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Tullia d'Aragona
Le rime

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  • Poichè la carità del natìo loco mi strinse, raunai le fronde sparte... (DANTE, Inf. XIV).
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Poichè la carità del natìo loco

mi strinse, raunai le fronde sparte...

(DANTE, Inf. XIV).

 

Uno dei fatti più notevoli al principio del decimosesto secolo è senza dubbio l'apparire della cortigiana; figura degna di considerazione e di esame non ebbe pur anco uno storico che di lei si occupasse scrupolosamente e gelosamente, e, diseppellendo dalle biblioteche ed archivii i numerosi documenti che la riguardano, dasse compiuta questa pagina di storia che non è tra le ultime del nostro rinascimento. Il nome di cortigiana si collega certamente alla storia dell'umanesimo, ma quando, dove e come ebbe principio? Tale quesito non ha ancora risposta sicura. Arturo Graf1, che si occupò ultimo della questione con quell'acume di critica ed abbondanza di erudizione ben note, esita a dare giudizio decisivo, attendendo pur lui che nuovi studî e documenti traccino via più ampia e sicura per definire tale punto.

Lo sviluppo della cortigiana prodotto dalla rivoluzione sociale che si svolgeva nel rinascimento, adattato al nuovo regime di vita che rese allora meno dure e servili le leggi sul costume, viene certamente a smentire l'asserzione che il cinquecento fosse l'età più feconda di turpi vizii, e l'amor patico, nato nelle epoche di maggior coltura e diffuso su larga scala nel medio evo, trova a combatterlo questo sviluppo della cortigianeria e le leggi civili di quasi tutti gli stati italiani, mentre dal pergamo tuona aspra e minacciosa la voce di S.Bernardino2 e del Savonarola3; l'Ariosto stesso che non ne fu immune dichiara che nel 1518 il vizio si restringeva a pochi umanisti. Ed allora si disputa sulla teorica dell'amore che ha forti e strenui campioni; dell'amore libero tra liberi discorre Speron Speroni nel Dialogo d'amore ove introduce a parlare la Tullia d'Aragona e Bernardo Tasso, innamorati, e costretti a separarsi dovendo quest'ultimo andare a Salerno; dell'amor platonico, primi il Bembo e il Castiglione, il Piccolomini poi, che lo definisce «un desiderio di possedere con perfetta unione l'animo bello della cosa amata4» contrastando all'amore che anela il solo possesso del corpo. All'amore assolutamente libero, per il quale era inutile insistere dopo il lavorìo dell'Aretino, sono infirmate quasi tutte le liriche di cortigiane del cinquecento; rispecchiano quelle l'ambiente nel quale furono create, queste la cortigianeria nei luoghi ove la coltura era più vasta e diffusa: dalla corte pontificia a quella dei Medici, da Venezia a Siena.

Il rinascimento, rotti gli argini che opponevansi nel medio evo alla coltura della donna, condusse a due estremi sostanzialmente diversi che si disputarono il campo per quasi tutto il secolo decimosesto: la coltura seria e positiva da un lato, la licenza dall'altro: prodotta quest'ultima da male intesa libertà, condusse poi per inevitabile antitesi all'educazione claustrale. Di tale antitesi tramandarono documenti il Castiglione e il Garzoni; il primo, attribuendo al Bembo la dichiarazione poetica dell'amore e trasportando il lettore nella Corte di Urbino, ove le lettere e le arti erano tradizione, appalesa per bocca di Giuliano de' Medici, la cui consorte Filiberta fu cantata modello di femminili virtù, che «la coltura della donna deve rassomigliare a quella dell'uomo, cui ella è pari. Nei diversi rami della scienza e dell'arte essa deve possedere la conoscenza necessaria per parlarne con intelligenza e con senno anche quando queste non sono professate. La donna deve essere versata in letteratura, aver conoscenza di belle arti, essere esperta nella danza e nell'arte del vestire, saper evitare non meno ciò da cui si può supporre vanità e leggerezza, che quanto palesa mancanza di gusto. Il suo conversare, serio e faceto, dev'essere adatto alla convenienza de' casi, essa non deve mai parlare ad alta voce e con iscostumatezza, con malizia ed in modo da offendere, deve corrispon[spon]dere alla sua condizione con modestia e con modi convenienti, a cui è obbligata, verso quelli che costituiscono abitualmente la sua compagnia. Nel suo presentarsi e nel contegno sia aggraziata senz'affettazione. Le sue qualità morali, l'onestà e le virtù domestiche devono essere d'accordo con le intellettuali. Debb'esser casta, ma cortese: arguta ma discreta; ad ogni parola libera non dee fare un volto troppo severo. Sappia governar la casa e la sostanza e guidar l'educazione de' figliuoli. Non tenti d'imitar l'uomo negli esercizi del corpo, che a lui sono adatti ed a lui si richieggono. In tutto il suo essere, nel portamento, nell'andare e stare, nel parlare, mostri grazia, dolcezza femminile e non rassomigli all'uomo». E questi ammaestramenti seguirono donne d'illustre casata, quali Eleonora d'Aragona, Isabella d'Este, Ippolita Sforza, Elisabetta Gonzaga, e delle città ove l'elemento borghese ottenne spesso la supremazia ed il potere, resta il ricordo di Antonia Di Pulci e Lorenza Tornabuoni.

L'ambiente elevato e colto nel quale visse la cortigiana nel cinquecento non poteva non influire su di essa e spingerla a gareggiare con le donne oneste, spesso coltissime; troviamo infatti in tutte le nostre storie letterarie, vicino ai nomi di quelle due grandi che furono Vittoria Colonna e Veronica Gambara, due cortigiane: Veronica Franco e Tullia d'Aragona; e se tra loro molto lungi per costumi, non certo per meriti letterarii. Data questa coltura nella donna onesta doveva alla cortigiana richiedersi necessariamente di esserle pari se non superiore, avere vivace ingegno, voce bella e gradita, essere esperta nel suono e nella danza, maestra insomma in tutte quelle arti che, bramate o volute, erano poi, strano a considerarsi, altamente biasimate da uomini come l'Aretino e il Garzoni, che definiscono tali doti atte solo a sedurre ed attrarre. «Onde pensi che nascano i canti, i suoni, i balli, i giuochi, le feste, le vegghie, i concerti, i diporti loro, se non da quell'intento di aver l'applauso, il commercio, il concorso della turba infelice di questi amanti, che rapiti da quelle voci angeliche e soprane, attratte da quei suoni divini di arpicordi e lauti, impazziti in quei moti e in quei giri loro tanto attrattivi, consumati in quei giuochi sfarzevoli, rilegrati in quelle feste giulive, addormentati in quelle vegghie pellegrine, immersi in quei conviti di Venere, di Bacco, morti nel mezzo di quei soavi diporti, restino prigioni e servi del lor fallace ed insidioso amore?5» E dacchè siamo col Garzoni, che lasciò della cortigianeria la migliore delle testimonianze, non possiamo esimerci dal citare un altro particolare degno di nota che egli ci offre e riguarda il mezzano, che, dovendo esser in tutto degno della cortigiana che l'aveva prescelto, serve a gettare luce in quell'ambiente triste e tuttora oscuro. «Imita il grammatico nel scrivere le lettere amorose tanto ben messe, e tanto ben apuntate che rendono stupore, nel dettar politamente, nel spiegar galantemente, nell'esprimer secretamente il suo pensiero... appare un poeta nel descrivere i casi acerbi con pietà di parole, i fatti allegri con giubilo di cuore... porta seco i sonetti del Petrarca, le rime del Cieco d'Ascoli, l'Arcadia del Sannazaro, i madrigali del Parabosco, il Furioso, l'Amadigi, l'Anguillara, il Dolce, il Tasso, e sopra tutto i strambotti d'Olimpo da Sassoferrato, come più facili, sono i suoi divoti per ogni occasione... Si reca dietro qualche sonetto in seno, un madrigale in mano, una sestina galante, una canzone polita, con un verso sonoro, con uno stil grave, con parlar fecondo, con tropi eleganti, con figure eloquenti, con parole terse, con un dir limato, che par che il Bembo, o il Caro, o il Veniero, o il Gorellini l'abbiano fatto allora allora; e si mostra alla diva con lettere d'oro, con caratteri preziosi; si legge con dolcezza, si pronunzia con soavità, si dichiara con modo, si scopre l'intenzione, si manifesta il senso, e si palesa il fine del poeta... Con la musica diletta sovente le orecchie delle giovani, mollifica l'animo d'ogni lascivia, ruina i costumi, disperde l'onestà, infiamma l'alma di cocente amore, incende i spiriti di concupiscenza carnale; mentre si cantan lamenti, disperazioni, frottole, stanze e terzetti, canzoni, villanelle, barzellette, e si tocca la cetra, o il lauto, a una battaglia amorosa, a una bergamasca gentile, a una fiorentina garbata, a una gagliarda polita, a una moresca graziosa, e pian piano s'invita ai balli e alle danze, dove i tatti vanno in volta, i baci si fanno avanti le parole scerete...6». Questo procuratore di amore non è egli un tipo abbastanza curioso e interessante?

La cortigiana apparisce in Roma alcuni anni prima del 15007 e come tale è ufficialmente, se così è lecito dire, riconosciuta in documenti autentici della curia papale. In un censimento8 compilato d'ordine della suprema autorità di Roma, redatto certamente nel settennio corso dal 1511 al 1518, ove trovansi numerate case, botteghe, proprietari ed inquilini, e di tutti o quasi tutti si nota la patria, condizione ed arte, le cortigiane sono notate in numero esorbitante, spagnuole e veneziane in massima parte, e distinte in cortesane honeste, cortesane putane, cortesane da candella, da lume, e de la minor sorte. Una sola volta, e forse senza alcuna malizia, il compilatore della statistica dimentica l'aridità del suo lavoro e nota: «La casa di Leonardo Bertini habita Madonna Smeralda cura 3 figlie piacevoli cortegiane».

Il tipo dell'elegante cortigiana, dell'Aspasia del cinquecento, è l'Imperia, morta in Roma nel 1511 a soli ventisei anni,9 ricordata egualmente con ardore da storici e romanzieri, amata da Angelo del Bufalo e da Agostino Chigi il famoso banchiere10: celebrata da poeti e letterati, e presso la quale adunavasi il fiore della romana aristocrazia e convenivano uomini quali il Sadoleto, il Campani, il Colocci. Ebbe per maestro Domenico Campana detto Strascino. Di altre citansi le doti singolari: «Lucrezia Porzia, dice l'Aretino, pare un Tullio, e sa tutto il Petrarca e il Boccaccio a memoria ed infiniti e bei versi di Virgilio, d'Orazio e d'Ovidio e di molti altri autori11»: la Squarcina conosceva benissimo il greco: la Nicolosa leggeva i salmi in ebraico, e molte ancora che sarebbe ozioso il ricordare.

