveva
proprio nulla a che vedere col Guerino, ed è proprio il caso di ripetere
che quantunque il diavolo si vesta da frate, quattro dita di coda gli spuntano
sempre sotto la tonaca; infatti ciò che la Tullia narra del cavaliere di
Durazzo, di Brandisio e della figlia dell'albergatore nel canto VIII59,
e di Pacifero innamorato di Guerino nel canto X60, non è roba atta a
far mettere il poema vicino al libro di devozione di una vergine o di una
monaca. E pur tale era lo scopo.
In produzioni di uno stesso autore,
apparse anche a distanza di molti anni l'una dall'altra, ritrovasi sempre
qualche analogia, qualche difetto, alcun che di speciale, quasi direbbesi di
proprio, che le riavvicina e riunisce; nulla di ciò tra il Guerino e le Rime,
anzi una succinta critica forse allontanerebbe molto l'uno dalle altre.
Quantunque non sia il caso ora di formare tale confronto ed esaminare a fondo
il Guerino, non possiamo esimerci dal notare come la prefazione posta
innanzi al poema ci abbia fatto triste impressione, fino a crederla apocrifa
per ragioni che crediamo buone od almeno meritevoli di esame. Il Ranieri che
pubblicò il poema nel 1560 dicendo di averne curato l'edizione sul manoscritto
originale già da parecchi anni da lui posseduto, non fa parola
dell'Aragona che era morta nel 1556, e si profonde solo in ampie ed ampollose
proteste cercando di formare una dedica alla quale, per essere di qualche
valore, manca solo un poco di senso comune. E quel parecchi, posto lì
per indicare un lasso di tempo non superiore ai tre anni è per lo meno
superfluo: nè più lungo spazio di tempo crederemmo possibile ammettere perchè è
abbastanza ragionevole il supporre che l'Aragona avesse sino alla morte
conservato presso di sè quel lavoro. Il ricordo ancora che i libri e le carte
andarono in mano di un modesto rigattiere, non è privo di valore; se il
manoscritto del Guerino era tra la roba acquistata da Francino Francini,
uomo probabilmente ignorante e privo di criterio letterario, la sorte del
manoscritto era assicurata: finiva in qualche bottega di droghiere o salumaio.
Converrebbe adunque credere che o il manoscritto fosse tra le carte devolute a
Celio figliuolo dell'Aragona o che la Tullia ne avesse fatto un dono al Ranieri
qualche anno prima; ma ancora queste due supposizioni rasentano l'assurdo. Il
testamento della Tullia che pure è tanto minuzioso e preciso nei lasciti e
legati, non accenna a carte ed altri documenti spettanti al Celio; nè la Tullia
poteva donare il manoscritto al Ranieri o ad altri che a lui lo passassero,
perchè dal momento che ne aveva condotto a termine anche la prefazione, era
certo desiderio suo di darlo alle stampe, e per il nome che godeva e l'appoggio
dei letterati che facevanle corona non sarebbe stato difficile trovare un
tipografo che ne assumesse l'edizione. Se dobbiamo pur credere alla
dichiarazione della Tullia di avere composto il poema «in età ancor giovenile e
fresca», quando erasi decisa di darsi a Dio, conviene di necessità ammettere
che ella l'avesse scritto in Siena poco appresso il suo matrimonio col
Guicciardi, o in Firenze; mai in Roma ove tornando per l'ultima volta nel 1547
non era più in età giovenile e fresca, e l'essere ascritta nel ruolo delle
cortigiane pubbliche non era il migliore indizio dell'essersi data a Dio. Anche
a questa ipotesi si oppone una seria obbiezione. Era possibile all'Aragona dare
ad intendere agli eruditi, massime fiorentini, di aver tratto il Guerino
da un romanzo in prosa spagnuolo? Pure ciò afferma nella prefazione, e se il
poema non corrisponde esattamente al Guerino, in prosa, romanzo
cavalieresco del ciclo della Tavola Rotonda, è indiscutibile che da questo ne
trasse in massima parte le idee. Nessuno ignora la rinomanza che il Guerino
ebbe nei secoli XV e XVI; all'epoca dell'Aragona ne erano già state fatte sei
edizioni61, ed è certo sopra una di queste che fu condotta la riduzione
in rima. In conclusione non rifiutiamo al Guerino la maternità
dell'Aragona, la sua differenza con le Rime non è prova sufficiente a
porre dei dubbi; respingiamo però assolutamente quella prefazione che non è, nè
poteva essere della Tullia.
Per la ristampa delle rime abbiamo
usato l'edizione prima, Venezia 1547 (A) servendoci per le varianti delle
edizioni di Venezia, 1549, (B): ivi, 1560 (C): Napoli, 1593 (D): e delle Rime
raccolte dalla Bergalli-Gozzi (E): le abbiamo fedelmente riprodotte, salvo
allorchè gli errori erano evidenti, respingendo allora in nota la lezione
originale; quando le varianti assumevano importanza assoluta, come per i
componimenti tratti dai codici vaticano magliabecchiano, abbiamo stimato
necessario riprodurre entrambe le lezioni avvertendo di collocarle l'una a lato
dell'altra.
Dalla R. Biblioteca Vallicelliana
maggio 1891.
ENRICO CELANI
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