Malgrado tutto ciò la cortigiana del cinquecento era pur sempre quella del medio evo: tolta dall'ambiente che l'avvinceva, costringendola a piegarsi al rinascimento classico, rimaneva di essa la donna nella quale si alternavano tutti quei bassi sentimenti che erano diretta conseguenza della vita che conduceva. Però qualche barlume di affetto vero, potente, trovasi pur nella storia della cortigianeria: il Molza ed il Bandello non erano alieni dal credere che la cortigiana potesse veramente amare, noi, più scettici, crediamo con riserva a questo amore che poteva esser cagionato da interessi troppo palesi e reali, dubitiamo che la cortigiana avesse il cuore al di sopra della ragione, mentre accettiamo senza dubbio alcuno il fatto che nella prostituta di più bassa specie si rinvenisse l'amore nelle più forti sue manifestazioni. È questo un fatto che si ripete continuamente anche ai nostri giorni, e se discutibile dal lato psicologico, non cessa per questo di essere men vero. Ricordasi l'Aragona innamorata del Varchi e del Manelli: Camilla pisana dello Strozzi; Marietta Mirtilla del Brocardo, ed una certa Medea che in morte di Ludovico dell'Armi veniva consolata per lettera dall'Aretino; ma vogliamo proprio credere sul serio all'amore ispirato alla cortigiana da letterati? Questi erano allora come adesso, e come forse disgraziatamente lo saranno sempre, più ricchi d'ingegno, di madrigali, di epistole che di quattrini, esaltavano le cortigiane, dedicavano loro libri e capitoli e col sacrificio dell'amor proprio ricambiavano i favori lor concessi: Antonio Brocardo scrisse un'orazione in lode loro, il Muzio, il Tasso, il Varchi esaltarono l'Aragona: il Molza, Beatrice spagnola: Michelangelo Buonarroti, Faustina Mancina: Niccolò Martelli l'onorata madonna Salterella; e le cortigiane si abbarbicavano a questi letterati perchè da essi dipendeva in massima parte la rinomanza loro12. La Tullia d'Aragona è quella che nelle sue rime lascia maggiormente scorgere l'influenza dei letterati, sino a dubitare che alcune di esse siano opera del Varchi stesso, e in pari tempo la figura spiccata della strisciante cortigianeria che avviluppava anche allora i più minuscoli principi. L'antitesi è in Veronica Franco della quale daremo in breve le rime, divenute di meravigliosa rarità, desiderio ardente e inappagato di bibliofili senza numero, orgoglio di alcuni pochissimi più venturati13: essa è l'incarnazione della donna libera del cinquecento ed è l'unica che canti liberamente i suoi amori: non s'informa a platonismo o castità irrisori, ama per amare e soddisfare i sensi, e i suoi liberi amplessi, dice il buon P. Giovanni degli Agostini «con tal'arte seppe dipingerli e con tal frase adornarli che servono agl'incauti di vigoroso solletico alla concupiscenza14». Tale non può essere oggi il parere di coloro che si occupano seriamente della nostra letteratura: ogni pagina, bella o brutta, sana o impura, che venga a chiarire la nostra rinascenza, non è che contributo a lavoro maggiore, e come tale spero vorrà essere accolta questa mia debole fatica.

 

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Della Tullia d'Aragona parecchi si occuparono, in questi ultimi tempi: forse ne parlerà ancora il Bongi nel seguito de' suoi Annali del Giolito de' Ferrari, editi dal Ministero della Pubblica Istruzione; certamente poi il Biagi in altra edizione di un suo scritto apparso nella Nuova Antologia del 1886; ma stimo che la biografia della poetessa poco abbia più da offrire a così insistenti e dotti ricercatori, perchè la sua vita è quasi tutta delineata, e molto nettamente per l'epoca nella quale visse e la vita nomade che ebbe a condurre. In ogni modo augurando sempre nuova luce, basta al mio assunto ritrarre in poche linee la vita della Tullia, servendomi anche di documenti finora non messi a profitto dai due egregi scrittori.

Il Crescimbeni15, il Quadrio16, il Mazzuchelli17, il Tafurri18, e ultimo ancora Pietro Vigo19 credettero la Tullia napolitana; lo Zilioli20 seguito dal Canestrini21 e dal Labruzzi22 la dissero romana a ciò confortati, prima che altre testimonianze venissero a luce, dalle precise dichiarazioni che Girolamo Muzio fa nell'egloga Tirrenia a lei dedicata23. Infatti la Tullia nacque in Roma da Giulia Campana ferrarese24 e dal cardinale Luigi d'Aragona25. L'anno di sua nascita è ignoto: il Labruzzi e poi il Biagi26 considerando che nel 1519 il padre di lei era già morto e che nel 1527 ella era già nota nel mondo galante, pongono la nascita circa il 1505, basando anche tale congettura sulla novella VII degli Ecatommiti di Giovanni Battista Giraldi. Sta infatti che il Giraldi finge sia raccontata la novella di Nana e Saulo nel 1527 al tempo del sacco di Roma, ma vuolsi proprio accettare quella data senza dubbio alcuno e su di essa basare deduzioni storiche, quando nella stessa opera rinvengonsi altri episodi che forse non reggerebbero ad una severa critica e sono falsati nelle date come quelli di Celio Calcagnini e del Giovio? Non potrebbe il Giraldi aver fatto risalire la partenza della Tullia al 1527 per acconciarvi quella pur strana e sudicia novella, scritta molti e molti anni dopo il sacco di Roma e che vide la luce, se non erriamo, solo nel 1565? A noi il Giraldi non prova nulla; più fiduciosi in un passo dei Ragionamenti dell'Aretino che rivelano come l'anno 1519 la Giulia ferrarese partisse da Roma per Siena con la sua picciola figliuola, siamo stimolati a credere essere la Tullia nata sullo scorcio del primo decennio del decimosesto secolo.

Della giovinezza della nostra poetessa poche notizie giunsero sino a noi; forse visse in Firenze circa il 1517 e 151827, indi a Siena, ove «imparò a parlare sanese» poi «vedendo la madre che costei haveva di virtù principio grande considerò che Roma è terra da donne, e massime che ella sapea l'usanza della corte e così l'ha fatta cortigiana28». E questo principio grande di virtù era infatti posseduto dalla Tullia, alla quale gli agî procuratile dal cardinale d'Aragona avevano permesso di addestrarsi in tutte le arti della seduzione, vivendo tra le delizie e le comodità d'una onorata fortuna che l'amorevolezza del padre le aveva lasciata tendendo agli studi nei quali fece tanto profitto che non senza stupore degli uomini dotti fu sentita in età ancor fanciullesca disputare e scrivere nel latino e nell'italiano cose degne di ogni maggior letterato, onde arrivando al fine dell'età e accompagnando alla sapienza e virtù sua un'isquisita delicatezza di maniere e di costumi, si acquistò il nome di compitissima sopra ogni altra donna del tempo suo. Compariva con tanta leggiadria in pubblico e con tanta venustà ed affabilità d'aspetto che aggiungendovisi la pompa e l'adornamento degli abiti lascivi, pareva non potersi ritrovare cosa più gentile più polita di lei. Toccava gli strumenti musicali con dolcezza tale e maneggiava la voce cantando così soavemente che i primi professori degli esercizi ne restavano meravigliati. Parlava con grazia ed eloquenza rarissime, sì che o scherzando o trattando davvero, allettava e rapiva a , come un'altra Cleopatra, gli animi degli ascoltanti e non mancavano sul volto suo sempre vago e sempre giocondo quelle grazie maggiori che in un bel viso per lusingar gli occhi degli uomini sensevoli sogliono essere desiderate29.

La Tullia tornata in Roma certamente poco dopo la morte del padre vi rimase, secondo ogni probabilità, e magari contro il malevolo Giraldi, sino al 1531, e in questo stesso anno si recò a Ferrara ove conobbe Girolamo Muzio. L'autore degli Ecatommiti alla partenza da Roma della Tullia, una ragione abbastanza disonorevole. Egli narra, come convenendo in casa dell'Aragona parecchi giovani romani, uno di questi, che chiama Saulo, invaghitosene al sommo, molto spendesse e si adoperasse perchè a lei nulla venisse a mancare delle agiatezze nelle quali era cresciuta. Dimorava nella stessa epoca in Roma un tedesco, detto Gianni, uomo ricchissimo, ma così sudicio e pieno di lordura che faceva nausea a solo vederlo; costui innamorato della Tullia, tanto insistette che ottenne di essere compiaciuto di lei per una settimana di seguito al prezzo di cento scudi per notte. La Tullia acconsentì; non resse però che una sola notte tanto era il puzzo che esalava quel ricco tedesco. Risaputosi ciò da Saulo e da' suoi amici, ne furono sdegnati, e mai più vollero metter piede in casa dell'Aragona; talchè ella vedendosi disprezzata e sfuggita, se ne partì da Roma. Il Tiraboschi cita una satira di Pasquino contro di lei30, dalla quale parrebbe che si fosse diretta a Bologna, ma se veramente vi andasse, e certo dopo il 1531, non si conosce, come del pari rimase sinora ignota la satira summentovata.

Che l'Aragona fosse in Roma nell'anno suddetto è chiaramente provato da una lettera che Francesco Vettori scriveva da Firenze a Filippo Strozzi li 14 Febbraio 1531. Questi chiamato in Roma da Clemente VII sotto pretesto di rivedere alcuni conti, ma in realtà per aiutarlo a introdurre in Firenze «un governo o vogliamo chiamarlo stato, nel quale i magistrati della città governino in nome suo, in fatti il Duca governò in tutto,31» scriveva al Vettori richiamandolo di aiuto e consiglio; e questi rispondendo conchiudeva: «E perchè mi scrivete con la Tullia accanto, non vorrei la leggessi similmente con essa accanto, perchè amandola voi come femmina che ha spirito, perchè per bellezza non lo merita, non vorrei mi potesse nuocere con qualcuno di quelli ch'io nomino. Io non sono per ammonire Filippo Strozzi, ancorachè, se le ammonizioni ricorregghino, non avete aver per male essere ammonito, ma ho inteso di non so che cartelli e di sfide andate a torno che mi hanno dato fastidio pensando che un par vostro, uomo di 43 anni, voglia combattere per una femmina, e benchè io creda sareste così atto all'arme come siete alle lettere ed a ogni altra cosa dove ponete la fantasia, non vorrei di presente vi metteste a questo pericolo di voler combattere per causa tanto leggiera; e vi ricordo che degli uomini come voi ne nascono pochi per secolo; e questo non dico per adulazione. Assettate le faccende vostre e poi tornate a rivederci». Pare che il consiglio del Vettori riuscisse caro e salutare allo Strozzi: in un cartello di sfida che conservasi in un codice Rinucciniano, ed è di quell'anno stesso in vano si cercherebbe il suo nome tra i sei campioni della Tullia32.

Partita da Roma, la Tullia si recò certamente a Ferrara, ed ivi reduce di Francia capitava poco dopo il Muzio; nel 1535 era a Venezia ove nacque la sorella Penelope33, e nel 1537 nuovamente a Ferrara seguendo di pochi giorni l'arrivo in questa città della marchesa di Pescara. Conobbe certamente allora il sanese Bernardo Ochino che appunto nella quaresima avea predicato ivi con mirabile fervore, e gli diresse il sonetto XXXV trattandolo poco cortesemente, e chiamandolo arrogante, perchè avea dal pergamo fulminato «le finte apparenze, e il ballo, e il suono», dono fatto da Dio agli uomini «ne la primiera stanza». Nello stesso anno le accadde una strana avventura, narrata da un Apollo novellista alla marchesa Isabella d'Este con lettera dei 13 giugno34, e tale avventura servì mirabilmente per porla in buona vista, formare quella reputazione di onesta che la fama e le pasquinate avevano molto deteriorata, radunarle intorno un'eletta schiera di poeti e gentiluomini che adulandola, corteggiandola, facessero dimenticare il suo passato poco onorevole per riconoscere solo in lei la poetessa, la letterata, la discendente di sangue reale: e riuscì in massima parte; il Muzio e il Bentivoglio le profusero lodi e adulazioni in rima e in prosa, e la Tullia era posta al di sopra di Vittoria Colonna. Ancora una volta la cortigiana trionfava.

Da Ferrara la Tullia ritornò forse a Venezia, almeno così il Dialogo dello Speroni fa credere; poi a Siena ove si accasò nel 154335. I documenti senesi che riguardano la Tullia dànno a conoscere una circostanza abbastanza seria per non essere lasciata senza esame e cioè che ella era, legalmente almeno, figlia di Costanzo Palmieri d'Aragona; ed infatti nell'atto di matrimonio è detta Tullia Palmeria de Aragonia, ed in altro documento ancor più chiaramente «Filia quondam Constantii de Palmeriis de Aragona». In base a tali documenti, eliminando del tutto l'ipotesi che ella fosse stata adottata da un Palmieri, conviene credere ad un matrimonio della Giulia Ferrarese, al quale non possiamo dare, neppure per approssimazione, una data qualsiasi. L'Aretino, il Domenichi, il Franco che citano la Giulia e ne parlano spesso diffusamente, mentre dànno particolari su altri amanti tacciono affatto di tale matrimonio; neppure un barlume ne apparisce nelle rime della Tullia e nelle lettere che di lei ci pervennero; parlando della propria famiglia dice mia madre, mia sorella, ed io; tace il Muzio, che, pur dando la paternità del cardinale d'Aragona alla Tullia, nulla impediva potesse parlarne nell'egloga dedicata alla Penelope nata molti anni dopo; ne tacciono assolutamente tutti i biografi. Ed apparisce del pari per la prima volta, almeno così ci consta, una casata Palmieri che abbia aggiunto il nome d'Aragona al proprio; rimangono tracce dei Piccolomini-Aragona, dei Tagliavia-Aragonia, dei de Aragonia, romani, ma nessuna dei Palmieri-Aragona. Questa casata non viene poi più a luce sulla tomba della Penelope che porta solo il nome di Aragona, nel testamento della Tullia ove non sono più mentovati padre, madre, marito. Una volta ancora, innanzi all'arida autenticità dei documenti, si oppone la tradizione, ferma, costante; essa vuole la Tullia figlia del cardinale d'Aragona e nel fatto nulla varrà a scemarla. Su questo padre più o meno putativo, che apparisce quasi per sua disgrazia, molte sarebbero le supposizioni a farsi; era forse un familiare del cardinale d'Aragona che acconsentì a sposare la Giulia Campana a prezzo d'oro, o qualche vanitoso che a scapito del suo amor proprio con l'acquisto della Tullia aggiunse al suo il casato degli Aragonesi? in ogni modo è assolutamente da escludere che quel de Aragonia stia per fissaril luogo natio di quel buon Palmieri. Non ci peritiamo rispondere a quesìti così ardui ed anche inutili; bastano per noi tutte le testimonianze dei contemporanei a stabilite che la poetessa fu, pure illegittimamente, del sangue d'Aragona.

Sembra che in Siena ella fosse perseguita da malevoli che l'accusarono agli Esecutori Generali di Gabella di vestire e portare ornamenti vietati alle meretrici dagli statuti del Comune; fu agitato per ciò un processo nel febbraio del 1544, dal quale constando la vita onesta e morigerata della Tullia, le fu permesso di vestire ed abitare al pari di altre persone nobili ed oneste36. Non cessò per  questo la malevolenza contro la Tullia e nell'agosto dello stesso anno37 fu ancora denunciata per aver portato la sbernia il giorno di Pasqua, e tra i denunziatori apparisce Ottaviano Tondi, novesco, causa di torbidi in Siena per avere ucciso uno di parte popolare38, e che la Tullia pianse morto un anno appresso in un sonetto diretto al fratello Emilio39. Certo ella ignorava il servizio che il buon novesco aveva tentato di renderle.

Sullo scorcio del 1545 la Tullia se ne venne a Firenze ove contrasse stretta amicizia col Varchi, col Martelli e parecchi altri, dei quali ci rimasero testimonianze nelle rime e nelle lettere di lui edite dal Biagi e dal Bongi40. E qui ancora doveva essere perseguitata dalle severe leggi sui costumi e sugli ornamenti et habiti degli huomini e delle donne. Il 19 ottobre 1546 il Duca Cosimo promulgava una di quelle leggi41, ma la Tullia che credeva oramai per la fama di poetessa di non essere più compresa nel ruolo delle cortigiane, non se ne diè per intesa, sin che nell'aprile dell'anno appresso fu invitata dal Magistrato ad ottemperare alla legge mettendo sul vestito qual cosa di giallo che doveva servire a distinguerla dalle oneste gentildonne. La Tullia ricorse a D. Pietro di Toledo nipote della duchessa Eleonora, che la consigliò presentare alla Duchessa una supplica unita ai sonetti a lei scritti da illustri letterati, a significare l'errore del magistrato di giustizia nell'annoverarla tra le cortigiane. Per correggere la supplica, se non per averla bell'e fatta ricorse la Tullia al Varchi42, ed il dabben uomo volentieri si prestò a tanto urgente favore, e della Tullia non è forse nel seguente documento che il nome solamente.

 

«Ill.ma ed Ecc.ma Sig.ra Duchessa,

 

«Tullia Aragona, umilissima servitrice di V. E. Ill.ma, essendo rifugiata a Firenze per l'ultima mutazione di Siena, e non facendo i portamenti che l'altre fanno anzi non uscendo quasi mai da una camera non che di casa, per trovarsi male disposta così dell'animo come del corpo, prega V. E. affine che non sia costretta a partirsi, che si degni d'impetrare tanto di grazia dall'Eccell.mo ed Ill.mo S.or Duca suo consorte, che ella possa se non servirsi di quei pochi panni che le sono rimasi per suo uso, come supplica nel suo capitolo, almeno che non sia tenuta all'osservanza del velo giallo. Ed ella, ponendo questo con gli altri obblighi molti e grandissimi che ha con S. E., pregherà Dio che la conservi sana e felice».

 

La cortigiana ottenne favore presso la duchessa; Cosimo scrisse di suo pugno sull'istanza «Fasseli gratia per poetessa»; e queste parole sono autenticate dalla soscrizione di Lelio Torelli, ministro del granduca. I luogotenenti del duca rilasciarono quindi all'Aragona, in data 1 maggio 1547, copia della deliberazione nella quale riconoscendo «la rara scientia di poesia e filosofia che si ritrova con piacere di pregiati ingegni la detta Tullia Aragona venga fatta esente da tutto quello a che ell'è obbligata quanto al suo abito, vestire e portamento43». Un anno appresso, e precisamente nell'ottobre, scriveva al Varchi annunziandogli la sua partenza, gli mandava in dono un paio di colombi, due fiaschi d'acqua ed uno di malvagia, una saliera di alabastro, e da lui toglieva commiato per sempre con lettera che il Varchi avrà certamente preso per buona moneta; partiva quindi per Roma, dove il primo di febbraio del 1547 veniva a morte la sorella Penelope, seguita poco appresso dalla madre. La Tullia abitava in Campo Marzio nel palazzo Carpi, e nel libro della Tassa fatta alle cortigiane per la reparatione del ponte (Rotto)44 consta che ella pagava di pigione 40 scudi (in ragione tassata per scudi quattro) ed è una delle cortigiane che pagava di più; poche giungono ai cinquanta scudi, rare quelle che superano tal somma: evidentemente le condizioni finanziarie della Tullia non erano troppo rilassate, e non crediamo, come dubita il Bongi, che il poco profitto da lei ritratto in Firenze ed il desiderio di far esordire la Penelope nella più vasta e ricca scena di Roma fosse causa della sua dipartita di colà; nulla accenna pertanto avere la Penelope esordito nella triste carriera, anzi l'essere ella morta non ancora quattordicenne fa credere, magari con un poco d'ottimismo, che il desiderio della Giulia Campana forse più che della Tullia, se esistito, non rimase che semplice desiderio.

La Tullia visse certamente in Roma sino all'epoca di sua morte, che avvenne il 12 o 13 marzo del 1556. Era andata ad abitare nel rione Trastevere, in casa dell'oste Matteo Moretti da Parma, ed ivi il 2 marzo dello stesso anno dettava le sue ultime volontà al notaio Virgilio Grandinelli45. Morta la Tullia ed apertone il testamento alli 14 di marzo, Pietro Ciocca in suo nome e per gli esecutori testamentari mons. Antonio Trivulzio vescovo di Tolone e Mario Frangipane, chiese all'auditore della Camera Apostolica un tutore per il giovinetto Celio. Tale ufficio fu conferito a D. Orazio Marchiani chierico pistoiese. Redatto l'inventario della roba lasciata dalla Tullia si procede alla vendita secondo le sue volontà; gli ori e le gioie furono acquistati dagli orafi Pompeo Fanetti a Santa Lucia della Chiavica, Maurizio Grana piemontese e Francesco Alarçon spagnolo al Pellegrino; la mobilia da Giovanni Battista della Valle fiorentino e Francino Francini d'Arezzo rigattiere a Monte Giordano. A quest'ultimo toccò in un con gli arnesi di cucina «una cassa vecchia nella quale c'erano trentacinque libri tra volgari e latini di più et diverse sorte, et tredici di musica tra usati, vecci, et stracciati et diverse altre carte et libri già stracciati». Ai singoli legati fu adempiuto con rogiti speciali; in uno di questi Celio non solo herede della Tullia ma figliuolo è chiamato. Di questo Celio e del Marchiani nessuna notizia giunse sino a noi; forse lasciarono Roma, ed il tutore, pistoiese, riedendo alla nativa citta, avrà menato seco il fanciullo: è certo che di essi perdesi la traccia dopo la morte della Tullia, le carte dell'archivio romano, esaminate dal cav. Corvisieri, ci possono dire quale sia stata la sorte del fanciullo. Che il padre fosse lo stesso Ciocca come altri supposero, non crediamo, parendoci allora superflua la nomina di un tutore, e dovendo in tal caso ammettere che il Celio fosse nato in Roma dopo il 1547, cosa molto improbabile e per le condizioni fisiche della Tullia e per l'appellativo di giovinetto che viene dato al Celio, come ancora non lo supponiamo figliuolo del Guicciardi. L'Aragona conobbe forse il Ciocca in Venezia, essendo questo al servizio del Cornaro, ma a tale epoca non può risalire la nascita di Celio; dubitiamo anzi, sempre però su deduzioni, che la nascita di questo fanciullo fosse causa della dipartita dell'Aragona da Firenze.

La Tullia era di alta statura, non bella ma piacevole46, gli occhi bellissimi e splendidissimi, e «nei movimenti loro una certa forza vivace che parea gittassero fuoco negli altrui cuori», forza provata dal Muzio che cantava:

 

.....occhi belli,

occhi leggiadri, occhi amorosi e cari,

più che le stelle belli e più che il sole,

 

i capelli finissimi di un biondo oro, esaltati spesso da' suoi ammiratori, tra i quali il cardinale Ippolito de' Medici, al quale la porpora non impediva di bruciare innanzi alla bella Aragonese il suo granello d'incenso cantando:

 

se 'l dolce folgorar de i bei crini d'oro,

e 'l fiammeggiar de i begli occhi lucenti,

e 'l far dolce acquetar per l'aria i venti

co 'l riso, ond'io m'incendio e mi scoloro . . .

 

Nella pinacoteca Tosio di Brescia è conservato il ritratto della poetessa dipinto da Alessandro Bonvicino detto il Moretto, altri due veggonsi nell'edizione delle Rime fatta dal Bolifon e nel vol. XII del Parnaso italiano. Di questi ultimi quale sia il valore non possiamo certo dire.

Tra i molti adoratori che ebbe a vantare la Tullia, Girolamo Muzio fu certo uno dei più costanti e veritieri, e benchè quando fu preso d'amore avesse oltrepassati i quarant'anni, si sente dalle sue rime che quell'affetto era serio e sincero, e che i versi esprimevano molto meno di quel che il cuore sentiva; dedica alla Tullia le sue egloghe Amorose che in realtà parlano assolutamente di lei sola, e del suo amore non cela gli ardenti desideri le bramate conquiste. Con un verismo poco desiato certo da qualsiasi donna, anche abituata alla rilassatezza della vita di Ferrara, egli diceva alla Tullia:

 

Vien, Ninfa bella, e fra le molli braccia

raccogli quel che con le braccia aperte,

disioso t'aspetta, e nel tuo grembo

ricevi lieta l'infocato amante;

stringi e 'l bramoso amante, e strette aggiungi

le labbra a le sue labbra, e 'l vivo spirto

suggi de l'alma amata, e del tuo spirto

il vivo fiore ispira a le sue brame.

Le belle membra tue, morbide e bianche,

ad Amor le consacra; ed al tuo amante,

qual vite ad olmo avviticchiata e stretta,

con lui cogli d'amore i dolci frutti.

 

Ma ben presto il Muzio recatosi a Milano in missione per il Duca Ercole d'Este, fu obliato, almeno per del tempo, e sostituito dal Bentivoglio; passata poi la Tullia da Ferrara a Venezia, Bernardo Tasso prese il posto dei precedenti, almeno così ci lascia credere lo Speroni che nel suo Dialogo la introduce «a far l'amore con lui, presenti ed accettanti Nicolò Grazia e un altro spasimante Francesco Maria Molza»; indi a Firenze variò tra il Varchi, Ippolito de' Medici, il Tolomei, il Fracastoro, il Martelli, il Lasca, il Mannelli e lo Strozzi.

Vario e non sempre imparziale fu il giudizio dei contemporanei e dei posteri verso l'Aragona; aspro e satirico spesso sino a dare diritto di vilipenderla all'Aretino47 e al Razzi48; buono e cortese ancora, come le testimonianze del Nardi e del Muzio. Il Nardi, tradotta in lingua toscana un'orazione di M. T. Cicerone (Venezia 1536) ne indirizzava un esemplare a Gian Francesco della Stufa con incarico di presentarlo alla Tullia che per stessa oggi dirittamente da ogni uomo è giudicata unica e vera erede così del nome e di tutta la tulliana eloquenza; Girolamo Muzio che si consolò del matrimonio della Tullia sposando circa il 1550 una damigella d'onore di Vittoria Farnese duchessa d'Urbino, nella lettera dedicatoria premessa al Trattato del matrimonio, scriveva: Già avviso di vedere in voi quella donna la grazia della cui vergogna, come si legge nell'Ecclesiastico49, è più che oro preciosa... Tale avviso che dovete esser voi facendo in tal guisa al mondo manifesto che della vostra passata vita ne è stata cagione necessità, et di questa la vostra libera volontà: che nel passato vi ha trasportata fortuna e che hor vi governa la vostra virtù.

Frutto d'amore, ella visse sacra all'amore e nulla varrebbe a scusarla della poca onestà della sua vita; ma se è pur vero che gli abbietti trionfando della loro caduta trovano i buoni che li ricoprono, concediamo a lei le attenuanti dell'esempio: e di esempio ne ebbe a sufficienza, e per l'ambiente viziato nel quale nacque e visse, e nella stessa madre che allegramente dava alla luce figliuoli sino al 1535 e con la massima indifferenza li intitolava d'Aragona dopo sedici anni che il povero cardinale era andato all'altro mondo.

 

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* *

 

Tenuto conto delle condizioni in cui svolgevasi la poesia nel XVI secolo, le rime dell'Aragona non mancano certo di pregio; quantunque ancor essa che «volle avere il suo canzoniere50» non eviti quella freddezza che nasce da ogni ripetizione, quella noia che s'ingenera dalla descrizione di una passione misurata su i precetti rettorici e smentita dal fatto e dai costumi. La Tullia fu petrarchista della miglior acqua, e non poteva certo essere altrimenti; il Petrarca era l'idolo al quale si prostesero quasi tutti i rimatori del cinquecento ed il modello su cui si formarono, ricavando stima maggiore chi imitasse più servilmente il cantore di Laura, rubandone al tempo stesso il pensiero e la forma. Tutte le cortigiane letterate del cinquecento furono petrarchiste, se per altri il Petrarca era l'oracolo del purismo, per esse non rappresentava che la teorica dell'amore; quest'amore ideale o platonico, di Venere celeste, era cantato su tutti i toni, salvo poi ad avere, di altro amore, una più ampia e sicura conoscenza, e tale influenza, per donne quali l'Aragona, la Franco, la Stampa è spiegata dalla stessa relazione del petrarchismo con la cortigianeria. Un Petrarchino di piccolo formato, di edizione elegante era indispensabile al cortigiano effeminato e strisciante, i leggiadri cavalieri di Roma mostravansi per via «andando soavi soavi co' loro famigli a la staffa, su la quale tenevano solamente la punta del piede, col Petrarchino in mano, cantando con vezzi51», ed i vagheggini più aridi e stucchevoli, appena ricevuto un sorriso della donna amata correvano «a casa a comporre una sestina, un madrigaletto, dove il cieco d'Adria non s'accorge che la mariuola gli ha furfato in versi, senza essere discoverta da nessuno». Dell'amore teoretico il Petrarca era il gran maestro per pratica e per scienza; il suo canzoniere si allontana da quell'amore pratico del cinquecento che si svolge in brutale sensualità, e in una brama di appetiti animali trascinarono la società nella più completa dissolutezza, nelle forme più sozze delle aberrazioni e del vizio; esso risponde all'amore intellettuale, richiesto dall'umanesimo, che veniva considerato quale anello di congiunzione con l'amore divino, e della cui infinità tratta l'Aragona in un suo dialogo52.

Al contrario della Franco che canta l'amore dei sensi, l'Aragona è tutto ideale, tutto spiritualismo; i suoi affetti vogliono rasentare il cielo, e solo raramente trovasi qualche accenno alla triste sua vita; è invasa dalla manìa di passare ai posteri insieme ai letterati che ella canta, cerca ogni maniera di ricoprire la cortigiana con la poetessa, ed eleva i suoi canti indistintamente a tutti, principi e cardinali, letterati e soldati, uomini serii e burloni quali il Lasca; per lei l'uomo, essere animato, è nulla: la fama di un uomo, il tutto; il solo affetto per il giovane Mannelli si può credere sincero, tutte le altre proteste che inficiano le rime e quei sonetti che cambiato indirizzo, giravano d'adoratore in adoratore in edizioni stereotipe e consolavano tanto il Muzio che il Martelli53, fanno a buon diritto dubitare di tutte queste espansioni cantate così altamente e serenamente. E la manìa dell'Aragona è anche spiegabile in altro senso. Cessate le seduzioni della bellezza tentava con l'arte di riunire la compagine di quegli adoratori che si venivano allontanando, e con la musica, il canto, le lettere cercare di sostenere i bisogni della casa: le sue rime sono spesso forzate, e la eco dell'onda classica da Orazio a Virgilio, da Dante a Petrarca viene spesso ad alimentare l'agonia di una vita finita.

Delle imitazioni al Petrarca, evidentissime e nel pensiero e nello stile, ne citeremo solo alcune poche a titolo di saggio54.

 

Sonetto X, v. 12-15:

 

E se quassù giungesser gli occhi vostri,

vedendo fatto me novo angeletto

qui bramareste, e non vedermi in terra.

(PETRARCA, Madrigale III, v. 1-2).

 

 

Sonetto XXXI, v. 7-9:

 

E l'alto Iddio lodar ben spesso suole,

dopo l'aspra fortuna,

spaventato nocchiero al porto intorno.

(PETRARCA, Sonetto C, v. 1-2).

 

 

Sonetto XXXVIII, v. 12-14:

 

Non contenda rea sorte il bel desìo,

che pria che l'alma del corporeo velo

si scioglia, sazierò forse mia brama.

(PETRARCA, Sonetto IX, v. 12-14).

 

 

Sonetto XLII.

 

S'io 'l feci unqua, che mai non giunga a riva

l'interno duol, che il cuor lasso sostiene;

s'io 'l feci, che perduta ogni mia spene,

in guerra eterna di vostr'occhi viva.

(PETRARCA, Canzone XV)

 

 

Sonetto XLIV, v. 13-14:

 

...volgendo a Roma 'l viso e a lei le spalle,

se vuol l'alma trovar col corpo unita.

(PETRARCA, Sonetto LXXXI, v. 3-4).

 

 

Sonetto LI, v. 12-14:

 

Benchè vostro valor eterna fama

per vi acquisti, caro mio signore,

quanto 'l sole gira e Battro abbraccia e Tile.

(PETRARCA, Sonetto XCVI, v. 9-11).

 

Della Tullia giunsero a noi un Dialogo dell'infinità di amore55, giudicato «uno dei dialoghi più vivi che noi abbiamo, nell'ordine più basso degli scritti letterari del secolo decimosesto . . . . . per una certa franchezza e disinvoltura, e anche talvolta per una certa saporita fiorentinità ch'ella attinse per avventura dal suo consorzio coi fiorentini e singolarmente col Varchi», ed un poema in ottava rima: il Meschino e il Guerino56. Il Crescimbeni fa di questo poema elogi sperticati, dicendo che «nella tessitura può paragonarsi all'Odissea di Omero57», esso però è così inverosimile e contrario tanto alla storia, alla cronologia, alla geografia, e con buona pace dell'ottimo abate, anche al buon senso, che non sappiamo invero trovarvi alcuna analogia con l'opera dell'Omero; lo stile ne è trascurato, e spesso conviene lavorare di serio proposito per raccapezzare il senso di qualche ottava, i canti, trentasei in tutto, appaiono disordinati e spesso senza nesso tra loro. La Tullia avverte che trasse il poema da un vecchio romanzo spagnuolo in prosa, ma certamente ella si servì di una traduzione e non del testo originale che vuolsi scritto in italiano58. L'Aragona nella prefazione di questo poema si scaglia contro il Boccaccio, e mentre lo compassiona perchè non seppe eleggere il verso a forma del Decamerone, lo accusa che tante sue scellerate novelle scritte con altrettante scellerate parole, servendo solo a demoralizzare e rendere ridicoli i più santi vincoli della società, siano impossibili a leggersi, senza frutti nocivi, da maritate e nubili, vedove e monache, e persino cortigiane. Questi scrupoli che parrebbero curiosi nella Tullia, sono da ella medesima spiegati, non essendo cosa nuova che ad una donna per necessità o per altra mala ventura sua sia avvenuto di cadere in errore del corpo suo e tuttavia si disconvenga non men forse a lei che alle altre l'essere disoneste e sconcie nel parlare e nelle altre cose; ed ella, contrariamente al Boccaccio, vuole scrivere per tutti, il suo poema potrà essere dato in mano alla più pudica donzella senza alcun pericolo, volendo con esso porre un debole argine a quell'invadente corruttela che ogni spandeasi con maggior forza e brutalità, e pur sempre per opera dei letterati ed anche degli umanisti. L'idea della Tullia, se togliesi quella sfuriata contro l'umanismo che proprio non aveva a che fare, non era cattiva e sinceramente credette averla attuata col suo Guerino; dichiarandosi di tutto debitrice a Dio solo «dal quale solo viene ogni bene e da cui solo io riconosco questa gran grazia d'avermi in questa mia età non ancor soverchiamente matura, ma giovenile e fresca, dato lume di ridurmi col cuore a lui e di desiderare e operare quanto posso che il medesimo facciano tutti gli altri così uomini e donne». Ma Dio non aveva proprio nulla a che vedere col Guerino, ed è proprio il caso di ripetere che quantunque il diavolo si vesta da frate, quattro dita di coda gli spuntano sempre sotto la tonaca; infatti ciò che la Tullia narra del cavaliere di Durazzo, di Brandisio e della figlia dell'albergatore nel canto VIII59, e di Pacifero innamorato di Guerino nel canto X60, non è roba atta a far mettere il poema vicino al libro di devozione di una vergine o di una monaca. E pur tale era lo scopo.

In produzioni di uno stesso autore, apparse anche a distanza di molti anni l'una dall'altra, ritrovasi sempre qualche analogia, qualche difetto, alcun che di speciale, quasi direbbesi di proprio, che le riavvicina e riunisce; nulla di ciò tra il Guerino e le Rime, anzi una succinta critica forse allontanerebbe molto l'uno dalle altre. Quantunque non sia il caso ora di formare tale confronto ed esaminare a fondo il Guerino, non possiamo esimerci dal notare come la prefazione posta innanzi al poema ci abbia fatto triste impressione, fino a crederla apocrifa per ragioni che crediamo buone od almeno meritevoli di esame. Il Ranieri che pubblicò il poema nel 1560 dicendo di averne curato l'edizione sul manoscritto originale già da parecchi anni da lui posseduto, non fa parola dell'Aragona che era morta nel 1556, e si profonde solo in ampie ed ampollose proteste cercando di formare una dedica alla quale, per essere di qualche valore, manca solo un poco di senso comune. E quel parecchi, posto per indicare un lasso di tempo non superiore ai tre anni è per lo meno superfluo: più lungo spazio di tempo crederemmo possibile ammettere perchè è abbastanza ragionevole il supporre che l'Aragona avesse sino alla morte conservato presso di quel lavoro. Il ricordo ancora che i libri e le carte andarono in mano di un modesto rigattiere, non è privo di valore; se il manoscritto del Guerino era tra la roba acquistata da Francino Francini, uomo probabilmente ignorante e privo di criterio letterario, la sorte del manoscritto era assicurata: finiva in qualche bottega di droghiere o salumaio. Converrebbe adunque credere che o il manoscritto fosse tra le carte devolute a Celio figliuolo dell'Aragona o che la Tullia ne avesse fatto un dono al Ranieri qualche anno prima; ma ancora queste due supposizioni rasentano l'assurdo. Il testamento della Tullia che pure è tanto minuzioso e preciso nei lasciti e legati, non accenna a carte ed altri documenti spettanti al Celio; la Tullia poteva donare il manoscritto al Ranieri o ad altri che a lui lo passassero, perchè dal momento che ne aveva condotto a termine anche la prefazione, era certo desiderio suo di darlo alle stampe, e per il nome che godeva e l'appoggio dei letterati che facevanle corona non sarebbe stato difficile trovare un tipografo che ne assumesse l'edizione. Se dobbiamo pur credere alla dichiarazione della Tullia di avere composto il poema «in età ancor giovenile e fresca», quando erasi decisa di darsi a Dio, conviene di necessità ammettere che ella l'avesse scritto in Siena poco appresso il suo matrimonio col Guicciardi, o in Firenze; mai in Roma ove tornando per l'ultima volta nel 1547 non era più in età giovenile e fresca, e l'essere ascritta nel ruolo delle cortigiane pubbliche non era il migliore indizio dell'essersi data a Dio. Anche a questa ipotesi si oppone una seria obbiezione. Era possibile all'Aragona dare ad intendere agli eruditi, massime fiorentini, di aver tratto il Guerino da un romanzo in prosa spagnuolo? Pure ciò afferma nella prefazione, e se il poema non corrisponde esattamente al Guerino, in prosa, romanzo cavalieresco del ciclo della Tavola Rotonda, è indiscutibile che da questo ne trasse in massima parte le idee. Nessuno ignora la rinomanza che il Guerino ebbe nei secoli XV e XVI; all'epoca dell'Aragona ne erano già state fatte sei edizioni61, ed è certo sopra una di queste che fu condotta la riduzione in rima. In conclusione non rifiutiamo al Guerino la maternità dell'Aragona, la sua differenza con le Rime non è prova sufficiente a porre dei dubbi; respingiamo però assolutamente quella prefazione che non è, poteva essere della Tullia.

Per la ristampa delle rime abbiamo usato l'edizione prima, Venezia 1547 (A) servendoci per le varianti delle edizioni di Venezia, 1549, (B): ivi, 1560 (C): Napoli, 1593 (D): e delle Rime raccolte dalla Bergalli-Gozzi (E): le abbiamo fedelmente riprodotte, salvo allorchè gli errori erano evidenti, respingendo allora in nota la lezione originale; quando le varianti assumevano importanza assoluta, come per i componimenti tratti dai codici vaticano magliabecchiano, abbiamo stimato necessario riprodurre entrambe le lezioni avvertendo di collocarle l'una a lato dell'altra.

 

Dalla R. Biblioteca Vallicelliana

maggio 1891.

 

ENRICO CELANI


 




1 Graf A. Atraverso il cinquecento. Torino, Loescher, 1888, pag. 215 e seg. - Nell'Hermaphroditus del Panormitano (1471) (Quinque illustrium postarum, Antonii Panormitani, etc. lusus in Venerem, Parigi, 1791), la cortigiana non apparisce ancora, come neppure ne è parola in Giano Pannonio (1472) Poemata, Trajecti ad Rhenum, 1784.



2 «Avetemi inteso voi donne? Che alla barba di tutti i sodomiti io voglio tenere colle donne, e dico che la donna è più pulita e preziosa della carne sua che non è l'uomo; e dico, che se egli tiene il contrario, egli mente per la gola» (S. Bernardino, Prediche volgari, ed. Bongi, pag. 380).



3 Le opere fatte da lui circa la osservanza dei buoni costumi furono santissime e mirabili, mai in Firenze fu tanta bontà e religione quanta a tempo suo... la sodomia era spenta e mortificata assai; le donne in gran parte lasciati gli abiti disonesti e lascivi; i fanciulli quasi tutti lavati da molte disonestà e ridutti ad uno vivere santo e costumato... portavano i capelli corti e perseguitavano con sassi e villanie gli uomini disonesti e giocatori e le donne di abiti troppo lascivi. (Guicciardini, Storia, fiorentina, cap. XVII).



4 Piccolomini A. Istituzione di tutta la vita, dell'uomo nato nobile et in città libera. Venezia, 1552.



5 Garzoni T. La piazza universale di tutte le professioni del mondo. Venezia, 1587, discorso LXXIV, pag. 597.



6 Garzoni T. Op. Cit., discorso LXXV, pag 605.



7 Giovanni Burchkardt maestro di cerimonie di Alessandro VI narra come l'ultimo d'ottobre 1501 cenarono nel palazzo apostolico, col Valentino, cinquanta cortigiane, le quali dopo cena danzarono ignude e diedero altre prove di valentia in presenza di Alessandro VI e della Lucrezia Borgia. «In sero fecerunt cenam cum duce Valentinense in camera sua, in palatio apostolico, quinquaginta meretrices honeste cortegiane nuncupate, que post cenam coreaverunt cum servitoribus et aliis ibidem existentibus, primo in vestibus suis, denique nude. Post cenam posita fuerunt candelabra communia mense in candelis ardentibus per terram, et projecte ante candelabra per terram castanee quas meretrices ipse super manibus et pedibus; unde, candelabra pertranseuntes, colligebant, Papa, duce et D. Lucretia sorore sua presentibus et aspicientibus. Tandem exposita dona ultima, diploides de serico, paria caligarum; bireta, et alia pro illis qui pluries dictas meretrices carnaliter agnoscerent; que fuerunt ibidem in aula publice carnaliter tractate arbitrio praesentium, dona distributa victoribus». Diarium sive rerum urbanorum commentarii, Parisiis, 1883-1885, tom. II, pag. 443, tom. III, pag. 167).



8 Armellini M. Un censimento della città di Roma sotto il pontificato di Leone X tratto da un codice inedito dell'Archivio Vaticano. Roma. Befani, 1887.



9 Cfr. Bandello, Novelle, parte III, nov. XLII; Valery, Curiositès et anecdotes italiennes, Paris, 1842; Giovio P., De piscibus romanis, cap V; Forcella V., Iscrizioni delle chiese di Roma, Roma, 1878. Per l'epitafio che dicesi posto sulla sua tomba crediamo siasi troppo facilmente accettata la tradizione che fosse in S. Gregorio; oltre la stranezza della lapide che certo non faceva bella figura in una chiesa, è oramai accertato che se pure l'epitafio fu composto non fu mai elevato sulla tomba dell'Imperia.

Di lei scrive il Bandello (op. cit, nov. XLIII): «Tra gli altri che quella (Imperia) sommamente amarono fu il signor Angelo del Bufalo, uomo della persona valente, umano, gentile e ricchissimo. Egli molti anni in suo poter la tenne, e fu da lei ferventissimamente amato, come la fine di lei dimostrò. E perciò che egli è molto liberale e cortese, tenne quella in una casa onoratissimamente apparata con molti servidori, uomini e donne, che al servizio di quella continovamente attendevano. Era la casa apparata e in modo del tutto provvista, che qualunque straniero in quella entrava, veduto l'apparato ed ordine de' servidori, credeva che ivi una principessa abitasse. Era tra l'altre cose una sala e una camerapomposamente adornate, che altro non v'era che velluti e broccati, e per terra finissimi tappeti. Nel camerino, ov'ella si riduceva, quand'era da qualche gran personaggio visitata, erano i paramenti che le mura coprivano, tutti di drappi d'oro, riccio sovra riccio, con molti belli e vaghi colori. Eravi poi una cornice tutta messa a oro ed azzurro oltremarino, maestrevolmente fatto, sovra la quale erano bellissimi vasi di varie e preziose materie formati, con pietre alabastrine, di porfido, di serpentino e mille altre specie. Vedevansi poi attorno molti cofani e forzieri riccamente intagliati, e tali che tutti erano di grandissimo prezzo. Si vedeva poi nel mezzo un tavolino, il più bello del mondo, coverto di velluto verde. Quivi sempre era o liuto o cetra con libri di musica, ed altri istromenti musici. V'erano poi parecchi libretti volgari e latini riccamente adornati. Ella non mezzanamente si dilettava delle rime volgari, essendole stato in ciò esortatore, e come maestro il nostro piacevolissimo messer Domenico Campana detto Strascino; e già tanto di profitto fatto ci aveva che ella non insoavemente componeva qualche sonetto o madrigale». Ed a proposito del celebre camerino seguita narrando come essendo andato a farle visita l'ambasciatore di Spagna, e avendo bisogno di sputare, trovò che il luogo meno improprio a ciò fare era il viso del servitore che gli stava alle spalle.



10 Cugnoni G. Agostino Chigi il Magnifico, Livorno, Vigo, 1879.



11 Aretino P. Ragionamento fra il Zoppino fatto frate e Ludovico puttaniere, Cosmopoli, 1660, pag. 442.



12 E poeti e letterati non isdegnavano la compagnia della cortigiana (Burchkardt. Diarium etc., ediz. cit. tom. III, pag. 209); Marco Bracci in una lettera ad Ugolino Grifoni segretario di Cosimo I scrive nel novembre 1557 che giunto in Perugia il cardinale Caraffa nipote di Paolo IV e il cardinal Vitelli «dopo cena pubblicamente fece andare in palazo tutte le putane che a quelli tempi se trovavano in Perugia quale furono in tutte quattordici; e presene per una e una per el cardinale Vitello el resto acomodoli a la sua famiglia. (Fabretti, La prostituzione in Perugia nei secoli XIV e XV, Torino, 1885, pag. 46).



13 Graf A. op. cit., pag. 350.



14 Theatro delle donne letterate, pag. 296.



15 Istoria della volgar poesia, vol. IV, pag. 67.



16 Storia e ragione d'ogni poesia, vol. II, pag. 235.



17 Gli scrittori d'Italia, vol. I, par. I.



18 Gli scrittori del regno di Napoli, tomo III, parte I.



19 Il Vigo pubblicava nel 1885 per nozze Grassi-Rinaldi il sonetto della Tullia all'Ochino (nella nostra edizione a pag. 39), e nella breve prefazione la dice napoletana.



20 Presso il Mazzuchelli, loc. cit.



21 Dell'infinità d'amore di Tullia Aragona edito dal Canestrini, Milano, 1867.



22 Bibliografia romana, Roma, Botta, 1880, vol. I, pag. 13.



23 Vedi a pag. 189, versi 27 e seg.



24 La Jole dell'egloga del Muzio è la Giulia ferrarese, anch'essa etèra famosa e della quale il Domenichi (Facezie, motti e burle, Venezia, 1558, pag. 28) ricorda un motto arguto e mordace. Papa Leone X aveva fatto aprire una nuova strada in Roma lastricata dai tributi che le puttane pagavano, nella quale scontrando la Giulia ferrarese una gentildonna l'urtò un poco. Allora la gentildonna adirata cominciò a dirle villania. Rispose la Giulia: «Madonna, perdonatemi, ch'io so bene che voi avete più ragione in questa via che non ho io». Nel citato censimento di Roma (pag. 42) ella apparisce come abitante nel rione Campo Marzio, in una casa sotto la parrocchia di S. Trifone di proprietà dell'Ordine Agostiniano.



25 Lo Zilioli che fu il più diffuso biografo dell'Aragonese le assegna per padre Pietro Tagliavia, di Aragona, arcivescovo di Palermo e cardinale di Santa Chiesa; e tale versione venne accolta dal Mazzuchelli, dal Tiraboschi, dal Cinguenè e dal Camerini. Ora quando il Muzio scrisse l'egloga alla Tullia quando l'Aretino nel dialogo tra il Zoppino e Ludovico, dialogo scritto certo prima del 1539, dice cardinale l'amante della Giulia ferrarese, il Tagliavia era stato assunto alla porpora. Lo fu solo sotto Giulio III l'anno 1553; in tal guisa viene esonerato di sua paternità poco lodevole. Escluso costui, l'unico cardinale che cronologicamente può dirsi padre della Tullia è Luigi d'Aragona, ascritto al sacro Collegio da Alessandro VI nel 1493, promulgato solo nel 1497. Nato in Napoli nel 1474 morì in Roma l'anno 1519 e fu tumulato nella chiesa di S. Maria sopra Minerva, ove vedesi tuttora il suo sepolcro con iscrizione fattagli fare dal cardinale Franciotto Orsini suo esecutore testamentario.



26 Biagi G. Un'etèra romana, Tullia d'Aragona. (Nuova Antologia. Serie III, vol. IV, 16 agosto 1886).



27 Dice il Muzio:

 

Visse in tenera etate presso a l'onde

del più bel fiume che Toscana onori.

(Sonetto I, v. 12-13, pag. 69).



28 Aretino P. Ragionamenti. loc. cit.



29 Zilioli, in Mazzucchelli, loc. cit. Molto diverso è però il ritratto che ne fa il Giraldi, e dall'odio che palesa parlando della Tullia fa se non credere, almeno dubitare che invano abbia picchiato alla porta della bella cortigiana. «Non è alcuno di voi, per quanto io stimo, egli dice, il quale non habbia conosciuto Nana, così detta non perchè ella sia piccola della persona, ma per mostrare la sua sconvenevole et non proportionata grandezza, con voce di contrario sentimento. Questa di casa Aragona si fa chiamare quantunque io intenda che di madre vilissima e di quella medesima vita che ella è in alcune paludi sie nata senza che la madre le habbia mai saputo dire chi suo padre si fosse. Venuta adunque nella nostra città, ove hora le pari a lei, per lo mal costume del nostro secolo, sono in più abondanza che non si converrebbe, si diè a fare guadagno di disonestamente, allettando i giovani con quegli adombrati colori di virtù, di che innanzi dicemmo. Et non pure traheva costei a i giovani con simili arti, i quali per lo più sono di poca levatura, ma così toglieva ella il senno ad alcuni huomini maturi e scientiati, che col promettere loro di lasciarli godere di lei, qualunque volta danzassero mentre ella toccava il leuto, facevano scalzi la resina, o la pavana, o quale altra sorta di ballo più l'era grato et poscia beffandoli li lasciava del promesso scherniti. (Ecatommiti, nov. VII).



30 Passione d'amore di mastro Pasquino per la partita della signora Tullia e martello di amore delle povere cortigiane di Roma con le allegrezze delle bolognesi. (Tiraboschi, Stor. letter. ital. vol. VII, pag. 1172). Di pasquinate alla Tullia o nelle quali ella sia mentovata non ci consta che il Trionfo della lussuria di mastro Pasquino stampato nel 1537, ove però è ricordata la Tullia solo come molto favorita. Il Biagi ricorda ancora lo sconcio sonetto: «Mentre alla Tullia la madre ragiona» firmato F. C. che conservasi in due codici Magliabecchiani.



31 Biagi G. op. cit.



32 «Considerando gli infrascritti cavalieri la virtù solamente esser quella che concede immortalità ad ogni animo generoso, liberandolo con la eterna fama da ogni oblivion che ne la labile e caduca memoria de li uomini aver loco possa, e che quella da ciascuno meritamente deve esser amata, reverita ed a quel sommo grado che per le umane forze sia possibile esaltata e tanto più quanto ella in persona si ritruovi di ogni altra grazia, e dono di fortuna e natura dotata; per tanto come veri fautori ed amatori di quella e per la verità della quale ogni nobil core deve sempre prender la protezione, e, quando in parte alcuna celarsi e occulta restarsi la veda, produrla in luce e qual chiaro sole farla a tutti risplendere ed apparire: non da alcuna altra passione o fine mossi ed indotti, si offeriscono non pregiudicando alle onorate leggi de la militar disciplina, a tutto il mondo, per un giorno valorosamente sostenere che la loro signora e padrona la Ill.ma S.ra Tullia de Aragonia per le infinite virtù quali in lei risplendono è quella che più merita che tutte le altre donne de la preterita, presente e futura etate; ed acciò che qualunque, de la sua immortal gloria invidioso, diversamente o parlasse o sentisse, possa presto certificarsi e risolversi; declarono detto sostenimento, doversi intendere totalmente secondo l'ordine de torniamenti de li antiqui e gloriosi cavalieri; e così gli inestimabili meriti de la prefata signora, se pure non fussino a sufficenza noti e chiari, secondo il dovere si manifesteranno a lo ardire e valor de li suoi servitori, similmente per tale occasione più celebri e palesi saranno, onde ciascuno poi non dubitano che confessare sarà costretto, sì come a loro non ritrovarsi cavalier di virtù superiori, così a la prefata signora pari o simile non esser mai stata o potere essere nei secoli futuri». I sostenitori del valore della Tullia erano Paolo Emilio Orsini, Accursio Mattei, Brunoro Neccia, Alberto Rippe, Marco da Urbino, e Bernardo Rinuccini.



33 Il Muzio nell'egloga VI del IV libro intitolata Argia, dice che la Penelope ebbe per patria

 

l'orribil Adria e que' secreti stagni

che le palustri lor superbe canne

cercan di pareggiar ai nostri allori.

per quelle contrade umide e salse

a la dolce e vezzosa fanciulletta

i lascivi delfin festosi giri

tessean saltando intorno; a la sua culla

le Nereidi portavano e i Tritoni

conche da i marin liti e fresche perle.

 

E più sotto lo stesso Muzio ci fa sapere come da Venezia muovesse con la madre e la Tullia per Ferrara.

 

Indi pargoleggiar su per le rive

fu vista un tempo del gran re de' fiumi;

poi come la guidava il suo destino

varcati d'Apennino i duri gioghi

tenne lunga stagione adorni e lieti

i poggi d'Arbia e le campagne d'Arno.

 

La sorella della Tullia morì di 13 anni ed 11 mesi nel febbraio del 1549 e fu sepolta nella chiesa di S. Agostino, innanzi all'altar maggiore. L'iscrizione sepolcrale è riportata dal Galletti e dal Forcella; in essa è chiamata Penelope Aragona, quasi la Giulia ferrarese per essere un tempo stata l'amante di un cardinale di casa Aragona avesse il diritto di chiamare Aragonesi anche i figliuoli nati parecchi lustri dopo che il buon cardinale aveva reso l'anima a Dio.



34 Riportiamo per brevità solamente il brano della lettera alla Isabella d'Este che più particolarmente riguarda la Tullia. «V. Ecc. intenderà come gli è sorta in questa terra una gentil cortegiana di Roma, nominata la S.ra Tullia la quale è venuta per istare qui qualche mese per quanto s'intende. Questa è molto gentile, discreta, accorta et di ottimi et divini costumi dotata; sa cantare al libro ogni motetto et canzone, per rasone di canto figurato; ne li discorsi del suo parlare è unica, et tanto accomodatamente si porta che non c'è homo donna in questa terra che la paregi, anchora che la Ill.ma S.ra Marchesa di Pescara sia ecc.ma, la quale è qui, come sa V. Ecc. Mostra costei sapere de ogni cosa, et parla pur sieco di che materia te aggrada. Sempre ha piena la casa di virtuosi et sempre si puol visitarla, et è riccha de denari, zoie, colanne, anella et altre cose notabile, et in fine è ben accomodata in ogni cosa . . . . . (Un'avventura di Tullia d'Aragona, nella Rivista storica mantovana, vol. I, fasc. 1-2, 1885)



35 Anno Domini M.D.XLIII indictione secunda die vero martis VIII mensis Ianuarii Silvester olim . . . . . de Guicciardis ferrariensis contraxit matrimonium cum D. Tullia Palmeria de Aragonia per verba de presenti et anuli dationem et receptionem respective in forma iuris et sacrorum canonum et omni meliori modo, etc. Rogantes, etc. Actum Senis. - Ego Sigismundus Mannius Ugolinius notarius rogatus. (R. Archivio di Stato in Siena, Scritture concistoriali, ad annum).



36     1544 Die dicto (5 februarii) de sero.

Hieronymus de Ballatis Prior

D. Achilles Orlandinus

Conterius de Sansedoniis

Franciscus Arengherius

 

. . . . . et deliberaverunt declarare et declaraverunt D. Tulliam de Aragona Sen. habitantem, non esse comprehensam in statuto meretricium, dantes licentiam omnibus et quibuscumque personis locandi domos dicte domine Tullie, et absque aliqua pena, et mandaverunt fieri decretum dicte declarationis et licentie in forma. Et fuit factum infrascripti tenoris:

 

Spectatissimi Domini Executores Generalis Gabelle Magnifici Comunis Sen., convocati et congregati solemniter, etc., audito pluries Domino Aurelio Manno Ugolino procuratore et eo nomine Nobilis domine Tullie filie quondam Constantii de Palmeriis de Aragona et uxoris domini Silvestri de Guicciardis ferrariensis, producente eius mandatum manu Ser Sigismundi Manni notarii, etc., exponente qualiter praefata Domina Tullia ob novam compilationem Statutorum Reipublicae Sen., a nonnullis videlicet indebite et iniuste reputatur et diffamatur, eidem non licuisse nec licere deferre nec portare vestes et alia ornamenta muliebra que licite sunt et conveniunt personis honestis et nobilibus, et commorari et habitare in locis civitatis in quibus licitum est habitare omnibus personis honestis et nobilibus; et quia rei veritas est, quod praefata D. Tullia ducet vitam honestissimam et propterea ea que supradicta sunt sibi non debent quoque modo esse prohibita, producente ad iustificationem predictum processum in Curia Domini Capitanei Iustitie Civitatis Sen., manu ser Lactantii Lucarini notarii publici Sen., nec non decretum magnificorum D. Secretorum Officialium Balie manu Ser Alexandri Boninsegni Notarii publici Sen., et petente in, de ut super predictis de opportuno iuris remedio providero et pro iustitia consulente indemnitati prefate Domine Tullie, servatis servandis, omni meliori modo;

Habita plena notitia et clara informatione de omnibus supra narratis de vita, moribus et honestate et qualitate dicte Domine Tullie, visu processu predicto et summa inde lata, testibus in eo examinatis decreto predicto, et omnibus denique visis, auditis et consideratis que videnda et consideranda erant, vigore auctoritatis eisdem concesse a Statutis Reipublicae Sen., servatis servandis et omni meliori modo, etc., Solemniter deliberaverunt prefatam D. Tulliam minime comprehendi in Statuto de meretricibus et questus sui corporis facentibus desponente, sibique licuisse et licere commorare et habitare in quibuscumque locis civitatis ad suum libitum, et vestes ac habitum deferre prout et sicut et in omnibus et per omnia licuit et licet personis et mulieribus honestis et nobilibus, et ita sibi licentiam et facultatem concesserunt, mandantes de predictis sibi publicum fieri decretum, et illud inviolabiliter osservari a quibuscumque personis tam publicis quam privatis sub pena comminationis arbitri quibuscumque in contrarium non obstantibus, et omni meliori modo, rebus tamen stantibus pro ut stant et non aliter nec alio modo. (Archivio di Stato in Siena, Buste degli esecutori di Gabella, 1544 gennaio I, 1545 giugno 30, c. 12-13).



37 Die 23 augusti (1544).

Operta la cassa fu retrovata una politia et acusa del tenore susseguente, cioè:

La Signora Tullia de Aragona per la pascha di Spirito Santo portò la sbernia contro li Statuti.

Ottaviano Tondi, Horatio Pecci, Il Signor Gaspare servitore del Signor D. Giovanni.

Vide in filo processum agitatum super vita causa ex quo apparet de sententia per quam fuit declaratum sibi licere portare sberniam istantibus omnibus, etc., (R. Archivio di Stato in Siena, Decreti, polizze, ecc. del Capitano di Giustizia del 1544, luglio-dicembre, c. 53).

I documenti da noi riportati a pag. XXXI-XXXVI furono rinvenuti nell'Archivio di Stato di Siena dal compianto Luciano Banchi.



38 Pecci G. A. Continuazione delle memorie storico-critiche della città di Siena fino all'anno M.D.LII. Siena, Bindi, 1758, vol. III, pag. 143.



39 Sonetto XXXVI.



40 Biagi G. op. cit. - Bongi S. Il velo giallo di Tullia d'Aragona. Estratto dalla Rivista critica della letteratura italiana, anno III, n. 3, marzo 1886.



41 «Le meretrici non possino portare vesti di drappo e seta d'alcuna ragione, ma sibbene quante gioie e quanto oro e argento esse vorranno, et sia tenuta portare un velo, o vero sciugatoio o fazzoletto o altra peza in capo che habbi una lista larga un dito d'oro o di seta o d'altra materia gialla e in luogo che ella possa essere veduta da ciascuno; et tal segno debbia portare a fine che elle sien conosciute dalle donne da bene e di honesta vita, sotto pena se la ne mancheranno di scudi dieci in oro di oro di sole per ciascheduna volta che le trasgrediranno e sian sottoposte al Magistrato delli spettabili Otto di Balìa, alli spettabili Conservatori di Legge, et alli Offitiali dell'Honestà intra li quali magistrati habbi luogo la preventione da distribuirsi come l'altre pene che di sotto si dichiareranno. (Contini. Legislazione toscana, vol. I, pag. 332).



42 Edita dal Bongi, op. cit., ed ancora dal Biagi.



43 Archivio di Stato in Firenze. Luogotenenti e Consiglieri di S. E. il Duca di Firenze. Deliberazioni, ad annum.



44 «La S.ra Tulja d'Araona a fronte alle dette dee dar per sua tassa imposta come di sopra S. 40 - 4». Archivio di Stato in Roma, Fabbriche camerali.



45 Il testamento fu rinvenuto nell'Archivio di Stato di Roma dall'archivista Cav. Costantino Corvisieri. - «Del 1556 a 2 de marzo. Al nome di Dio, &. Io Tullia de aragona sana per gratia di Dio de mente et intelletto benchè inferma del corpo volendo disporre dei miei beni acciò che doppo morte mia non ne nasca ad alcuno lite o scandalo, ordino et faccio il mio ultimo testamento et mia ultima volontà in questo modo che seguita, cioè: In prima racomando l'anima mia all'altissimo Dio et alla sua gloriosa Madre Vergine Maria et a tutta la corte del cielo. Lasso alla Lucretia mia creata moglie di Matteo hoste questo fornimento di camera cioè queste spalliere verde et questo letto ove io ora giaccio con suoi matarazzi, lenzuoli para uno et una coperta, fuorchè lo sparviere, et più una vesta di rascia negra usata aperta denanzi;

Item un roverso rosso nuovo, cioè una sottana de roverso, una saia biancha listata de pagonazo et una lionata, una montatura a la romana, cioè panno listato et lenzolo, dieci scudi d'oro et sia pagata del vino che io ho havuto da lei;

Item lasso alla putta Christofora mia serva sia vestita di panno ordinario negro et datole dieci scudi d'oro; item lasso alle povere orfanelle cinque scudi d'oro; item lasso alle monache convertite quella parte chelli viene in rigore della bolla; item lasso alla compagnia del crocifisso un paramento di taffetà negro leggiero semplice.

Item lasso a Santo Agostino un mezo scudo di cera ogni anno per ardere il de' morti a la mia sepoltura la quale se non serrà arsa alla mia sepoltura da i frati non sia obligato l'herede a darla più. Item lasso che ogni anno si dia mezo scudo per far dir la messa di San Gregorio per l'anima mia. Item lasso a mastro Panuntio medico una veste di rascia negra da medico che gli sia fatta nuova.

Item in tutti gli altri miei beni et in tutte le mie ragioni et attioni tanto presenti come d'avenire dovunque siano o saranno io instituisco e faccio e con la mia propria bocca nomino Celio che è in protettione de Messer Pietro Cioccha scalco del cardinale Cornaro, istituisco dicio et faccio detto Celio herede universale al quale lascio tutti i miei beni ragioni et attioni per ragione et causa de universale institutione con patto et conditione che detti miei beni siano venduti et fattone dinari siano posti in luogo chelli fructino possi disporre Celio altri della principal somma di detti dinari sinchè detto herede non sia all'età di anni venticinque, ma dell'entrata senne nutrisca et serva per impa[ra]re littere et altre virtù. Et se detto herede (che Dio non voglia) mancasse inanzi all'età di venticinque lascio et substituisco herede in vita sua Messer Pietro Chiocca suo protettore con condittione che ogni anno dia dieci scudi a una povera orfana da maritarsi, il restante senne serva messer Pietro per i suoi alimenti et dopo la morte di messer Pietro Chiocca si stribuisca ogni cosa ad opere pie et queste debbiano essere le mie ultime volontà, et mio ultimo testamento li quali voglio che vaglino in virtù et forza di testamento et ultime volontà et se in tal modo per alcun rispetto non potesse valere, voglio che vaglia in virtù et forza di codicillo et di donatione infra vivi o per causa di morte et in quel meglior modo che di ragione può e potrà valere e sostenersi. Et per essere io impedita ho fatto scrivere questo da persona a me fedele et io l'ho sottoscritto di mia propria mano in fede della verità questo di marzo 1556.

Item lasso di essere sepelita in Santo Agostino e nella sepoltura di mia madre et mia et alle mie esequie non voglio altro che i frati di Santo Agostino et la compagnia del Crocifisso della quale io sonno, et sia sepulta a ventiquattro hore senza cerimonie, semplicemente.

Et lasso et instituisco con ogni miglior modo et forma che fare et instituire se puote esecutori di questo mio testamento il Reverendo vescovo di Tolone e Messer Mario Fregapane, i quali supplico per l'amor de Dio et per la fede che ho in loro signorie che vogliano doppo la mia morte fare eseguire a puntino queste mie ultime volontà per magior dechiaratione della quale io come di sopra ho detto mi sottoscrivo di mia propia mano.

Io Tullia Aragona affermo quanto sopra et instituisco herede universale Celio come di sopra ho detto. A tergo autem, ecc L'entroacluso è il testamento di me Tullia Aragona il quale ho sottoscritto de mia propria mano et ligatolo con el filo et sigillatolo sopra esso filo il quale consegno a M. Virgilio Grandinelli notario pubblico presenti li testimonii sottoscritti da me rogati et non voglio sia aperto se non doppo la morte mia, et in fede di ciò mi sottoscrivo di mia propria mano. Io Tullia Aragona manu propria. Quorum testium etc. (Archivio di Stato in Roma, Not. A. C. vol. 6298, num. 69).



46 Il malevolo Giraldi scriveva di lei che aveva il viso non bello piacevole «il quale oltre la bocca larga et le labbra sottili era disordinato da un naso lungo, gibbuto et nella estrema parte grosso et atto a porre sommo difetto in ogni bella faccia s'egli tra le guancie vi fosse posto. (Ecatommiti, loc. cit.)



47 In una lettera datata di Venezia li 6 giugno 1537 e scritta allo Speroni esaltandogli il suo Dialogo egli diceva: La Tullia ha guadagnato un tesoro che per sempre spenderlo mai non iscemerà, e l'impudicitia sua per sì fatto onore può meritamente essere invidiata dalle più pudiche e dalle più fortunate.



48 Nella commedia del Razzi intitolata la Balia (Firenze 1560) in fine della scena VII dell'atto III leggesi:

 

LIVIO (padrone). Io non conobbi mai giovane di più alto animo di lei e di più elevato spirito

BROZZI (famiglio). O degli uomini inferma e instabil mente! Pur ora la chiamaste puttana e femmina di mondo, ed ora per contrario dite tanto ben di lei?

LIVIO. Sarebbe forse la prima nobile e d'animo grande che è stata puttana? Che è stata la Tullia d'Aragona, Isabella di Luna e altre?

 

Anche il Lasca che pure si atteggia, benchè un po' tardi, ad amante della Tullia, nel XXII madrigale lagnandosi che la sua donna, anch'essa cortigiana

 

lodata ancor non sia

con dolce stile e soave armonia,

 

dice che

 

celebrar si sente ognora

con gloria alta e divina

e Tullia e Totta e Fioretta e Nannina

che, bench'elle sieno oggi al mondo rare,

non si ponno agguagliare

alla Cecca gentil che m'innamora.



49 Noli discedere a muliere sensata et bona, quam sortitus es in timore Domini: gratia enim verecundiae illius super aurum. (Eccl. VII, 21).



50 Cereseto G. B. Storia della poesia in Italia. Milano, Silvestri, 1857, vol. I.



51 Aretino P. Ragionamenti. Cosmopoli, 1660, parte I, giornata III. - Graf A. op. cit. pag 19 e seg.



52 Il Domenichini nelle sue Facetie, etc. pag. 32, ricorda una disputa che alcuni cortigiani ebbero in casa dell'Aragona sui pregi del Petrarca.



53 Vedi nota a pag. 29.



54 Per i riscontri usiamo delle Rime di F. Petrarca con l'interpretazione di G. Leopardi e con note inedite di F. Ambrosoli. Firenze, Barbèra, 1879.



55 Questo dialogo fu edito in Venezia dal Giolito nel 1547 in-8 e ristampato a Milano nel 1864 dal Daelli nella sua Biblioteca rara con prefazione di Eugenio Camerini (Carlo Téoli).



56 Il Meschino e il Guerino. Poema. In Venezia, per Gio. Battista Melchior Sessa, 1560, in-4.



57 Crescimbeni, op. cit., vol. I, c. 341.



58 Gordon di Percel. Biblioth. des Romans, tom. II, pag. 193. - Crescimbeni, op. cit., vol. I, carte 331. - Fontanini G. Dell'eloquenza italiana, lib. I, cap. XXVI. - Zambrini F. Le opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV ecc. Bologna, Zanichelli, 1878. - Melzi. Bibliografia dei romanzi di cavalleria in versi e in prosa italiani. Milano, Daelli, 1865.



59 Produciamo a saggio del nostro asserto due sole ottave:

 

Ma de l'ostier l'innamorata figlia

non potendo frenar l'accesa voglia,

ch'ognun dorma per casa il tempo piglia

e poi d'ogni timor lieta si spoglia:

disiando il camin di molte miglia,

non pensa che 'l Meschin se ne distoglia:

ponglisi a canto ignuda, e gli si accosta

fu pari a la voglia la risposta.

 

Sveglia messer Brandisio, e fagli offerta

de la da lui già ricusata preda,

de la qual poi che 'l francioso s'accerta

non sa s'ancor ben chiaramente creda

s'ei non esce a battaglia più aperta

dicendo: E basta che mi si conceda,

ridendo seco, e franco s'appresenta

di sorta tal che la mandò contenta.

 



60 Mentre il Meschino è condotto alla corte di Pacifero le guide ammirandone il femmineo volto gli chieggono se egli sia uomo o donna: inteso essere uomo gli manifestano l'uso del paese, che ricordava quello di Sodoma. Il Meschino si sdegna, e vorrebbe non entrare in tal corte, ma il re gli fa promettere che sarebbe rispettato, e l'accolse benignamente con ogni onore.

 

E poi la sera volse ch'egli andasse

a cena seco e fu sopra un tappeto

disteso in terra, e tal fu la sua asse;

ma quel lussurioso ed indiscreto

senza aspettar che più 'l Meschin cenasse,

per mano il piglia e con atto inquieto

lo sfrenato desir gli fa palese

onde 'l Meschin di collera s'accese.

 

Rinchiuso in prigione per non aver voluto soddisfare Pacifero, vien salvato dalla figliuola del re, che innamoratasi di lui va continuamente a trovarlo ove spesso

 

. . . . . abbraccia al Meschin suo la gola

ma ben che freddamente fosse centa

da lui nel mezzo con le braccia, fece

quel che stimar si può, ma dir non lece.

 

E dopo due sole altre ottave l'innamorata donzella apparisce gravida.



61 Cf. Rajna P. Ricerche intorno ai Reali di Francia. Bologna, Romagnoli, 1872. - Il Zambrini e il Melzi citano le edizioni del Guerino nell'ordine seguente: Venezia 1473, Bologna 1475, Venezia 1477, ivi 1480, Milano 1480, ivi 1482. L'Aragona ignorava forse l'autore di esso che il Rajna afferma essere Maestro Andrea de' Magnabotti da Barberino di Valdelsa maestro di canto.






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